La Patera di Parabiago (da Flickr) |
La Patera di Parabiago è una coppa d'argento con figurazioni a rilievo che, secondo le indicazioni del possessore - il senatore del Regno d'Italia Felice Gajo - venne rinvenuta nel 1907 durante i lavori per la risistemazione del giardino interno della villa di quest'ultimo, nei pressi di Milano.
La Patera venne, nel 1929, segnalata all'allora soprintendente Alda Levi Spinazzola, che riuscì ad acquisirla per le collezioni statali. Dapprima l'oggetto venne esposto nella Pinacoteca di Brera (1933), in seguito venne custodita nel Museo Archeologico di Milano dove si trova tuttora. Purtroppo non si conosce il contesto archeologico in cui è stata rinvenuta la Patera, gli oggetti che l'accompagnavano e la stratigrafia del luogo di rinvenimento, che avrebbero potuto fornire utilissime informazioni agli archeologi.
Gli studiosi convengono, ad ogni modo, che la coppa appartenga ad una serie di vasi preziosi decorati a rilievo con scene mitologiche o di tradizione cristiana, collocabili nel tardo periodo imperiale, presumibilmente tra il IV e il V secolo d.C.. L'argento in cui è stata forgiata la Patera di Parabiago è quasi puro, con poche tracce di rame e coloriture d'oro. La decorazione a rilievo rappresenta il trionfo di Cibele. La Patera pesa circa 3,5 chilogrammi per un diametro di 40 centimetri.
Secondo alcune interpretazioni, la Patera rappresenta una sorta di allegoria cosmica delle stagioni, con Cibele che riassume in sé le caratteristiche della Grande Madre, il cui culto veniva celebrato in ambienti privati di rango elevato soprattutto nella tarda romanità pagana. La Grande Madre aveva un posto particolare tra le divinità romane, poiché rimandava alle origini della "romana gente", quelle origini troiane legate alle radici stesse della città di Roma.
Il culto di Cibele si era diffuso, nell'antichità, a partire dalla sua terra d'origine - l'Anatolia - dapprima nelle città greche dell'Asia Minore. Di qui era arrivato in Grecia prima e a Roma poi. A Cibele erano dedicati santuari molto importanti, il più rilevante dei quali era sicuramente quello di Pessinunte, in Frigia, dove era conservato il simulacro della dea, una pietra aniconica che, secondo la tradizione, doveva essere di origine meteorica.
Nel 204 a.C. un oracolo dei Libri Sibillini, consultato da un corpo speciale di decemviri su ordine del Senato, visto il grave pericolo corso dalla giovane repubblica romana, minacciata da Annibale, impose di introdurre il culto di Cibele a Roma. Si trattava, per certi aspetti, del ripristino di un culto delle origini, poiché Enea, mitico fondatore dell'Urbe, proveniva proprio dall'Anatolia, terra d'origine della dea Cibele. Dunque la pietra aniconica simbolo della dea venne trasportata dal suo santuario di Pessinunte alla città sul Tevere. A lei venne dedicato, in seguito, un tempio sul Palatino. Più tardi
Cibele divenne una delle divinità protettrici della casa imperiale.
La massima espansione del culto di Cibele si ebbe durante il regno di Claudio. Il suo era un culto orgiastico, legato al tema della follìa, della morte e della resurrezione, con caratteristiche misteriche e gestito da sacerdoti evirati. Forse anche per questo non convinse mai del tutto i Romani, che non lo consideravano propriamente un culto legato alle loro tradizioni. Gli operatori del culto erano chiamati galli e il loro capo archigallo. Tra i riti orgiastici che caratterizzavano le festività dedicate alla dea, vi era il taurobolion, una sorta di battesimo nel sangue di un toro sacrificale.
In onore di Cibele si celebravano due feste, le Megalesie, nei periodi dal 15 al 17 marzo e dal 4 al 10 aprile. Queste feste aveva un carattere propiziatorio per le attività agricole e prevedevano il sacrificio di tori e montoni.
Sulla Patera di Parabiago Cibele è raffigurata seduta su un carro trainato da quattro leoni e circondato da tre figure di coribanti, sacerdoti dediti ai culti orgiastici, che danzano agitando scudi e pugnali. La dea reca, nella mano destra, uno scettro ed ha la testa coronata da merli da fortificazione (corona turrita). Al suo fianco siede Attis, il giovinetto da lei tanto amato, che indossa un berretto frigio e reca, tra le mani, un flauto di Pan (syrinx) ed un bastone da pastore.
Sulla destra della Patera vi è un gruppo di figure tra le quali spicca un dio con scettro e mantello contenuto nel cerchio dello zodiaco. Lo sostiene Atlante, che spunta dal terreno. Accanto al dio vi è una sorta di obelisco al quale è avvinghiato un serpente che sottolinea il concetto di eternità e fa riferimento al culto solare di origine egiziana. Al di sopra del carro, al margine della Patera, si scorge Phosphoros, la stella del mattino, rappresentato come un putto alato recante una fiaccola rivolta verso l'alto. Davanti a lui il carro di Selene, la luna, trainato da tori, e Vespero, la stella della sera, che al contrario di Phosphoros, reca in mano una fiaccola rivolta verso il basso.
In basso al centro compaiono le raffigurazioni di Oceano e Teti che sorgono dai flutti. A destra la Terra, raffigurata come una donna mollemente adagiata con la cornucopia in mano.
La Patera venne, nel 1929, segnalata all'allora soprintendente Alda Levi Spinazzola, che riuscì ad acquisirla per le collezioni statali. Dapprima l'oggetto venne esposto nella Pinacoteca di Brera (1933), in seguito venne custodita nel Museo Archeologico di Milano dove si trova tuttora. Purtroppo non si conosce il contesto archeologico in cui è stata rinvenuta la Patera, gli oggetti che l'accompagnavano e la stratigrafia del luogo di rinvenimento, che avrebbero potuto fornire utilissime informazioni agli archeologi.
Patera di Parabiago, particolare di coribante (Foto: ancientrome.ru) |
Secondo alcune interpretazioni, la Patera rappresenta una sorta di allegoria cosmica delle stagioni, con Cibele che riassume in sé le caratteristiche della Grande Madre, il cui culto veniva celebrato in ambienti privati di rango elevato soprattutto nella tarda romanità pagana. La Grande Madre aveva un posto particolare tra le divinità romane, poiché rimandava alle origini della "romana gente", quelle origini troiane legate alle radici stesse della città di Roma.
Il culto di Cibele si era diffuso, nell'antichità, a partire dalla sua terra d'origine - l'Anatolia - dapprima nelle città greche dell'Asia Minore. Di qui era arrivato in Grecia prima e a Roma poi. A Cibele erano dedicati santuari molto importanti, il più rilevante dei quali era sicuramente quello di Pessinunte, in Frigia, dove era conservato il simulacro della dea, una pietra aniconica che, secondo la tradizione, doveva essere di origine meteorica.
Nel 204 a.C. un oracolo dei Libri Sibillini, consultato da un corpo speciale di decemviri su ordine del Senato, visto il grave pericolo corso dalla giovane repubblica romana, minacciata da Annibale, impose di introdurre il culto di Cibele a Roma. Si trattava, per certi aspetti, del ripristino di un culto delle origini, poiché Enea, mitico fondatore dell'Urbe, proveniva proprio dall'Anatolia, terra d'origine della dea Cibele. Dunque la pietra aniconica simbolo della dea venne trasportata dal suo santuario di Pessinunte alla città sul Tevere. A lei venne dedicato, in seguito, un tempio sul Palatino. Più tardi
Patera di Parabiago, particolare del carro di Cibele e Attis (Foto: Wikimedia Commons) |
La massima espansione del culto di Cibele si ebbe durante il regno di Claudio. Il suo era un culto orgiastico, legato al tema della follìa, della morte e della resurrezione, con caratteristiche misteriche e gestito da sacerdoti evirati. Forse anche per questo non convinse mai del tutto i Romani, che non lo consideravano propriamente un culto legato alle loro tradizioni. Gli operatori del culto erano chiamati galli e il loro capo archigallo. Tra i riti orgiastici che caratterizzavano le festività dedicate alla dea, vi era il taurobolion, una sorta di battesimo nel sangue di un toro sacrificale.
In onore di Cibele si celebravano due feste, le Megalesie, nei periodi dal 15 al 17 marzo e dal 4 al 10 aprile. Queste feste aveva un carattere propiziatorio per le attività agricole e prevedevano il sacrificio di tori e montoni.
Patera di Parabiago, particolare di Oceano,Teti e Terra con amorini (Foto: ancientrome.ru) |
Sulla destra della Patera vi è un gruppo di figure tra le quali spicca un dio con scettro e mantello contenuto nel cerchio dello zodiaco. Lo sostiene Atlante, che spunta dal terreno. Accanto al dio vi è una sorta di obelisco al quale è avvinghiato un serpente che sottolinea il concetto di eternità e fa riferimento al culto solare di origine egiziana. Al di sopra del carro, al margine della Patera, si scorge Phosphoros, la stella del mattino, rappresentato come un putto alato recante una fiaccola rivolta verso l'alto. Davanti a lui il carro di Selene, la luna, trainato da tori, e Vespero, la stella della sera, che al contrario di Phosphoros, reca in mano una fiaccola rivolta verso il basso.
In basso al centro compaiono le raffigurazioni di Oceano e Teti che sorgono dai flutti. A destra la Terra, raffigurata come una donna mollemente adagiata con la cornucopia in mano.
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