domenica 26 febbraio 2023

Sardegna, il mistero della ragazza sepolta a testa in giù

Sardegna, necropoli di Monte Luna e la sepoltura
della fanciulla (Foto: stilearte.it)
Dario D'Orlando, dell'Università di Cagliari, ed i suoi colleghi, Rossella Paba, Anna Willis, Carlo Luglie e Kate Domett, hanno studiato la misteriosa sepoltura di una ventenne, trovata nella necropoli fenicio-romana di Monte Luna, in Sardegna.
La giovane donna era stata sepolta in modo anomalo, bocconi, con il volto verso la terra, e presenta segni di ferite alla testa ed un foro sul cranio, probabilmente provocato dal martellamento di un chiodo romano poco sopra la nuca. L'origine del chiodo è stabilita dalla forma lasciata dal ferro nel cranio.
Le indagini scientifiche hanno confermato che la donna aveva un'età compresa tra i 18 ed i 22 anni quando morì tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. D'Orlando ha spiegato che le prove di un trauma da corpo contundente, forse da una caduta, è stato trovato nel cranio, oltre al foro quadrato compatibile con una ferita da taglio da un chiodo romano.
D'Orlando pensa che la ferita da corpo contundente potrebbe essere il risultato di una caduta durante un attacco epilettico, mentre la ferita inferta con il chiodo potrebbe essere stata inflitta dopo la morte per impedire che la sua epilessia si diffondesse ad altri, un antico rimedio greco descritto nel I secolo d.C. da Plinio il Vecchio.
Tali idee romane potrebbero essere emerse in Sardegna dopo la fine della prima guerra punica nel 241 a.C., ha spiegato D'Orlando.



Campania, rinvenuta una fornace romana durante gli scavi per realizzare una chiesa

Caserta, i resti della fornace romana
(Foto: stilearte.it)

Un'imponente fornace romana, con un alzato notevole di muri, è stata trovata a San Prisco, un comune italiano di circa 12.000 abitanti della provincia di Caserta, in Campania. Il rinvenimento è avvenuto durante gli scavi per la realizzazione delle fondazioni di una chiesa.
Lo scavo archeologico ha interessato l'area occupata dal sedime della chiesa. Qui gli archeologi si sono imbattuti in una fornace di età romana in opera reticolata, la più grande mai rinvenuta nel comprensorio dei comuni adiacenti.


Fonte:
stilearte.it


Friuli Venezia Giulia, scoperta una necropoli romana

Friuli, tracce di necropoli romana
(Fonte: stilearte.it)
Una necropoli romana - probabilmente del tardo Impero - è stata portata alla luce durante alcuni lavori pubblici svolti nel territorio comunale di Rivigano Teor. La Soprintendenza ha finanziato la campagna di scavo. La località del ritrovamento non è stata indicata per timore che l'area possa essere depredata prima dell'intervento degli archeologi.
Rivignano Teor è un comune italiano sparso, con circa 6.000 abitanti, nel Friuli Venezia Giulia. Il suo territorio è attraversato dal fiume Stella, dall'alto profilo naturalisti, antropomorfologico nonché storico.
Si attendono ulteriori notizie da parte degli studiosi.

Fonte:
stilearte.it

Le porte segrete della Grande Muraglia Cinese

La grande muraglia cinese
(Foto: Top Photo Group/Age fotostock)

Oltre ad essere una delle più spettacolari opere dell'ingegneria umana, la Grande Muraglia Cinese è continua fonte di sorprese: solo di recente, infatti, alcuni ricercatori hanno scoperto l'esistenza di oltre 130 porte nascoste in punti strategici, ben mimetizzate con l'ambiente circostante. Si tratta di un ritrovamento incredibile, che ci racconta qualcosa in più sulle abilità militari delle antiche dinastie che abitarono l'attuale Cina.
Costruita per diventare un'impenetrabile barriera difensiva e proteggere così l'Impero Cinese dalle popolazioni nomadi, la Grande Muraglia è lunga oltre 21.000 chilometri (se si considerano tutte le sue diramazioni) ed oggi è inserita tra i Patrimoni Mondiali dell'UNESCO. 
Un team di ricercatori dell'Università di Tianjin ha analizzato attentamente diverse fotografie ad altissima risoluzione della Grande Muraglia, individuando così i resti di oltre 130 porte nascoste. Della loro esistenza si sospettava già, grazie ad alcune antichissime testimonianze scritte, ma gli studi di ricerca non avevano finora dato particolari frutti. In effetti, non si è trattato di un compito semplice: quest'immensa struttura difensiva è stata eretta in momenti diversi, a partire già dall'VIII secolo a.C. In quell'epoca, l'Impero era suddiviso in più regni e ciascuno di essi aveva delle imponenti mura.
Solo nel III secolo a.C., con l'avvento di Qin Shi Huang che contribuì ad unificare l'Impero Cinese e che fondò la dinastia Qin, il sistema difensivo venne piano piano rafforzato e accorpò le mura già costruite in precedenza. Un ulteriore sforzo venne compiuto nel XIV secolo, durante la dinastia Ming, quando la Grande Muraglia diventò ancora più imponente. Tutto ciò ha reso quest'enorme struttura irregolare difficile da studiare.
Analizzando le rovine delle oltre 130 porte individuate, sono emersi dettagli sorprendenti. Ciascuna di esse era ben mimetizzata con un sottile strato di mattoni sul lato rivolto verso l'esterno, in modo da non poter essere vista da eventuali nemici in arrivo. La parte interna era invece progettata per essere cava: nel momento in cui gli invasori avessero assalito il più vicino passo principale, i soldati a difesa della Muraglia potevano semplicemente sfondare la porta e sferrare il loro attacco a sorpresa.
Questi passaggi segreti svolgevano anche altre funzioni. Alcuni di essi consentivano l'accesso ai gruppi di ricognizione, altri servivano invece per l'ingresso e l'uscita di merci, come canale di comunicazione e di commercio. Secondo alcune testimonianze risalenti alla dinastia Ming, alle tribù nomadi era permesso usare queste porte per far pascolare il bestiame in una delle regioni più fertili dell'epoca, ben protetta all'interno della Grande Muraglia Cinese. A riprova di questa usanza, stando agli esperti, ci sarebbe il fatto che alcune delle porte segrete erano sufficientemente larghe da lasciar passare due cavalli contemporaneamente.

Fonte:
tecnologia.libero.it

sabato 25 febbraio 2023

Egitto, in mostra il papiro Waziri, di 16 metri di lunghezza

Egitto, il papiro Waziri in esposizione
(Foto: archeomedia.net)

Il Museo Egizio del Cairo ha esposto, in questi giorni, il papiro Waziri I, lungo 16 metri, recentemente scoperto nella necropoli di Saqqara. La notizia è stata resa pubblica ora. Nei mesi precedenti il volume è stato restaurato e studiato.
"E' il primo e più lungo papiro scritto in ieratico scoperto nella necropoli di Saqqara", ha detto Mostafa Waziri, Segretario Generale del Consiglio Supremo delle Antichità, dal quale il papiro prende nome.
Il volume è stato trovato all'interno della sepoltura di un personaggio chiamato Ahms o Ahmose e risale all'inizio del periodo tolematico (305-30 a.C.). Esso contiene 113 capitoli del Libro dei Morti. Il testo è vergato quasi completamente con inchiostro scuro. Solo per la stesura di poche righe è stato usato un inchiostro rosso. L'impaginazione è distribuita su 150 colonne di varia giustezza.
Il papiro prende nome da Mostafa Waziri
Il libro dei Morti è una raccolta liturgica di formule religiose, testi funerari, canti, preghiere, esorcismi che venivano usati nell'antico Egitto come guida per i defunti nel loro viaggio verso l'altro mondo. Deve il suo nome allo studioso Karl Richard Lepsius, che lo coniò nel 1842. Non esiste una sola versione del Libro dei Morti, ma ce ne sono state molte nel corso dei secoli, tutte uniche. Questi libri, in particolare, erano raccolte di testi funerari e incantesimi che servivano per accompagnare i defunti nel loro viaggio verso la Duat, gli inferi.
Le formule e gli incantesimi che oggi conosciamo sono 192. Fra i testi più famosi c'è la "Pesatura del cuore", risalente al periodo in cui le copie del Libro dei Morti venivano comunemente scritte su papiro, che poteva essere lungo da 1 fino a 40 metri. Secondo il testo, Anubi, il dio della mummificazione e protettore del mondo dei morti, avrebbe condotto il defunto davanti ad Osiride, il dio degli inferi, dove avrebbe giurato di non aver commesso nessuno dei 42 peccati, e il suo cuore sarebbe stato pesato su una bilancia contro una piuma, per determinare se fosse degno di un posto nell'aldilà.
Nel marzo 2022 gli archeologi hanno scoperto, nella necropoli di Saqqara, cinque sepolture di 4000 anni fa e rinvenuto 250 sarcofagi in legno dipinto, contenenti mummie complete e 150 statuette di varie divinità. In particolare, uno dei sarcofagi conteneva anche un papiro che inizialmente si credeva misurasse circa 9 metri. E' stato inviato, quindi, al laboratorio del Museo Egizio del Cairo per ulteriori studi.

Fonti:
archeomedia.net
wired.it

sabato 18 febbraio 2023

Spagna, scoperto un mitreo nei pressi di Cordoba

Spagna, villa di Mitra a Cabra
(Foto: Wikimedia commons)

Un santuario dedicato al dio Mitra è stato scoperto dagli archeologi in Spagna, a Cabra. All'interno del santuario sono stati rinvenuti resti di banchetti rituali.
La Villa di Mitra, situata all'interno della città romana di Licabrum, risale al I secolo d.C. e prende il nome da una scultura del dio, trovata in situ, risalente al II secolo d.C., raffigurante Mitra che sacrifica un toro.
La villa venne scavata tra il 1972 ed il 1973 e vennero portati alla luce un cortile con un laghetto e diverse stanze adiacenti con pavimenti musivi. Scavi successivi, condotti nel 1981, ha scoperto i resti di un ipocausto oltre a diverse monete raffiguranti Filippo l'Arabo, Diocleziano e Valentiniano II.
Gli archeologi dell'Università di Malaga, dell'Università Carlos III di Madrid e dell'Università di Cordoba hanno scoperto, negli scavi condotti più recentemente, i resti di un santuario mitraico risalente al II secolo d.C., con una seconda fase di costruzione del III secolo d.C.
Il santuario è costituito da una stanza rettangolare con un ingresso stresso che ha diversi gradini che consentono l'accesso alla sezione principale con due panche in pietra che fiancheggiano le pareti. Le panche sarebbero state utilizzate dai seguaci del culto di Mitra per eseguire rituali ed organizzare delle feste in onore del dio. Le pareti sono ancora rivestite da frammenti di mattoni romani e presentano alcune nicchie, un tempo ospitanti sculture di tauroctonia. Uno strato di carbone ricopre il pavimento e sono stati rinvenuti resti di maiali, uccelli e conigli, indicativi del tipo di cibo che veniva offerto nei banchetti rituali.
La statua di Mitra che uccide il toro doveva essere, in origine, collocata nel mitreo ed è stata, in seguito, spostata durante le spoliazioni dell'edificio. Venne rinvenuta in un altro punto dell'area della villa nel 1951, da un contadino durante l'aratura.
Lo scavo successivo al prodigioso ritrovamento ha portato alla luce un bell'impluvium, la vasca centrale nella quale venivano convogliate le acque dei pluviali del tetto e che poi potevano essere destinate all'accumulo in una cisterna.
La scoperta ha acquisito ulteriore valore in relazione al fatto che si tratta di uno dei pochi esempi al mondo in cui un mitreo appare legato nello spazio e nel contesto ad una tauroctonia. La scultura che rappresenta Mithras Tauroktonos è oggi esposta la Museo Archeologico ed Etnologico di Cordoba. E' stata realizzata in marmo bianco, a tutto tondo, e misura 93x96x35 centimetri.
La villa, configurata nel I secolo d.C., venne sottoposta ad importanti ristrutturazioni tra il III ed il IV secolo d.C. Aveva un accesso diretto all'acqua, dal momento che era molto vicina alla sorgente del Fuente de las Piedras. Alla fine del IV secolo d.C. è stato rilevato un livello di abbandono, oltre alla documentazione di un incendio che avrebbe distrutto il tetto.

Fonti:
artnews.com
stilearte.it

domenica 12 febbraio 2023

Spagna, alla ricerca della Sinagoga perduta...

Utrera, resti della sinagoga scoperta
(Foto: arkeonews.net)

Nella città andalusa di Utrera, gli archeologi hanno scoperto i resti di una sinagoga del XIV secolo. La scoperta attribuisce la struttura ad un raro gruppo di sinagoghe medioevali sopravvissute negli anni successivi all'esilio degli ebrei spagnoli nel 1492.
Si conoscevano solo 4 sinagoghe sopravvissute in Spagna dopo il 1492: due a Toledo, una a Segovia e una a Cordoba.
Per sette secoli la sinagoga era stata utilizzata per poi essere trasformata in chiesa, ospedale, casa per orfani e ristorante e disco pub. La presenza di una sinagoga è attestata da un sacerdote e storico locale, Rodrigo Caro di Utrera che scrisse della sua esistenza nel 1604.
Il consiglio comunale di Utrera ha deciso di acquistare l'edificio nel 2016. Tuttavia il prezzo di acquisto ha causato polemiche in quanto non vi era certezza della presenza, in quel luogo, di una sinagoga. Non c'erano mappe o documenti ufficiali che descrivessero la sinagoga dell'Utrera medioevale perché le comunità ebraiche nella Spagna prima dell'espulsione avevano una grande autonomia, compresi i propri tribunali e sistemi fiscali. Inoltre anche se l'ospedale fosse stato costruito sopra la sinagoga, nulla di originale potrebbe essere sopravvissuto. Le espulsioni degli ebrei furono spesso accompagnate da violenti pogrom e lo sviluppo sfrenato del XX secolo ha in gran parte distrutto la città medioevale.
Nel 2021 è stata predisposta un'indagine sulla struttura individuata in precedenza. Le indagini hanno potuto confermare quanto scritto da Rodrigo Caro. Sono stati individuati la sala di preghiera della sinagoga, la panchina perimetrale e l'Hechal, termine sefardita per indicare l'arca della Torah, la piccola camera o nicchia in cui venivano custoditi i rotoli delle scritture. Gli archeologi sperano di identificare quanto prima il pulpito e il locale adibito al bagno rituale.

Fonte:
arkeonews.net

Pisa, un quartiere romano all'ombra della Torre

Pisa, gli scavi archeologici in piazza del Sarto
(Foto: Enrico Mattia Del Punta)

A due passi dalla Torre pendente, in piazza del Sarto, un sito archeologico rivela la scoperta di un quartiere residenziale antichissimo.
Il sito è sotto l'ombrello del più ampio "Pisa Progetto Suburbio", diretto dal Professor Fabio Fabiani con l'obiettivo di scoprire, divulgare e ampliare la conoscenza di quella che fu la Pisa romana. "Grazie al supporto di Acque Spa e dell'amministrazione comunale - spiega Fabiani - abbiamo potuto lavorare su un nuovo sito, dopo gli scavi archeologici degli arsenali romani dell'Area Scheibler e della necropoli di via Marche". Un tassello che va ad aggiungersi agli altri, svelando sempre più la mappa della città romana. Proprio come uno dei pavimenti scoperti negli scavi.
"Abbiamo individuato - spiega Stefano Genovesi, responsabile degli scavi insieme a Francesco Ghizzani - una o più domus di età romana, che ci indicano che qui si sviluppava un quartiere residenziale. La pavimentazione scoperta è fatta in materiale laterizio frantumato in pezzi molto piccoli e legati tra loro con malta. Si osserva poi una decorazione fatta da piccole tessere, come nei mosaici, di colore bianco e nero. Il pavimento meglio conservato trovato dagli archeologi - continua Genovesi - ci consente di fare delle ipotesi sulla funzione della stanza. La presenza di decorazioni, come una cornice esterna ed un motivo a linee oblique e l'assenza di queste in tre spazi lungo il muro, ci suggerisce che la stanza fosse un triclinio, ovvero l'ambiente dove i romani banchettavano su tre letti e che quindi appartenesse ad una casa di pregio, di una famiglia benestante".
Si tratta, in sostanza, di un quartiere residenziale della Pisa romana, non lontano da quello che era il fiume Auser, che lambiva la città antica. La città romana aveva, quindi, una forma molto diversa da quella che si è portati ad immaginare osservando la Pisa medioevale. Si estendeva lungo il fiume arrivando fino all'altezza di piazza del Sarto.
Gli scavi andranno avanti fino a fine febbraio. 

Fonte:
lanazione.it

Milano, riemergono testimonianze di epoca romana in via Zecca Vecchia

Milano, i lavori di scavo in via Zecca Vecchia
(Foto: milanotoday.it)

Un parco archeologico di 3.800 metri quadrati nel verde, con testimonianze romane emerse per caso, durante i lavori di costruzione di un albergo di cinque piani nel cuore di Milano, in via Zecca Vecchia, nel quartiere Cinque Vie. Ed ora nasce un comitato per la valorizzazione dell'area, quella dell'ex Garage Sanremo.
Alcuni mesi fa, durante i lavori di abbattimento dell'autorimessa e l'escavazione delle fondamenta del nuovo edificio, erano emersi i primi resti, con l'intervento della Sovrintendenza e il blocco del cantiere.
Ora è arrivata la conferma che si tratta di un'area di grande pregio storico: vi sono tracce della prima età imperiale, come le fondazioni di un antico edificio pubblico (forse un bagno termale, visto che vi è la prova di un sistema di riscaldamento), o i resti di un forno, ma anche un tratto di oltre 20 metri di fognatura ancora ben conservato. E poi il tracciato di due strade, una delle quali sarebbe diventata successivamente il cardo massimo dell'antica città di Mediolanum.
I residenti della zona chiedono che quest'area archeologica sotterranea venga protetta e valorizzata, come già accade per i resti dell'antico Circo Romano che, tra l'altro, sorge a poca distanza da via Zecca Vecchia. Vicino, inoltre, c'è piazza San Sepolcro, dove era il Foro dell'antica Mediolanum. Ne restano porzioni della pavimentazione nei sotterranei della Biblioteca ambrosiana e della chiesa. Il sito di via Zecca Vecchia potrebbe, quindi, fornire indizi anche di epoche anteriori.
"E' uno scavo impegnativo, quello cui lavorano gli archeologi, una grande occasione di esplorare stratigraficamente l'area. Si possono capire le trasformazioni nel tempo da indizi di frammenti, di marmi, canalette, residui di muri o cavità asportate, non molto ma tutto prezioso. Sarebbe bello, ad esempio, fissare il tracciato del cardo romano", spiega la Soprintendente alle Belle Arti e Paesaggio Antonella Ranaldi. Oltre ai marmi sono emersi frammenti di eleganti colonne. Non poteva mancare una piccola porzione di un tempio di origini romane.
Lo scavo è sotto la direzione scientifica di Annamaria Fedeli, coadiuvata da una composita e qualificata squadra di archeologi esperti di varie epoche: "Si cercano anche le preesistente scomparse, eventualmente anteriori all'epoca romana". 

Fonti:
milanotoday.it
milano.corriere.it


sabato 11 febbraio 2023

Spagna, beauty case in conchiglia dal passato...

Spagna, sezioni della capasanta con cosmetico rinvenuta
nell'antica capitale Augusta Emerita
(Foto: Consorcio Ciudad Monumental de Mérida-Saguntum)

Dopo anni dalla sua scoperta, un gruppo di ricercatori del Consorcio Ciudad Monumental de Mérida, dell'Università di Granada e dell'Istituto dei Beni Culturali di Spagna ha condotto uno studio su un contenitore per il trucco di epoca romana trovato in Spagna, risalente al I secolo d.C.
La scoperta di questo contenitore, infatti, non è proprio recente, risale al 2000, a quando, durante uno scavo effettuato presso un complesso funerario nell'antica capitale della Lusitania, Augusta Emerita (l'attuale Merida), la scatolina è stata individuata dagli archeologi in un deposito di resti umani cremati. Faceva parte di un corredo funerario insieme ad altri oggetti trovati in loco, come tazze di ceramica, bicchieri, fusi in osso, una scatola contenente ossa ed altro ancora. Già a suo tempo, e senza conoscerne il contenuto, il contenitore per il trucco era stato ritenuto l'oggetto più significativo dell'intero corredo proprio per la sua unicità.
La trousse per il trucco consiste in una conchiglia della specie pecten maximus, comunemente conosciuta come capasanta. La conchiglia, di circa 11 centimetri di diametro, era stata trovata ancora chiusa e in buono stato di conservazione (si può notare solo un leggero deterioramento dovuto all'usura del tempo), con le due valve unite da una cerniera. Su ognuna delle due valve erano stati praticati due forellini gemelli dove una volta passava un filo metallico (probabilmente in argento, visto che ne è stato trovato un piccolo frammento all'interno della conchiglia) che collegava entrambi i pezzi e assicurava che il suo contenuto non andasse perduto. La valva piatta era servita come coperchio di quella che può essere considerata una scatola, mentre quella convessa doveva accogliere il prodotto ivi custodito.
Il cofanetto dei cosmetici di Crepereia Tryphanena da 
Grottarossa, vicino Roma (Foto: Centrale Montemartini)
Una volta aperto il guscio e ripulito dai sedimenti che si erano depositati nel tempo, è subito saltata alla vista una pallina oblunga di appena 1,2 e 0,9 centimetri: un conglomerato polveroso che si è subito distinto per il suo cromatismo rosato. Nelle argille erano bloccati anche diversi grani arrotondati di dimensioni millimetriche di un materiale molto morbido e untuoso di colore rosa brillante con coloranti magenta, che divennero ben presto obiettivo preferenziale delle analisi eseguite. I ricercatori hanno subito ipotizzato, e poi confermato, che si trattava di un residuo di un prodotto cosmetico, così hanno iniziato a documentare ed analizzare i resti anche per comprendere dalla sua composizione se si trattava di un prodotto locale o, al contrario, di un preparato arrivato da chissà dove.
Lo studio ha rivelato che il composto rosato era formato da una sostanza "glitterata" dal colore e dalle proprietà molto simili al "rose madder", aggiunto per donare al prodotto la colorazione rosa, e da un composto astringente (l'allume di ferro) usato come agente fissativo. Ma qualcosa non quadrava: il "rose madder" è un pigmento vegetale ottenuto dalla pianta conosciuta come rubia tinctorum, chiamata così in quanto dalle sue radici i tintori estraevano una particolare sfumatura di rosso, e venne prodotto industrialmente dal XIX secolo attraverso una modifica del processo di estrazione che utilizzava sostanze chimiche non disponibili in tempi antichi. L'intenso color rosa del pigmento, inoltre, contrastava con la classica colorazione rossa o rosso-arancione che solitamente si otteneva da questa pianta prima dell'introduzione delle sostanze chimiche moderne. Dopo diversi esami, lo studio ha dimostrato che è possibile ottenere una pasta ricca di glitter dalle radici di rubia tinctorum e che il cosmetico e la sua colorazione furono ottenuti da un particolare controllo del metodo di produzione.
La ricerca conferma, inoltre, che la formula utilizzata per la preparazione di questo composto ha molte caratteristiche comuni con i risultati ottenuti dalle analisi effettuate a Saragozza su altri prodotti cosmetici, quindi si può affermare che non si trattava di un prodotto "esotico".
L'utilizzo di conchiglie come contenitore per cosmetici è una pratica che risale a migliaia di anni fa ed è comune a molte civiltà. Uno degli esempi più antichi giunti fino a noi è rappresentato da una serie di conchiglie piccolissime provenienti dalla città sumera di Ur e datate al 2500 a.C. circa.
Nel 1200 a.C. circa, come testimonia il beauty box di Tutu, sacerdotessa di Amon e moglie di Ani, lo scriba reale di Tebe famoso per il celebre papiro contenente una delle versioni più complete del Libro dei Morti, vediamo mutare il supporto conchifero che d'ora in avanti sarà un contenitore di ceramica o alabastro dalle forme malacologiche, cambiamento attuato forse per necessità di avere un oggetto di maggiore capienza e robustezza.
A Roma, in località Grottarossa, in una tomba di una bambina del II secolo d.C., sono state trovate due valve in alabastro unite da un filo d'oro, quando nel mondo romano erano molto comuni esemplari prodotti in osso; di questi ultimi, nella stessa Merida ne sono stati documentati parecchi.
Il fatto che i contenitori in conchiglia fossero economicamente più accessibili dell'alabastro ha fatto sì che le scatoline ricavate dalle conchiglie fossero ampiamente utilizzate per questi scopi fino al periodo tardo-repubblicano e primo-imperiale, dove iniziarono a diffondersi porta-unguenti in vetro e ceramica, riducendo al minimo la presenza di altri tipi di contenitori.

Fonte:
mediterraeoantico.it

Egitto, aperte al pubblico le tombe di Djehuty e Hurry

Egitto, la camera sepolcrale di Djehuty
(Foto: Ministro per il Turismo e le Antichità)

Sono state inaugurante, nei recenti giorni, due importanti tombe a Draa Abu el-Naga, sulla riva ovest di Luxor: si tratta delle sepolture di Djehuty e Hurry, due funzionari della XVIII Dinastia, vissuti durante il regno della regina Hatshepsut.
Il restauro è frutto del "Progetto Djehuty", un'opera congiunta tra Egitto e Spagna. Le tombe sono state scoperte durante la missione del 2002, peraltro molto fortunata perché ha portato al rinvenimento di numerose sepolture, mummie e soprattutto un giardino funerario.
In modo particolare, le due tombe restaurate presentano la canonica forma a T, tipica di questo periodo, organizzandosi in un ingresso, una sala ipostila e un pozzo sepolcrale, mentre il programma decorativo-pittorico appare differente nell'una e nell'altra sepoltura. Il progetto ha quindi compreso anche il consolidamento architettonico delle pareti, del soffitto e delle colonne, oltre alla realizzazione di un impianto elettrico a pannelli solari e un nuovo pavimento in legno per agevolare il percorso di visita.
La più importante di queste sepolture è di un certo Djehuty, Supervisore del tesoro statale e delle opere di artigiani e artisti sotto il regno della regina Hatshepsut, dalla quale è stato anche incaricato di guidare la spedizione verso l'isola di Punt, corrispondente, forse, al Corno d'Africa, per recuperare l'elettro necessario per realizzare la parte superficiale degli obelischi collocati a Karnak. La stanza che precede la camera sepolcrale è caratterizzata da iscrizioni con 43 capitoli del Libro dei Morti.
Il nome e il volto di Djehuty, che si trovano sulle iscrizioni dei muri del cimitero, sono stati sistematicamente danneggiati dopo la sua morte con l'obiettivo di cancellare la sua identità, e così ha perso la capacità di essere ricordato ed accedere alla vita eterna. Inoltre le iscrizioni presenti nella tomba indicavano che il padre di Djehuty non era di origine egiziana.
Per quanto riguarda Hurry, egli ha ricoperto la carica di Sovrintendente dei negozi reali della Sacra Moglie e Madre Reale, Iahhotep.

Fonte:
mediterraneoantico.it

Gerusalemme, il vago d'oro perduto 1600 anni fa

Gerusalemme, il vago composto da perline dorate
(Foto: Koby Harati, City of David)

Un vago di collana d'oro puro, databile ad almeno 1600 anni fa e realizzato con tecnica sopraffina, è stato trovato a Gerusalemme all'interno dell'imponente struttura di epoca romana tornata alla luce nello scavo di Pilgrimage Road, la strada realizzata in età romana per consentire ai pellegrini di raggiungere il Tempio. 
L'autrice del ritrovamento è Hallel Feidman, diciottenne volontaria di Bnei Ayish, che stava partecipando al progetto di scavo curato dalla Israel Antiquities Authority, l'Autorità israeliana per le Antichità. "Ho svuotato il contenuto del secchio sul setaccio e ho iniziato a lavare il materiale, che proveniva dagli scavi in corso nella Città di David", racconta. "All'improvviso ho visto qualcosa di luccicare nell'angolo e ho chiamato l'archeologo; allora si è scatenato l'entusiasmo generale".
Il ritrovamento è veramente particolare, si tratta di una perlina che, molto probabilmente era parte di una collana o di un bracciale appartenente ad una persona facoltosa.
Secondo Shlomo Greenberg e Ari Levy, i due direttori dello scavo, il piccolo ma prezioso oggetto proviene dal grande edificio di epoca romana, lungo almeno 25 metri, che si affacciava sulla via battuta dai pellegrini, dove sono già riemersi raffinate ceramiche d'importazione e un pavimento a mosaico decorato, a loro volta testimonianza del benessere raggiunto da chi lo abitava. E' possibile, aggiungono i ricercatori, che il vago risalga a un periodo precedente rispetto alla struttura, ma molto probabilmente chi lo indossava lo smarrì quando il monile di cui era parte si ruppe.
Il ritrovamento è importante in primis per la sua rarità. Oggetti simili, ma d'argento, sono infatti stati riportati alla luce nel 1979 a Ketef Hinnom, non lontano dalla città di David (il nucleo originario di Gerusalemme, posto sul monte Sion) all'interno di grotte sepolcrali risalenti a 2500 anni fa (fine del periodo del Primo Tempio) in occasione degli scavi effettuati da Gabriel Barkay. Reperti di questo tipo in oro sono poco frequenti e assommano a qualche decina.
Quel che colpisce maggiormente è però la realizzazione del vago, ottenuto tramite la saldatura di piccole sfere d'oro. Una tecnica di oreficeria molto complessa, elaborata probabilmente in Mesopotamia circa 4500 anni fa e che richiede un'ottima conoscenza dei materiali e delle loro proprietà, ma anche dei meccanismi di regolazione della temperatura: il calore è indispensabile per saldare insieme le minuscole sfere, ma occorre assolutamente evitare il surriscaldamento perché altrimenti l'oro si scioglie. Una tecnica simile poteva essere padroneggiata solo da un artigiano professionista e di grande abilità.
Gli archeologi pensano che il vago possa essere d'importazione: realizzato fuori da Israele, sarebbe giunto a Gerusalemme con le carovane di mercanti e qui acquistato, verosimilmente, già come parte integrante del gioiello. La collana (o il bracciale) potrebbe essere stato donato, ma è altrettanto possibile che fosse un monile di famiglia poi lasciato in eredità e tramandato di generazione in generazione.

Fonte:
storiearcheostorie.com

Belgio, trovato un frammento di dodecaedro nelle Fiandre

Belgio, frammento del dodecaedro romano
(Fonte: finestresullarte.info)

Nelle Fiandre è stato ritrovato un frammento di un dodecaedro romano, misterioso oggetto di cui non è ancora stata compresa la funzione. Se ne conoscono un centinaio in tutto, e questo è il secondo ritrovato nelle Fiandre.
Il frammento è tornato alla luce nel comune di Kortessem, nella provincia del Limburgo. A scoprirlo un appassionato di metal detector, Patrick Schuermans, che ha segnalato il ritrovamento all'Agenzia per il Patrimonio delle Fiandre.
Dei due dodecaedri trovati in Belgio uno si trova al Museo Gallo-Romano di Tongeren ed è stato rinvenuto nel 1939, mentre l'altro è stato scoperto alla fine dell'Ottocento ed è esposto al Grand Curtius Museum di Liegi.
Risalenti al periodo romano, i dodecaedri sono misteriose figure geometri in bronzo realizzate con la tecnica della cera persa. Sono costituiti da dodici facce pentagonali con aperture circolari di diverse dimensioni, con solitamente alcune piccole sfere sugli angoli. Ancora non è ben chiaro il loro uso. Archeologi e storici non sono riusciti a trovare risposte convincenti. Il fatto che gli esemplari noti siano troppo diversi per dimensioni e dettagli tende ad escludere che possa trattarsi di oggetti per misurazioni. Secondo gli archeologi dell'Agenzia delle Fiandre per il Patrimonio, il loro significato andrebbe probabilmente ricercato nell'ambito magico-religioso. Questo potrebbe spiegare perché un numero significativo di dodecaedri è legato a reperti funerari.
E' rilevante il fatto che i misteriosi oggetti non siano stati trovati nell'area intorno al mar Mediterraneo oppure a sud di esso. La maggior parte degli esemplari noti è stata rinvenuta nella parte nordoccidentale dell'Impero Romano, compresi l'attuale Belgio, Paesi Bassi, Germania, Francia e Gran Bretagna. Un'area che coincide con quella della civiltà celtica. Ecco perché a volte vengono anche chiamati dodecaedri gallo-romani. Gli esemplari completi noti differiscono nei dettagli e nell'aspetto e variano anche in dimensioni e peso. La maggior parte ha una dimensione compresa tra 4,5 e 8,5 centimetri.
Il frammento rinvenuto nel Limburgo faceva parte di un dodecaedro che misurava dai 5 ai 6 centimetri. I ricercatori dell'Agenzia delle Fiandre per il Patrimonio hanno trovato tracce di una riparazione sul pezzo. Sulla base delle superfici di frattura, sospettano che questo dodecaedro possa essere stato rotto durante un rituale già nel periodo romano. Tuttavia il dato veramente interessante è che per la prima volta nelle Fiandre si conosca l'esatta ubicazione di un dodecaedro.

Fonte:
finestresullarte.info

Francia, riemerge il mosaico pavimentale di una domus romana

Francia, il pavimento musivo della domus romana
(Foto: Antoine Farge, Inrap)

Una domus romana del II secolo d.C. ed un isolato di quell'epoca sono stati portati alla luce nei giorni scorsi dall'Inrap - Istituto Nazionale francese per le ricerche archeologiche preventive - nel centro di Nimes (in latino Nemausus), sotto un parcheggio. 
Il centro abitato ha origini preromane ma assunse caratteristiche urbane in età romana, divenendo una delle più importanti e fiorenti città delle Gallie. I francesi chiamano la città "Roma francese" per il numero elevato di vestigia ottimamente conservate come l'anfiteatro, la Maison Carrée, la Tour Magne, la porta d'Arles, i resti del tempio di Diana e il ponte del Gard.
L'area scavata si trova nello spazio tra le mura antiche della città e quelle fatte realizzare dall'imperatore Augusto, che ampliò lo spazio urbano cingendo anche i borghi, che ospitavano numerose attività artigianali, tra le quali, le fucine.
"Il rione diventa uno spazio dinamico, delimitato dalla via Domizia che ha strutturato la città sin dalla sua costruzione. - Spiegano gli archeologi dell'Inrap. - La metà settentrionale dell'area scavata è occupata dall'impianto di una domus la cui pianta è centrata su un probabile cortile. La maggior parte delle camere ha pavimenti in cemento e intonaco dipinto alle pareti. La stanza più orientale di questa domus mostra un pavimento a mosaico policromo con decorazioni geometriche. Più a sud, anche questa casa è dotata di un locale riscaldato e di un pozzo, probabilmente situato in uno spiazzo attiguo. Tuttavia, questi ultimi resti sono meno leggibili a causa del loro deterioramento".
La fine dell'occupazione di questo isolato sembra segnata da un diffuso incendio. Crolli di costruzioni bruciate sono stati scoperti su tutto il terreno, evidentemente a sud del lotto e anche sui solai in cemento della domus. Questo incendio ha permesso di conservare l'architettura degli antichi edifici, costituita per il 90% da terra cruda, sotto forma di mattoni o terra piena (tecnica costruttiva in terra battuta con compattazione tra due assi). Le costruzioni in pietra diventeranno la maggioranza solo nel medioevo.

Fonte:
stilearte.it

giovedì 9 febbraio 2023

Kainua-Marzabotto, una città rifondata e dedicata agli dèi etruschi

Marzabotto, una delle teste votive emerse dai recenti scavi
(Foto: Università di Bologna/Museo Nazionale etrusco
di Marzabotto)

L'ultima campagna di scavo dell'estate del 2022 nel comune di Marzabotto ha visto importanti ritrovamenti utili a definire meglio il ruolo dell'antica Kainua nel contesto etrusco-padano.
Molte novità riguardano il monumentale santuario della dea Uni, di cui sono emerse strutture imponenti che consentono di ricostruire il paesaggio sacro della città. Poi vi è la scoperta di un deposito votivo che ha portato alla luce testimonianze importanti delle pratiche svolte dagli abitanti, tracce di azioni rituali. Tra i ritrovamenti spiccano alcune teste votive in terracotta di pregevole fattura.
Kainua venne fondata nel VI secolo a.C. nel corso del generale riassetto economico e politico dell'intera Etruria padana, fortemente incentrato sullo sfruttamento della Valle del Reno come via commerciale. La scelta del sito fu sicuramente determinata dalle condizioni favorevoli che offriva il pianoro, collocato in prossimità del fiume Reno e circondato da colline, un luogo in cui l'approvvigionamento idrico era garantito dalla presenza di una ricca falda d'acqua a limitata profondità. 
Nella seconda metà del secolo sembrano collocarsi le tracce di un abitato di grandi potenzialità economico-commerciali; lo dimostrano i resti di edifici domestici, santuariali ed impianti artigianali oltre ai materiali rinvenuti in questi contesti, testimoni dell'elevato livello culturale della comunità etrusca stanziata sul pianoro.
Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. la città venne rifondata mediante un atto rituale che risistemò urbanisticamente il precedente impianto dandogli un assetto definitivo e più rispondente ai principi della fondazione Etrusco ritu.
Agli inizi del IV secolo a.C. la calata dei Celti determinò la fine della città etrusca. In seguito all'occupazione da parte di un nucleo di popolazione gallica, la città venne perdendo la propria identità urbana, divenendo una sorta di avamposto militare.
"Il nome etrusco della città (Kainua) - annotato gli archeologi dell'Università di Bologna - è stato recentemente dedotto grazie al fortunato rinvenimento di un fondo di coppa recante l'iscrizione: kainuathi. La desinenza -thi della parola indica che il termine è declinato al caso locativo, al fine di indicare il nome di un luogo (Kainua, appunto) che è stato riconosciuto come il nome etrusco della città. La terminazione -ua della parola avvicina questo termine ad altri poleonimi (nomi di città) etruschi come Mantua, Genua, Addua, Padua e Berua. La radice kain- della parola sembrerebbe avvicinabile all'aggettivo greco kaniòs/kainòn, che significa "nuovo". Il nome Kainua verrebbe così a significare "la nuova".
Ad uno sguardo d'insieme emerge l'esistenza di un vero e proprio piano urbanistico, elaborato teoricamente ed applicato concretamente sul terreno al momento della rifondazione della città. All'esterno dell'area abitativa si trovano l'acropoli, dislocata su una piccola altura a nordovest, e due necropoli, a nord e ad est dell'abitato. Sull'acropoli sono state individuate strutture architettoniche che possono essere interpretate come sede di un rito funzionale alla fondazione della città e al tracciamento delle sue infrastrutture. Sulla base di queste osservazioni è stato possibile ricostruire in maniera puntuale lo svolgimento del rituale di fondazione; la forma urbana di Kainua-Marzabotto corrisponde alla figura che collega i punti estremi delle albe e dei tramonti del sole al solstizio d'inverno e d'estate. Nel corso del rito in questi punti vennero deposti dei cippi, iscritti con una croce e orientati secondo i punti cardinali. Quello principale risulta visibile ancora oggi sul campo, al centro esatto dell'antica città.

Fonte:
stilearte.it

Gran Bretagna, l'impronta di un'antica Cenerentola...

Gran Bretagna, lo scavo della fornace romana
(Foto: Oxford archaeology)

Impronte di eleganti scarpe da donna su una mattonella romana del III o IV secolo d.C. - una scarpa dalla pianta sottile, sagomata leggiadramente - suscitano gli interrogativi degli studiosi inglesi, impegnati ad analizzare i materiali recuperati da una fornace che produceva piastrelle nelle East Midlands per le ville romane del circondario. Che ci faceva un'elegante signora in quel luogo, con quel bel piedino aggraziato? E chi era quell'uomo che firmò un'altra piastrella con la scritta Potentius fecit - che oggi potremmo liberamente tradurre, in italiano corrente, come "fatto da Potentius" - come avrebbe potuto firmare un'opera d'arte?
Qualche ricercatore avanza l'ipotesi che nelle fabbriche lavorasse anche personale alfabetizzato, se non colto, e che esistesse una manodopera femminile, che indossava eleganti calzature.

Fonte:
stilearte.it

Romania, la maschera di ferro romana...

Romania, la maschera da parata romana trovata
(Foto: Museo della Contea di Gorj)

La scoperta di una maschera da parata romana in Romania è opera di un archeologo dilettante. La maschera è stata rinvenuta nel comune di Albeni, situato nella contea di Gorj.
Betej Viorel stava conducendo un'indagine di rilevamento di metalli quando si è imbattuto in una maschera di ferro di epoca romana. Naturalmente ha immediatamente contattato le autorità.
Secondo Gheorghe Calotoiu del Gorj County Museum, la maschera era probabilmente indossata da un soldato di stanza presso il forte romano di Bumbesti-Jiu, ora noto come Vartop, o un avamposto militare da qualche parte nelle vicinanze.
La maschera è relativamente intatta, ma si è corrosa a causa dell'elevato contenuto di ferro e dell'esposizione all'ossigeno ed all'acqua del terreno in cui è stata rinvenuta. L'artigiano che ha forgiato la maschera ha praticato dei fori intorno alle narici per consentire la respirazione e fessure per gli occhi e la bocca.
Gli esperti datano la maschera al II-III secolo d.C., un periodo in cui parti della Romania facevano parte della provincia romana della Dacia, nota anche come Dacia Traianea. La regione venne conquistata dall'imperatore Traiano tra il 98 ed il 117 d.C., dopo due campagne militari che devastarono il regno di Decebalo.
Il forte, in quell'area, fu costruito ed utilizzato proprio tra le due guerre di conquista della Dacia, dopodiché fu progressivamente abbandonato. Nei pressi della fortificazione romana sono state rinvenute tracce di insediamento civile. La missione di questo insediamento militare era di sorvegliare la strada romana che parte da Bumbesti attraverso Porceni sulle montagne, attraverso il passo Valcan fino a Sarmisegetuza, nonché di controllare la popolazione dei Daci.
Gli elmi a maschera erano utilizzati principalmente dalla cavalleria romana in epoca imperiale, probabilmente in occasione degli Hippica Gymnasia, addestramenti spettacolari a scopo dimostrativo. I cavalieri apparivano così come statue spaventose e fiere. Molto probabilmente le maschere stesse trovavano un parziale uso anche in battaglia e pare che proteggessero i signiferi e vessilliferi, portatori di bandiere e segnali che costituivano i punto più avanzati delle linee d'attacco e che rappresentavano visivamente un punto di riferimento per i movimenti da compiere all'interno del campo dello scontro.
Una maschera facciale laminata d'argento venne trovata -  a dimostrazione del fatto che esse venivano utilizzate anche durante azioni militari - sul campo di battaglia della foresta di Teutoburgo, luogo dello scontro tra romani e germani, nel 9 d.C. In precedenza si pensava che queste maschere in dotazione alla cavalleria romana avessero un uso funerario o da parata. Invece precisi test hanno dimostrato che questi oggetti (anche di bronzo e a volte formavano un tutt'uno con l'elmo) non intralciavano in battaglia il cavaliere, il quale non potendosi riparare dietro ampi scudi li utilizzava come protezione e anche per incutere timore nei nemici.

Fonte:
stilearte.it


Castellammare di Stabia, l'ipogeo di San Biagio

Castellammare di Stabia, affresco
dell'Arcangelo Michele 
(Foto: archeomedia.net)

Il consolidamento e il restauro della Grotta di San Biagio, luogo di culto risalente al V-VI secolo d.C. situata ai piedi di Varano, a Castellammare di Stabia, nell'area sottostante Villa Arianna, è tra gli interventi che il Parco Archeologico di Pompei sta programmando con la collaborazione del Centro Interdipartimentale dei Beni Culturali (CiBEC) dell'Università di Napoli Federico II.
Le indagini e le attività di monitoraggio in corso sono propedeutiche allo studio della stabilità del versante del costone della collina di Varano e della volta della Grotta di San Biagio, al fine di rimuovere le strutture attualmente presenti e permetterne la visita.
Secondo studi recenti questo ipogeo fu sfruttato dai romani per la costruzione delle loro ville di otium sulla collina di Varano. Difatti questa grotta è costituita da materiale tufaceo, materiale, cioè, utilizzato nelle costruzioni fino a settant'anni fa, prima dell'avvento del cemento armato. Quindi, in origine, avrebbe potuto essere una grotta naturale, ampliata dai romani per l'estrazione del tufo da costruzione.
Le prime testimonianze di epoca post romana di questa grotta risalgono al V-VI secolo d.C. Secondo antichi autori (Milante, de Ruggiero, de Rosania) e autori meno recenti (Cosenza, Di Capua) questa grotta di epoca romana fu trasformata, forse, dai primi cristiani in catacomba e successivamente in chiesa dai monaci Benedettini. Questo oratorio diventa così il centro spirituale della città, primo ed unico luogo di culto, dove officiarono i primi vescovi. Questa grotta, quindi, fu trasformata in chiesa, con una pianta a croce latina, con presbiterio ed altare maggiore. L'interno è arricchito da un pregevole ciclo di affreschi di epoca altomedioevale (VI-X secolo d.C.). Recenti lavori di restauro hanno svelato l'esistenza di un cimitero paleocristiano.
Tra gli affreschi più importanti la Madonna in Trono, di autore ignoto, è stata dipinta tra l'VIII ed il X secolo, è di fattura bizantina e si tratta della più antica rappresentazione mariana nel territorio della diocesi sorrentino-stabiese: rappresenta una Madonna dall'aspetto rigido che porta tra le braccia Gesù nell'atto di benedire; l'arcangelo Michele, risalente al XII-XIII secolo, è raffigurato quasi a grandezza naturale, vestito da una tunica come un guerriero longobardo e regge tra le mani un globo e una lancia stilizzata; san Renato, risalente all'XI secolo, raffigura il primo vescovo di Sorrento: ha testa calva, fronte alta ed è vestito con pallio vescovile e regge in mano il libro delle sacre scritture: un Cristo accompagnato dagli arcangeli Michele e Raffaele; san Giovanni e Santa Brigida; i santi Pietro e Giovanni.

Fonti:
archeomedia.net
museionline.info


domenica 5 febbraio 2023

Pompei, nuove scoperte nel Complesso dei Riti Magici

Pompei, una mano magica in bronzo raffigurante Sabazio
(Foto: stilearte.it)

Il Complesso dei Riti Magici è da tempo avvolto dal mistero, dal momento che tanti sono gli interrogativi che gli archeologi si sono posti, ma poche le risposte e le conferme. Comunque, le interpretazioni ruotano tutte attorno alla sfera del magico: forse la casa di una sibilla, oppure una casa-tempio dedicata al culto di un dio legato a pratiche di magie, o ancora la sede di chi si occupava di pratiche occulte. La struttura, messa in luce tra il 1953 ed il 1958, deve il suo nome ad alcuni oggetti rinvenuti al suo interno.
Nella più recente campagna di scavo, conclusasi nel 2022, portata avanti dalla Dottoressa Anna Anguissola, del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell'Università di Pisa, dal Dottor Riccardo Olivito della Research Unit LYNX della IMT School e dal Dottor Alberto Martin Esquivel dell'Università di Salamanca, sono emersi nuovi reperti che aprono una serie di nuove questioni. Si tratta, infatti, di monete tagliate o bucate volontariamente, probabilmente legate allo svolgimento di un rituale magico, e piccoli vasi sepolti nel terreno durante una cerimonia sacrificale, come testimoniano i resti di frustoli di carbone e di cibo, probabilmente un pasto rituale.
Nelle precedenti campagne di scavo erano stati rinvenuti interessanti oggetti magici, come le famosissime "mani magiche" di bronzo dedicate al dio Sabazio, una divinità di origine frigia o tracica, importata dai Greci e arrivata fino a Pompei. Riconosciuto come dio della vegetazione, i Greci lo consideravano come Zeus o Dioniso, mentre le rappresentazioni che arrivano dal mondo romano lo mostrano a cavallo, con in mano il bastone del potere. Il dio Sabazio era venerato dal proprietario di una domus vicina, che possedeva un busto in bronzo del dio.
Accanto a queste mani in bronzo furono rinvenuti due vasi in terracotta con raffigurazioni di lucertole, serpenti, testuggini, grappoli d'uva e pane che alludevano alle divinità agrarie e alle forze della natura. Certamente un culto legato alla terra, alla natura, con elementi misterici e magici, per questo motivo condannato. Questa situazione porterebbe, quindi, ad ipotizzare che gli adepti dovessero riunirsi in luoghi segreti, proprio per non essere scoperti. 
In effetti il Complesso dei Riti Magici presenta una struttura molto particolare, che difficilmente può essere considerata una semplice domus: vi sono tre aree aperte sulle quali si affacciano diverse piccole stanze, in una delle quali, vicino all'ingresso, vi è una sala destinata agli incontri e ai banchetti propiziatori; inoltre, nel nel cortile, vi è un'ara alle cui spalle si apriva l'esedra destinata ai riti magici.
Gli studi più recenti dimostrano che il Complesso ha avuto un utilizzo legato all'ambito della magia a partire dal 62 d.C., fino alla distruzione del 79 d.C., e che si costruisce su un'area occupata da domus più piccole tra il III ed il II secolo a.C., poi accorpate in modo da formare un'abitazione più grande.

Fonte:
mediterraneoantico.it

Saqqara, i segreti dell'imbalsamazione

Egitto, i vasi rinvenuti nel laboratorio di Saqqara
(Foto: Ministry of Tourism and Antiquities)

In queste ultime settimane il sito di Saqqara non smette di far parlare di sé: infatti, i reperti rinvenuti in un laboratorio di imbalsamazione risalente alla XXVI Dinastia (VII-VI secolo a.C.) stanno riscrivendo la storia della mummificazione.
Grazie allo studio pubblicato sulla rivista Nature ed effettuato sotto la guida dell'Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera e dell'Università di Tubinga, in collaborazione con il Centro Nazionale di ricerca del Cairo e con la partecipazione dell'Università di Torino, sono stati individuati gli "ingredienti segreti" utilizzati nel processo di imbalsamazione dagli antichi.
Le conoscenze attuali, prima di questo studio, si basavano su antiche fonti scritte, i cosiddetti Papiri dell'Imbalsamazione, e sulle analisi dei residui organici di mummie egizie, a cui si aggiungono le indicazioni fornite da autori greci come Erodoto e Diodoro. Pur conoscendo in modo preciso e puntuale i nomi egizi delle sostanze che venivano utilizzate in questo delicato e lungo processo - richiedeva circa 70 giorni - , numerosi sono i dibattiti sulle sostanze a cui effettivamente corrispondono.
Dopo aver individuato un laboratorio di imbalsamazione pochi metri a sud della piramide di Unas (V Dinastia), ricco di manufatti - vi sono, infatti, 121 bicchieri e ciotole incisi con testi ieratici e demotici che forniscono istruzioni sull'imbalsamazione e/o nomi di sostanze imbalsamatrici - il team di ricerca ha analizzato il contenuto di 31 vasi.
Attraverso esami, quali la gascromatografia-spettrometria di massa, è emerso che gli antichi egizi utilizzavano cera d'api, olio di cedro, ginepro, bitume, resina di pistacchio, gomma dammar e resina di elemi, miscelandoli insieme e riscaldando le sostanze resinose con grasso e olio. Un aspetto certamente interessante riguarda il fatto che per ogni parte del corpo doveva essere utilizzata una precisa miscela di sostanze, come testimoniano i residui presenti nei vasi e le etichette apposte sugli stessi. In particolare l'imbalsamazione della testa richiedeva l'utilizzo di sottoprodotti di ginepro o cipresso e cera d'api.
Quindi, come riportato nella rivista Nature, "questi risultati suggeriscono che gli imbalsamatori utilizzassero le sostanze per le loro specifiche proprietà biochimiche, in quanto resina di Pistacia, elemi, dammar, oli, bitume e cera d'api hanno proprietà antibatteriche o antimicotiche e odorifere, e quindi aiutano a preservare i tessuti umani e ridurre gli odori sgradevoli. Il grasso animale, l'olio vegetale e la cera d'api erano anche ingredienti essenziali nelle ricette per il trattamento di diverse parti del corpo, così come negli unguenti usati per idratare la pelle. Infine, le proprietà idrofobiche e adesive di catrami, resine, bitume e cera d'api erano utili per sigillare i pori della pelle, escludere l'umidità e trattare gli involucri di lino. Anche il colore o l'aspetto di questi prodotti potevano essere desiderabili".
Una volta ottenuti tali risultati, i ricercatori si sono resi conto che molti dei prodotti utilizzati erano importati dal Mediterraneo, dall'Africa tropicale e persino dal sudest asiatico. Tali provenienze permettono quindi di fare un discorso più ampio: fino a dove commerciavano gli antichi egizi? Si può immaginare, certamente, una vasta rete commerciale che metteva in comunicazione tutto il mondo allora conosciuto.
La resina chiamata elemi proviene dagli alberi di Canarium che crescono nelle foreste pluviali di Asia ed Africa; un'altra resina, il dammar, proviene da alberi di Shorea trovati nelle foreste tropicali dell'India meridionale, dello Sri Lanka e del sudest asiatico. Gli studi chimici sulle mummie suggeriscono che le ricette di imbalsamazione sono diventate più complesse nel tempo.
La scoperta del laboratorio di Saqqara, avvenuta nel 2016, ha rappresentato una svolta ed ha riservato agli archeologi molte sorprese. Ad esempio si è scoperto che la sostanza che gli egizi chiamavano "antiu", e che solitamente veniva tradotta come mirra, è in realtà una miscela di ingredienti (come olio di cedro, ginepro e grassi di origine animale) che i ricercatori sono riusciti a separare con l'aiuto della gascromatografia e la spettrometria di massa.
Il laboratorio di imbalsamazione comprende una struttura di eviscerazione sotterranea (il wabet), una struttura fuori terra multifunzionale (probabilmente corrispondente all'ibu) e spazi di sepoltura comuni. Oltre a queste strutture, nel wabet è stato scoperto un deposito di vasi di ceramica per l'imbalsamazione che comprende un cospicuo corpus di cocci e vasi sia rotti che interi, alcuni dei quali presentano tracce di bruciature e gocciolamenti di sostanze bollite sulla superficie esterna. 
Gli imbalsamatori del laboratorio fornivano anche servizi aggiuntivi, tra i quali la sepoltura dei defunti in loculi comuni.

Fonti:
mediterraneoantico.it
ansa.it
nature.com

Roma, rinvenuta un'immagine della dea Roma a Porta Metronia

Roma, immagine della dea Roma rinvenuta durante gli
scavi della metro C (Foto: Ansa)

Gli scavi della metro C di Roma continuano a riservare sorprese agli archeologi. E' stato, infatti, rinvenuto presso la stazione di Porta Metronia un raro reperto: il fondo di una coppa in vetro decorato con la dea eponima. La divinità, già presente sulle monete agli inizi del III secolo a.C., non è solo la rappresentazione della città di Roma ma dello Stato romano. Ben nota è la sua raffigurazione sull'Ara Pacis Augustae o sulla base di colonna dell'imperatore Antonino Pio.
Roma, la cui iconografia presenta elmo, lancia e scudo, è qui finemente rappresentata. L'oro utilizzato ne esalta i contorni e la raffinatezza. In origine la coppa, la cui base aveva questa decorazione, era forse un dono, di cui non è possibile stabilirne l'utilizzo potorio o decorativo. Come spiega Simona Morretta, funzionaria archeologa della Soprintendenza Speciale di Roma, la coppa ad un certo punto si è rotta, per cui il fondo è stato tagliato ed è stato utilizzato, probabilmente, come elemento di arredo appeso ad una parete o messo in bella mostra su un mobile.
Il reperto proviene dagli strati di riempimento successivi all'abbandono e alla rasatura degli alzati murari della caserma militare (III secolo d.C.), ed è databile, da un primo studio, agli inizi del IV secolo d.C. La dea Roma verrà esposta in una teca nella stazione-museo di Porta Metronia: tutti potranno ammirare lo splendore della dea dell'Urbs.

Fonte:
mediterraneoantico.it

giovedì 2 febbraio 2023

Gerusalemme, il mistero della mano sul muro di un fossato

Israele, la misteriosa impronta di una mano
(Foto: Yoli Schwartz, Autorità Israeliana per le Antichità)

Sotto la Città Vecchia di Gerusalemme è stato scoperto un fossato che, un tempo, fungeva da ostacolo per gli eserciti crociati. Durante lo scavo dell'antica linea di difesa, gli archeologi si sono imbattuti anche in un'impronta di mano scolpita nel muro del fossato, ma non sono stati in grado di offrire una spiegazione a questo misterioso bassorilievo ed al suo significato.
Il fossato circondava le famose mura della città e si pensa che sia stato scavato non più tardi del X secolo d.C. Secondo il direttore degli scavi della Israel Antiquities Authority, Zubair Adawi, il fossato era largo almeno 10 metri e profondo tra i due ed i sette metri. "La sua funzione era impedire al nemico che assediava Gerusalemme di avvicinarsi alle mura e di irrompere nella città", ha spiegato Adawi. "I fossati, solitamente pieni d'acqua, sono ben noti da fortificazioni e castelli in Europa. Qui il fossato era asciutto, la sua larghezza e profondità presentavano un ostacolo che rallentava l'esercito attaccante".
Le mura e le porte della città, che oggi circondano la Città Vecchia, furono costruite nel XVI secolo dal sultano ottomano Solimano I il Magnifico, ma le antiche fortificazioni che proteggevano Gerusalemme prima di queste mura erano molto più impenetrabili, a detta degli archeologi.
Data l'età del fossato, è molto probabile che abbia assistito a qualche azione seria durante le Crociate, poiché gli eserciti europei tentarono ripetutamente di prendere Gerusalemme tra l'XI ed il XIII secolo. "Gli storici che hanno accompagnato la Prima Crociata, descrivono l'arrivo dei crociati alle mura di Gerusalemme nel giugno 1099", dice Amit Re'em, direttore regionale di Gerusalemme presso l'Autorità per le Antichità d'Israele. "Sfiniti dal viaggio, si fermarono di fronte all'enorme fossato, e solo dopo cinque settimane riuscirono ad attraversarlo a costo di molto sangue, sotto il fuoco pesante dei difensori musulmani ed ebrei".
Tra gli elementi più intriganti scoperti dagli archeologi, c'è un'impronta di una mano all'interno del muro del fossato. Una mano misteriosa. Forse si tratta di un simbolo oppure di uno scherzo. Gli archeologi stanno cercando risposte.

Fonte:
iflscience.com


Antichi rituali di sacrifici umani: l'incaprettamento femminile

Francia, le sepolture neolitiche rinvenute in grotta (Foto: stilearte.it) Uno studio, pubblicato da Science advances , ha portato alla luce ...