sabato 30 novembre 2019

Restaurato il Frammento Vaticano di Giotto

Il Frammento Vaticano dopo il restauro dell'Opificio delle Pietre Dure
(Foto: Il Giornale dell'Arte)
Si è concluso il restauro del prezioso Frammento Vaticano di Giotto proveniente dall'antica Basilica di San Pietro. L'opera, di proprietà di collezionisti privati, è stata presa in cura tre anni fa dall'Opificio delle Pietre Dure, dopo essere stata esposta per la prima volta alla mostra su "Giotto e l'Italia", tenutasi in Palazzo Reale a Milano nell'ambito dell'Expo 2015. Il restauro è stato diretto da Cecilia Frosinini ed affidato ad Alberto Felici. Il frammento misura cm 41x46, con bordi irregolari ed è stato analizzato solo in una pubblicazione di Valentino Martinelli del 1971.
Dopo la distruzione dell'ala orientale della chiesa per i lavori di rinnovamento della Basilica, nel 1610 il frammento venne collocato all'interno di una cassetta, calato nel gesso per preservarlo. Sul retro della cassetta un'iscrizione latina riferisce che il frammento è un dono di Piero Strozzi, segretario di papa Paolo V Borghese, a Matteo Caccini, personaggio di famiglia romano-fiorentina, il quale "amò di onorarla" (da qui la sistemazione nella cassetta) per presentarla al culto dei fedeli "in hoc loco".
Il "loco" resta, però, misterioso, sebbene Serena Romano ipotizzi, interpretando le fonti e servendosi dell'acquerello di Jacopo Grimaldi che ritrae la Basilica, fosse la controfacciata. Vasari, infatti, scrive che alcune pitture furono "disfatte e trasportate fin sotto l'organo". Prima del restauro si pensava che il frammento fosse composto da frammenti separati di intonaco, mentre è stato appurato che si tratta di un unico pezzo. Tra intonaco e supporto, spiega Felici, furono anche trovate quattro lame, gli strumenti con cui fu assottigliato per procedere allo stacco.
Cecilia Frosinini sottolinea la scelta metodologica dell'Opificio di non limitarsi ad una semplice pulitura, prendendo atto della vita dell'opera nei secoli, poiché l'immagine era a tal punto "disordinata", con traccia di almeno tre restauri precedenti, da essere ritenuta quasi illeggibile. L'intervento non solo ha liberato le figure dal gesso dipinto in nero in cui era "incastonato", ma ha permesso di ritrovare pigmenti di rara bellezza e di apprezzare la luminosità dello strato pittorico, con una morbidezza di pennellata straordinaria.
Le teste misurano circa 12 centimetri, disposte vicine ma leggermente scalate con un gioco raffinato di spazi. Sono compatibili con figure intere di 70-80 centimetri che potevano appartenere ad una scena narrativa oppure ad un pannello con figure  di santi, ma non raffigurano Pietro e Paolo, come tradizionalmente si riteneva. Il santo sulla sinistra indossa una stola, mai presente nelle figure di apostoli (eccezion fatta per l'iconografia della stola immortalitatis nell'Ascensione, ma non è questo il caso), né si capisce quale sia il libro che tiene in mano; quanto all'ecclesiastico tonsurato sulla destra, con una veste turchese, svelata nella sua ricchezza decorativa dal restauro, potrebbe forse trattarsi di san Martino o san Nicola, nulla è certo.
Per la datazione la Romano propende per il 1320 circa, quando lo stile soffice e piumoso di certe pennellate nel definire le fisionomie si ritrova in alcuni allievi del maestro, quali Puccio Capanna, Giottino o Stefano. La riflettografia ad infrarossi ha rivelato forti consonanze con il "Santo Stefano" del Polittico Stefaneschi conservato al Museo Horne.

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