domenica 26 novembre 2017

Alessandria d'Egitto: scoperti i resti di un antico naufragio

La barca votiva di Osiride trovata nel fondo del mare ad Alessandria d'Egitto
(Foto: english.ahram.org.eg)
Sul fondo del mar Mediterraneo, di fronte alla città egiziana di Alessandria, questa settimana sono stati scoperti tre relitti di navi romane ed una barca votiva del dio Osiride, unitamente ad altri manufatti.
I reperti sono stati rinvenuti durante un'esplorazione archeologica subacquea effettuata da una missione congiunta del Dipartimento di archeologia subacquea del Ministero per le antichità e dell'Istituto europeo di archeologia subacquea nella baia di Abu Qir.
Tra i reperti trovati vi è anche una testa romana in cristallo, raffigurante probabilmente il generale romano Marco Antonio e monete d'oro dell'epoca di Augusto. Il porto orientale, che si trova nella baia di Abu Qir, nasconde ancora molti tesori, a detta di Osama al-Nahas, capo del Dipartimento di archeologia subacquea presso il Ministero delle Antichità. Quanto ritrovato è la prova di un naufragio ancora non identificato e che potrebbe essere circoscritto ed esplorato durante la stagione di scavi 2018. La missione archeologica ha già individuato diverse grandi assi di legno e resti archeologici di vasi in ceramica che possono rappresentare il carico della nave.

Fonte:
english.ahram.org.eg

Israele, trovato il rilievo di una leonessa a Tell el-Araj

Il rilievo raffigurante una leonessa o una chimera trovato a el-Araj
(Foto: Dottor Mordechai Aviam)
Un rilievo raffigurante una leonessa, risalente a 1500 anni fa, è stato scoperto a Tell el-Araj, in Israele. Il prezioso rilievo giaceva in un mucchio di immondizia. La roccia dalla quale è stato ricavato il rilievo è di basalto e pesa ben 600 chilogrammi.
La scultura risale al IV-VI secolo d.C., ha affermato il Dottor Mordechai Aviam, direttore degli scavi in Galilea. Il rilievo è abbastanza ben conservato, la testa è stata scolpita tridimensionalmente, mentre il corpo è bidimensionale, ad altorilievo. Gli archeologi sono indecisi se si tratti di una leonessa o, piuttosto, di una chimera, vista la criniera piuttosto scarna.
Durante gli scavi del 2016 nel sito di el-Araj, gli archeologi hanno scoperto i resti di un villaggio ebraico dell'epoca del secondo tempio. Il simbolo del leone è molto frequente nel giudaismo, le antiche sinagoghe della Galilea e del Golan recano spesso immagini del leone, che non compare, viceversa, negli edifici ecclesiastici di epoca bizantina. Il Dottor Aviam ha paragonato il rilievo appena scoperto ad altri raffiguranti leoni e leonesse scoperti nelle sinagoghe del Golan.
Il Dottor Aviam pensa che il sito in cui è stato rinvenuto il prezioso reperto sia stata, un tempo, la città romana di Julias. Probabilmente, se così fosse, il rilievo leonino abbelliva un edificio pubblico non ebraico. Diverse emergenze archeologiche rinvenute nella regione, del resto, indicano la presenza di un grande edificio del IV-VI secolo d.C. che, però, non è stato ancora trovato.
La scoperta del rilievo è stata accidentale, effettuata tra i detriti di epoca moderna. Julias, insediamento romano, era una sorta di periferia della città biblica di Betsaida. Il sito è al momento in fase di scavo da parte del Kinneret Academic College, del Kinneret Archaeology Institute e del Nyack College.
Betsaida, alla quale Julias era collegata, era un villaggio di pescatori presso il mare di Galilea. Fu il re Filippo Erode, figlio di Erode il Grande, a far costruire la città di Julias Betsaida o, comunque, l'estensione dell'originaria Betsaida, stando a quanto racconta lo storico ebreo Giuseppe Flavio. Molti ricercatori ritengono che il sito di el-Araj sia l'originaria Betsaida, dove Gesù operò diversi miracoli, luogo di nascita di Filippo, Pietro e Andrea.

Fonte:
haaretz.com

sabato 25 novembre 2017

Scoperte nei pressi dell'abbazia di S. Gervasio a Mondolfo

Gli scavi nei pressi dell'abbazia di S. Gervasio
(Foto:oltrefano.it)
E' uno scrigno dall'inestimabile valore l'area dell'antica abbazia di San Gervasio di Bulgaria, a Mondolfo, provincia di Pesaro e Urbino, nelle Marche. Sono di enorme interesse e importanza i risultati della indagini archeologiche condotte intorno all'abbazia. La prima campagna 2016-2017 è stata presentata dal sindaco Nicola Barbieri, dal consigliere comunale Enrico Sora, dal funzionario archeologo della Soprintendenza archeologica belle arti e paesaggio delle Marche, Maria Gloria Cerquetti e dagli archeologi che hanno condotto gli scavi.
Tra marzo e maggio 2016, in occasione di alcuni lavori di ammodernamento della rete idrica sono emersi reperti di importanza tale da indurre, nel 2017, a proseguire nelle indagini durante le fasi di manutenzione straordinaria a un impianto di depurazione nei pressi dell'abbazia, in area che insiste nel sito di rinvenimento di una necropoli.
Le indagini hanno portato alla luce reperti e strutture di notevole interesse in ben tre aree: una di carattere cimiteriale e due di carattere abitativo. Per le fasi abitative ci sono ragionevoli elementi che portano a pensare ad una scoperta di eccezionale rilevanza per il territorio di Mondolfo ma anche per l'intera vallata, con tracce di un edificio pubblico di grandi dimensioni e un sito pluristratificato, che presenta almeno tre fasi insediative fino all'ultima, databile all'età gota, successiva alla metà del VI secolo d.C. e quindi altomedioevale. Mentre l'area sepolcrale ha evidenziato sepolture che sembrano tutte databili tra la tarda antichità e l'alto medioevo e forse con elementi del mondo barbarico (longobardo).
La dedicazione dell'abbazia al martire milanese Gervasio, fratello di Protasio, il cui culto era stato diffuso da S. Ambrogio a partire dal 386, farebbe risalire il luogo di culto alle prime fasi della cristianizzazione della valle del Cesano. Anche il sarcofago di stile ravennate degli inizi del VI secolo d.C. è un indizio circa l'esistenza di un'area cimiteriale nello stesso sito. Altri indizi farebbero pensare che nel corso del VI secolo sia accaduto qualcosa di importante nella trasformazione o riutilizzo di strutture di età romana nella prospettiva di fondazione di un edificio chiesastico.
Negli scavi del 2016 sono venute alla luce antiche tombe, probabilmente di epoca romana. Lo scavo era funzionale alla realizzazione di nuove condotte idriche. Le sepolture risalgono al IV o V secolo d.C.. A confermare la rilevanza della scoperta è stata la Dottoressa Maria Gloria Cerquetti, funzionaria della Soprintendenza. Una delle sepolture presentava una copertura a tegole ad alette e custodiva lo scheletro di un infante. L'orientamento della tomba era da est ad ovest, tipico dell'età tardo romana. All'interno di questa tomba non è stato trovato alcun tipo di corredo e lo scheletro era scomposto a causa della spinta del terreno. La seconda tomba, sicuramente di un adulto, è stata individuata pochi metri di distanza dalla prima.

Fonti:
oltrefano.it
ilrestodelcarlino.it

Pompei, emergono nuovi reperti nella Schola Armatorarum

Una delle anfore trovate in un recente scavo a Pompei
(Foto: vesuviolive.it)
Presso la Schola Armatorarum, ormai simbolo di rinascita per gli Scavi di Pompei, dove è in corso il restauro degli affreschi originali salvatisi dal bombardamento del 1943, dallo scorso luglio è stato avviato anche lo scavo degli ambienti retrostanti, mai prima indagati. Un deposito di anfore, al momento formato da 14 reperti immersi nel lapillo, è stato riportato alla luce.
Si tratta di uno dei tre ambienti individuati alle spalle della parte di struttura più nota della Schola Armatorarum. Le anfore, rinvenute intatte, dovevano contenere olio, vino e salse di pesce: un'anfora presenta iscrizioni dipinte in cui si leggono numeri, a indicare i quantitativi e, verosimilmente, il prodotto contenuto. L'uso come deposito dell'ambiente è confermato dai graffiti visibili su una delle pareti dell'ambiente, che ribadiscono l'attività di stoccaggio.
Al termine dello scavo, previsto per il mese di dicembre, le anfore saranno ricollocate in sito nell'ambito del più ampio progetto di valorizzazione del "museo diffuso" che il Parco archeologico sta adottando in più aree degli scavi per ricontestualizzare i reperti nei luoghi di provenienza.
Fino ad ora l'unico ambiente, portato alla luce nel 1915 da Vittorio Spinazzola, era stato quello ben conosciuto che affacciava su via dell'Abbondanza. Il suo carattere pubblico militare fu fin dall'inizio chiaro per via delle grandi dimensioni e della sua decorazione (i trofei all'ingresso e le figure alate e armate che decorano le pareti). Tuttavia la sua esatta destinazione, deposito di armi o scuola di formazione della gioventù pompeiana, continua a non essere certa. Lo scavo di questi altri ambienti, che rientra nel cantiere "Scavi e ricerche", ha come obiettivo proprio quello di chiarire tali aspetti.
L'esplorazione della struttura completa della Schola non è il solo intervento del genere previsto a Pompei. In corso è anche il grande cantiere di scavo della Regio V, il cosiddetto "cuneo" (un'area di oltre 1.000 metri quadrati nella zona posta tra la casa delle Nozze d'Argento e gli edifici alla sinistra del vicolo di Lucrezio Frontone), dal quale ci si aspetta di portare in luce ulteriori strutture e reperti di ambienti privati e pubblici. In quest'area, inoltre, sarà previsto l'allestimento di un laboratorio di studio archeologico dei reperti che verranno alla luce e un deposito per la loro conservazione temporanea.

Fonte:
vesuviolive.it

venerdì 24 novembre 2017

I "guardiani" dei rotoli di Qumran

Resti di anfore e papiri in una delle grotte di Qumran
(Foto: repubblica.it)
Chi erano quei 33 uomini? Sono stati loro a scrivere i famosi Rotoli del Mar Morto, o forse erano soltanto i protettori degli antichi manoscritti? Una serie di interrogativi, al quale gli esperti stanno cercando di dare una risposta, è nata dopo l'annuncio del completamento delle analisi fatte su più di trenta scheletri scoperti nel deserto della Giudea, nei pressi di Qumran nel 2016 e su cui ora sono stati completati gli esami.
Gli scheletri provengono dalla zona che ospita le grotte dove furono ritrovati i famosi Rotoli del Mar Morto, composti da 900 documenti fra cui testi della Bibbia ebraica e trovati 60 anni fa in undici caverne vicino alle rovine dell'antico insediamento di Khirbet Qumran. Sul valore e la creazione dei testi rimangono decine di interrogativi aperti che ora gli archeologi e storici proveranno a colmare attraverso l'analisi degli ultimi ritrovamenti: si tratta di scheletri e resti di ossa di decine di uomini, probabilmente tutti celibi e appartenenti a una "casta", sepolti appunto nella zona di Qumran.
Un team internazionale di ricercatori, con il supporto dell'Autorità israeliana per le antichità, ha eseguito analisi al radiocarbonio sulle ossa e stimato che quegli uomini fossero di 2200 fa, il che si allinea con il periodo in cui si pensa che le pergamene siano state scritte, tra il 150 a.C. e il 70 d.C.. Per questo motivo gli studiosi avanzano l'ipotesi, come ha spiegato Yossi Nagar, antropologa dell'Autorità israeliana, che quelle persone fossero "o i guardiani dei rotoli o coloro che li hanno scritti".
La domanda su chi ha realizzato i rotoli da tempo è strettamente collegata a quella su chi fossero esattamente gli abitanti di Qumran. Una teoria è quella che l'area di Qumran allora era popolata da una setta ebraica, quella degli Esseni, che conduceva una vita eremitica, dedita al celibato. Altre teorie parlano di popolazioni beduine o addirittura di soldati romani. Per Nagar è difficile confermare "che gli scheletri appartenessero agli Esseni, ma è probabile che fossero di uomini celibi".
Dalle analisi delle dimensioni e della forma pelvica risulta, infatti, che i resti appartenevano tutti a persone di sesso maschile, ma saranno necessari ulteriori esami, - in particolare su tre scheletri di cui restano solo poche parti - per confermare che non ci siano anche resti di donne o bambini. "Quello che pensiamo - aggiunte Nagar - è che al momento della loro morte avevano un'età compresa tra i 20 e i 50 anni. Adesso, con l'aiuto di vari esperti, speriamo davvero di riuscire a capire chi fossero e quale fosse il loro collegamento con i rotoli".

Fonte:
repubblica.it

venerdì 17 novembre 2017

In mostra le lamine d'oro di Tutankhamon

Una delle lamine d'oro di Tutankhamon (Foto: english.ahram.org.eg)
Il Ministro Egiziano delle Antichità, Khaled el-Enany, ha inaugurato la mostra dei tesori di Tutankhamon al Museo Egizio del Cairo, dove saranno esposti, per la prima volta, delle lamine auree di notevole importanza.
La mostra cade nel 115° anniversario dall'apertura del Museo e nel 60° anniversario della riapertura dell'Istituto Archeologico Tedesco de Il Cairo. Christian Eckmann, un restauratore tedesco che ha restaurato i cosiddetti fogli d'oro di Tutankhamon, ha dichiarato che per la prima volta queste lamine saranno esposte al pubblico.
Carter ed i suoi collaboratori, che scoprirono la tomba di Tutankhamon nel 1922, hanno documentato meticolosamente la posizione e l'aspetto di circa 5.400 oggetti, tra i quali mobili, armi, abbigliamento, stoviglie, resti di cibo, carri e oggetti cultuali. Alcune applicazioni di pelle, trovate sparse sul pavimento, sono state associate ad un carro e ai finimenti di un cavallo. Vi sono anche parti di faretre, paraocchi e rivestimenti del carro funebre.
A causa della condizione delicata e del loro precario stato di conservazione, questa collezione di lamine d'oro è stata custodita per anni nel Museo Egizio de Il Cairo.

Cani e uomini, un legame antichissimo

In basso gli antichi cani da caccia dell'Arabia
Saudita mentre in alto il cane della razza
di Canaan (Foto: Alexandra Buba)
Un cacciatore scolpito nell'arenaria sul bordo di un fiume nel deserto arabo è pronto ad uccidere la preda con il suo arco. L'uomo è accompagnato da ben 13 cani, due dei quali sembra abbiano una sorta di guinzaglio.
Le incisioni risalgono a più di 8000 anni fa, il che fa di loro le prime rappresentazioni di cani, secondo uno studio recente. Il fatto che alcuni dei cani abbiano il guinzaglio fa pensare che gli esseri umani abbiano imparato l'arte di addestrare e controllare i cani migliaia di anni prima di quanto si pensasse.
La scena di caccia proviene da Shuwaymis, una regione collinare dell'Arabia Saudita, dove piogge stagionali formavano, un tempo, fiumi e davano vita ad una fitta vegetazione. In questi ultimi tre anni, l'archeologa Maria Guagnin, del Max Planck Institute per la Scienza e la Storia Umana a Jena, in Germania, ha aggiunto più di 1400 pannelli rocciosi al "catalogo" di quasi 7000 animali ed esseri umani trovati incisi sulle rocce della regione di Shuwaymis e di Jubbah.
Circa 10000 anni fa, un gruppo di cacciatori-raccoglitori entrarono nella regione. Le immagini più antiche ricavate nella roccia risalgono, con tutta probabilità, a questo periodo e raffigurano donne formose. Intorno ai 7000-8000 anni fa, i cacciatori-raccoglitori divennero sedentari e si diedero alla pastorizia e all'allevamento del bestiame. Fu in questo periodo che comparvero le immagini di bovini, ovini e caprini sulle rocce. Comparvero anche i primi cani da caccia: 156 raffigurazioni da Shuwaymis e 193 da Jubbah. Tutti i cani sono di medie dimensioni, con le orecchie ritte e la coda arricciata. In alcune scene i cani stanno assalendo degli asini selvatici; in altre mordono il collo e il ventre di stambecchi e gazzelle. In molti petroglifi i cani sono tenuti al guinzaglio da un uomo armato di arco e frecce.
I cani raffigurati ricordano molto la razza di Canaan, cani prevalentemente selvatici che vagano nei deserti del Medio Oriente. Questo particolare potrebbe indicare che queste antiche popolazioni allevava cani per la caccia nel deserto.
Le incisioni, al momento, sono sottoposte ad un'attenta analisi: i ricercatori devono collegare le immagini ad un sito archeologico con datazione certa, una sfida, perché la documentazione archeologica relativa a questa regione non è del tutto precisa.
Resta il fatto che i cani sono stati, anche in passato, molto importanti per gli esseri umani, fondamentali per aiutare questi ultimi a sopravvivere in un ambiente difficile. Potevano aiutare gli uomini a cacciare animali troppo veloci per essere rincorsi dagli uomini. 

Foto:
sciencemag.org

martedì 14 novembre 2017

Georgia, tracce di antica vinificazione

Un vaso neolitico, un qvevri, utilizzato per la fermentazione
del vino, proveniente dal sito di Khramis Didi Gora
(Foto: SkarzynskaMieczyslaw Olszewski/PA)
Gli esseri umani vinificano centinaia di anni prima di quanto si è mai creduto, almeno stando a quanto si deduce dalle analisi di alcune terraglie che risalgono al 6000 a.C.
Alcuni scavi in Georgia hanno permesso di recuperare le prove del fatto che il processo di vinificazione risalga almeno al 6000 a.C.. Ci sono migliaia di cultivar di vino, nel mondo, ma quasi tutti derivano da una sola specie di uva, quella euroasiatica, l'unica addomesticata. Il ritrovamento è stato effettuato in due villaggi nella regione del Caucaso meridionale, a circa 50 chilometri a sud della capitale Tbilisi.
Nelle località in questione sono state riconosciute tracce di una cultura neolitica caratterizzata da case circolari in mattoni di fango, da strumenti in pietra ed osso e dall'allevamento di bovini, suini nonché dalla coltivazione di frumento e orzo. I ricercatori sono stati particolarmente incuriositi da alcuni recipienti in terracotta, alti fino a quasi un metro e larghi altrettanto, che potevano contenere fino a 300 litri, con una decorazione che richiama i grappoli d'uva.
I ricercatori si sono concentrati sulla raccolta e sull'analisi di frammenti di ceramica provenienti da due villaggi neolitici. La datazione al carbonio ha restituito una datazione che va dal 6000 al 5800 a.C.. In totale sono stati esaminati 30 frammenti in ceramica e 26 campioni di terreno. Molti di questi reperti sono stati raccolti in scavi recenti, mentre due sono stati trovati durante gli scavi del 1960. Si pensa che questi reperti possano recare tracce di vino.
Gli esami hanno rilevato che otto dei frammenti, tra i quali due rinvenuti nel 1960, recano tracce di acido tartarico, una sostanza che si trova in gran quantità nell'uva. Test sui terreni nei quali giacevano i reperti hanno mostrato livelli molto più bassi di acido. E' stata identificata anche la presenza di altri tre acidi legati all'uva e al vino.
Gli archeologi pensano che i vasi possano essere stati utilizzati per custodire uva, anche se la forma è più adatta a contenere un liquido piuttosto che l'uva, che si sarebbe degradata senza lasciare traccia.  Il sito del ritrovamento, dunque, sembra essere la più antica località in cui sia stata coltivata l'uva, precedendo un sito iraniano a 500 chilometri di distanza.
La base stretta dei vasi di terracotta non sono facilmente sollevabili, il che fa pensare che potessero essere sepolti in parte nel terreno durante il processo di vinificazione, una tradizione ancora presente in alcuni villaggi della Georgia.

Fonte:
theguardian.com

lunedì 13 novembre 2017

I cancelli di re Salomone...

Gli scavi in Israele meridionale, nel Parco Biblico di Tamar
(Foto: coolisrael.it)
Un importante ritrovamento che confermerebbe alcune notizie che si trovano nella Bibbia è stato fatto nel biblico parco di Tamar, nel sud di Israele. Si tratta dei famosi cancelli di Salomone, descritti nel I Libro dei Re. La scoperta, se confermata, evidenzierebbe il controllo del regno di Giudea nell'area di Tamar.
La Torah (Antico Testamento) narra che Salomone costruì una fortezza nel deserto. Gli archeologi hanno trovato i segni della presenza di questo insediamento, con tutte le caratteristiche di un avamposto fortificato. I ricercatori sono convinti di aver trovato i segni dei cancelli della fortezza di Salomone.
I cancelli vennero parzialmente individuati nel 1955 dal Dottor Rudolph Cohen e dal Dottor Yigal Israel che, non avendo potuto portare a termine gli scavi, ricoprirono questi ultimi con la sabbia per permettere, in futuro, di poter condurre ricerche più approfondite.
Il Parco Biblico di Tamar è uno dei siti archeologici più antichi nel sud di Israele, è l'unico, inoltre, che reca tracce della storia archeologica dell'epoca di Abramo. Si trova nei pressi della Via delle Spezie, punto di snodo dei commerci dell'epoca.

Fonte:
coolisrael.it

La splendida incisione su agata della "Tomba del Grifone"

L'incisione su agata del corredo funebre nella "Tomba del Grifone"
(Foto: Università di Cincinnati)
Una straordinaria incisione su agata ritrovata in un corredo funebre dell'Età del Bronzo mostra aspetti dell'arte greca che mai avremmo immaginato. Il piccolo manufatto è una pietra di 3,5 cm montata in modo da stare sul polso, facente forse parte di un bracciale. Questa meraviglia artistica è stata ritrovata nella cosiddetta "Tomba del Guerriero del Grifone" situata nel Peloponneso, vicino al palazzo attribuito al mitico re Nestore a Pylos, nella Grecia occidentale.
Il sepolcro prende il nome da una placca di avorio raffigurante il mitico animale che è stata ritrovata accanto allo scheletro di un guerriero. La sepoltura era già stata definita in precedenza come una delle scoperte archeologiche più importanti degli ultimi anni e il suo corredo dà motivo per crederci. Il team di archeologi che vi ha scavato nel 2015 è guidato dai coniugi Jack Davis e Sharon Stocker dell'Università di Cincinnati, i quali portano avanti le ricerche sul sito da ben 25 anni.
La scena che compare sul reperto mostra un guerriero che dopo aver ucciso un primo nemico, si avventa su un secondo trafiggendolo con la sua spada. L'intera composizione è più facile da apprezzare con una lente di ingrandimento dato che alcuni particolari sono grandi solo mezzo millimetro. E' difficile immaginare come sia stata possibile la realizzazione di un lavoro così minuzioso senza l'utilizzo di strumenti di ingrandimento e l'archeologa Stocker sottolinea che reperti del genere non sono ancora stati ritrovati per questo periodo. Ciò porta a pensare che l'abile artigiano che ha prodotto questo manufatto abbia fatto ricorso ad un utensile che potesse ampliare la sua percezione visiva.
Tutti gli elementi della scena rimandano alla tradizione dell'epica e all'iconografia dei poemi omerici, ma per mancanza di elementi i ricercatori sono riluttanti ad affermare con certezza che si possa trattare di una rappresentazione proveniente dal ciclo dell'Iliade e dell'Odissea. L'agata facente parte di un corredo funebre che consta di 1.400 manufatti e gioielli, tra i quali anelli in oro, collane e una spada di bronzo, testimonia il rango elevato del defunto: gli studiosi credono potesse trattarsi di un membro dell'élite cretese o di un miceneo che apprezzava la sofisticata cultura minoica.
La datazione della "Tomba del Grifone" risale al 1450 a.C., periodo storico in cui i Micenei conquistarono Creta e l'arte dell'isola influenzò gli invasori. Il corredo del guerriero rappresenta un elevato livello di scambio culturale, dato che i suoi manufatti furono prodotti a Creta e poi esportati. Alcuni studiosi fanno però notare che la scena che vi è incisa potesse far parte di storie familiari a entrambe le popolazioni. Per Fritz Blakolmer, esperto di arte dell'Egeo all'Università di Vienna, la pietra potrebbe essere una copia in miniatura di un dipinto murale di dimensioni molto più grandi, come quelli riscontrabili nel Palazzo di Cnosso a Creta.

Fonte:
mediterraneoantico.it

domenica 12 novembre 2017

Velia, novità archeologiche

Veduta di una parte del Parco Archeologico di Velia
(Foto: gazzettadisalerno.it)
Nel Parco Archeologico di Velia, sito gestito dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Salerno e Avellino, nel corso di indagini archeologiche preliminari al progetto di valorizzazione dell'area della cosiddetta Masseria Cobellis, sono emerse importanti novità su questo fondamentale settore della città antica, collocato in un punto di raccordo tra il Quartiere meridionale e il Quartiere orientale.
Nell'area immediatamente antistante la cosiddetta Masseria Cobellis, casa colonica ottocentesca restaurata, agli inizi del 2000 venne alla luce la parte settentrionale di un complesso archeologico costituito da un edificio a pianta rettangolare, articolato su due livelli di terrazzamento artificiali. L'edificio, sicuramente di carattere pubblico, fu costruito fra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C.; a partire dal III secolo d.C. ebbe inizio invece il processo di spoliazione e abbandono che culminò con l'obliterazione nel VI secolo d.C.
Le indagini archeologiche in corso hanno consentito di individuare la fronte dell'edificio, di cui prima non si conosceva l'estensione complessiva, e di ricostruire, pertanto, un complesso monumentale di m. 39 x 65, che occupava un intero isolato di questo settore della Velia romana e si affacciava direttamente su una delle principali strade della città.

Fonte:
gazzettadisalerno.it

La meridiana di Interamna Lirenas

La meridiana trovata nei pressi di Monte Cassino
(Foto: University of Cambridge)
I ricercatori dell'Università di Cambridge hanno scoperto, durante gli scavi nella città romana di Interamna Lirenas, vicino Monte Cassino, una meridiana sulla quale è inscritto il nome di Marcus Novius Tubula, un tribuno della plebe conosciuto a Roma. Questo ritrovamento getta nuova luce sul rapporto tra Roma e le regioni dell'Impero.
Interamna Lirenas venne fondata nel 312 a.C. e abbandonata nel VI secolo d.C. e si trova a circa 130 chilometri da Roma. La meridiana appena trovata risalirebbe al I secolo a.C., quando ai cittadini di Interamna venne concessa la piena cittadinanza romana. Questa scoperta mostra il livello di coinvolgimento negli affari dell'Urbe di cittadini eminenti di Interamna e di altre comunità considerate secondarie.
La meridiana è stata ricavata da pietra calcarea e si trovava in un teatro coperto. Molto probabilmente, secondo gli studiosi, doveva servire a celebrare l'elezione di Marcus Novius Tubula alla carica di tribuno della plebe. La parte concava è incisa con undici linee rappresentanti le ore, che si intersecano con altre tre linee curve che rappresentavano la posizione delle stagioni rispetto al solstizio d'inverno, all'equinozio e al solstizio d'estate. L'ago che faceva da segnacolo è andato perduto in parte mentre un'altra parte è conservata sotto il suo fissaggio in piombo.

Fonte:
bbc.com

Consigli assiri sull'infertilità...

La tavoletta assira che contiene consigli sull'infertilità risalenti a 4000
anni fa (Foto: dailysabah.com)
La prima diagnosi di infertilità del mondo è stata effettuata ben 4000 anni fa, come registra una tavoletta assira in argilla scoperta da ricercatori turchi nella provincia di Kayseri. A guidare i ricercatori provenienti da diverse università, gli archeologi dell'Università di Harran, a Sanhurfa, che hanno preso in esame la tavoletta.
Questo importantissimo reperto contiene una sorta di accordo prematrimoniale nel quale si fa menzione, per la prima volta di una ipotesi di infertilità. Il testo è in cuneiforme e presenta una rappresentazione del problema e cerca di trovare ad esso una soluzione attraverso mezzi naturali. Diverse altre tavolette assire affrontano il tema della sterilità nelle famiglie assire.
La "soluzione" prospettata è solitamente quella di mettere "a disposizione" del marito, da parte della moglie sterile, una schiava che avrebbe svolto la funzione di "madre surrogata". Questo avveniva solitamente dopo due anni di matrimonio, quando la coppia aveva appurato di non poter avere figli. La schiava sarebbe stata liberata dopo aver dato alla luce il primo bimbo maschio che avrebbe garantito alla famiglia dei "committenti" una discendenza.

Fonte:
dailysabah.com

Il mitreo di Londra si mostra ai visitatori

Il mitreo di Londra, restituito all'ammirazione dei visitatori
(Foto: James Newton)
Un mitreo di epoca romana, restaurato a Londra, sta per riaprire al pubblico. I visitatori potranno scendere, grazie a ripide scale di pietra nera, nella nuova sede europea di Bloomberg, a sette metri sotto il piano di calpestio, là dove un tempo scorreva un fiume e dove, nel 240 d.C., i Romani costruirono un tempio destinato al culto del dio Mitra.
Mitra era una divinità orientale, adorata soprattutto dai soldati. La ricostruzione del tempio mitraico trovato a Londra include anche  l'utilizzo di effetti sonori quali i rumori di passi e le voci di canti in latino. Gli archeologi sanno, però, che nessun toro venne sacrificato in questo spazio sacro.
Il tempio è stato scoperto nel 1954, a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Chi lo ha visitato all'epoca ne ha ricavato una sensazione piuttosto deludente. Il sito è stato identificato come mitreo dopo la scoperta della testa del giovane dio. L'entusiasmo per la scoperta e l'intervento dell'allora primo ministro Winston Churchill costrinse la società Legal & General ad abbandonare l'idea di demolire tutto per far posto ad un nuovo edificio destinato a sede di uffici.
La scoperta del tempio di Mitra a Londra nel 1954
(Foto: Robert Hitchman/MOLA)
Nel 1962 le pareti del mitreo sono state parzialmente ricostruite sul terreno originario. Nuovi corsi in pietra hanno riempito i tratti andati perduti e il materiale che, nel corso dei decenni, è andato disperso. La testa di Mitra ed altri preziosi elementi decorativi sono ora custoditi nel Museo di Londra, mentre le panche di legno originali, destinate ad accogliere gli adepti del culto e considerate una rarità archeologica, sono state, purtroppo, gettate via.
La sede centrale europea di Bloomberg sorge su uno dei siti archeologici più ricchi di Londra. Molto, però, è andato distrutto durante gli scavi per le fondamenta di nuovi edifici. Là dove la stratigrafia è stata conservata sono emersi diversi reperti quali centinaia di tavolette in legno che sono la testimonianza della più antica documentazione trovata in Gran Bretagna a far tempo dall'invasione dell'isola da parte dei Romani.
Il mitreo restituito alle visite del pubblico incorpora anche una galleria d'arte al piano terra. Un'enorme teca di vetro permette di ammirare più di 600 dei 14.000 oggetti rinvenuti nel sito, tra i quali una porta di legno, un sandalo, un minuscolo elmo scolpito nell'ambra e una tavoletta di legno che riporta la più antica registrazione di un'operazione finanziaria della Gran Bretagna.
L'ingresso al mitreo londinese è gratuito, anche se è consigliato prenotare per tempo.

Fonte:
theguardian.com

sabato 11 novembre 2017

Puglia, trovato l'altare dell'Atena Iliaca

Il luogo del ritrovamento dell'altare del tempio di Minerva
(Foto: quotidianodipuglia.it)
Castro, in Puglia, si conferma uno scrigno di tesori. Un team di archeologi guidato da Francesco D'Andria ha, infatti, riportato alla luce l'altare del tempio di Minerva. E non si tratta di una scoperta come un'altra, ma dell'unico esemplare di altare monumentale in tutto e per tutto simile a quello dei templi greci rinvenuti in Puglia.
Basti pensare che per trovarne uno simile bisogna spostarsi a Metaponto, città lucana oggetto di campagne di scavo sistematiche, che hanno restituito i celebri templi greci e, davanti ad essi, i relativi altari. L'altare appena trovato si distingue dagli altari tipici messapici, che erano buche scavate nella terra dove si bruciavano e si offrivano le libagioni, perché è un altare costruito, del tipo di quelli che, in età romana, si sarebbero evoluti diventando molto più grandi: si pensi, per esempio, all'Ara Pacis e all'altare di Pergamo.
A Castro si è ripreso a scavare da qualche settimana, su concessione del Ministero, sotto l'egida della Soprintendenza e la direzione scientifica di D'Andria, ma il tempo è stato sufficiente per identificare l'altare - una struttura in blocchi squadrati ben lavorati lunga almeno 6 metri e larga due e mezzo, dove venivano fatti i sacrifici alla dea - e una serie impressionante di reperti legati al rituale: ossa degli animali immolati, oggetti offerti come ex voto, coppette per le libagioni. Insomma, una ricchezza di informazioni che testimoniano della vita quotidiana del santuario.
Sui bastioni del comune adriatico si susseguono campagne di scavo dal 2000 e grazie ad esse, oltre alle fortificazioni messapiche databili al IV secolo a.C., è stato individuato proprio il santuario di Minerva, al quale è dovuto il nome antico della città, Castrum Minervae. Si tratta - è ormai assodato - dello stesso tempio dedicato all'Atena Iliaca, l'Atena troiana, di cui fa menzione Virgilio nel III libro dell'Eneide quando parla dell'arrivo sulle coste dell'Italia di Enea e delle sue navi.
L'altare risale alla seconda metà del IV secolo a.C. ed è contemporaneo della statua di culto della dea, rinvenuta nel 2015, preceduta qualche anno prima da una piccola statuetta in bronzo. Entrambe raffigurano l'Atena di Troia, quella che indossa l'elmo frigio, a ulteriore riprova dei collegamenti con l'eroe in fuga sbarcato, secondo il mito, proprio a Castro. Questa collezione di reperti, conservata nel Museo inaugurato nel 2016 e ospitato all'interno del castello, ora si arricchisce di altri importanti elementi rinvenuti in questi giorni, fra cui spicca una bella maschera in bronzo, di stile tarentino, sempre del IV secolo a.C., che rappresenta forse una figura femminile, agghindata con una specie di nodo sulla testa. Probabilmente era un'offerta votiva fatta alla divinità e tali dovevano essere pure due teste di terracotta, una più piccola e l'altra più grande, appartenenti probabilmente a due divinità femminili, che sono state recuperate recentemente.
Dell'altare sono stati scavati solo un paio dei sei metri di lunghezza perché il resto si trova sotto il manto stradale e nel lotto di terreno adiacente, dove - D'Andria ne è sicuro - c'è il tempio vero e proprio, che, appunto, nel culto greco, si ergeva alle spalle del recinto dove venivano fatti i sacrifici. Ora, quindi, si apre un'altra importante partita, quella dell'esproprio o dell'acquisto di quegli ulteriori 300 mq, di proprietà privata, in modo da poter realizzare un'altra campagna di scavi per portare alla luce le fondazioni, il perimetro e ulteriori elementi del santuario.
Altro aspetto significativo da sottolineare è che l'attuale campagna di scavi è stata finanziata dal Comune di Castro, guidato dal sindaco Luigi Fersini, ma soprattutto da un privato, Francesco Lazzari, figlio del geologo Antonio al quale è intitolato il Museo Archeologico del castello, diventato in breve tempo meta di migliaia di turisti.

Fonte:
quotidianodipuglia.it

E se il cavallo di Troia fosse una nave?

L'archeologo Francesco Tiboni (Foto: lastampa.it)
Nei giorni scorsi si è tornati a parlare, sui quotidiani non solo italiani, di uno degli episodi più famosi della letteratura antica: la presa della città di Troia con il celebre stratagemma del cavallo di legno, il cavallo di Troia, appunto. Se ne è riparlato perché un archeologo italiano che si occupa spesso di relitti greci, Francesco Tiboni, ha proposto una teoria alternativa secondo la quale il cavallo di Troia non era un cavallo, ma una nave. L'equivoco, secondo Tiboni, sarebbe dovuto ad un errore di interpretazione degli scrittori successivi ad Omero, al quale viene attribuita la stesura dell'Odissea, il testo più antico in cui compare il famoso cavallo di Troia.
Ma Tiboni non è il primo ad ipotizzare che il cavallo di Troia potesse non essere un cavallo. In passato altri hanno proposto l'idea della catapulta o dell'ariete da guerra. Negli ultimi anni, però, Tiboni è stato l'unico a svilupparla compiutamente. Sul tema ha scritto anche due articoli usciti su riviste specializzate ed un libro: "La presa di Troia: un inganno venuto dal mare".
Un hippos fenicio dal rilievo di Kohrsabad (Foto: lastampa.it)
L'Iliade e l'Odissea, poemi attribuiti ad Omero, non vanno presi come romanzi o trattati storici. Vennero fissati in forma scritta intorno all'VIII secolo a.C. e furono tramandati e rielaborati oralmente per secoli, e quasi certamente facevano parte di un corpo molto più ampio di racconti. I testi, dunque, non furono composti da un unico autore. Cercare, dunque, un riscontro storico a quello che si legge nei poemi omerici è un'operazione delicata e scivolosa.
Sappiamo che è esistita davvero una città nel luogo dove è ambientata la vicenda, situata oggi in Turchia. Sappiamo che venne distrutta da un incendio tra il 1210 e il 1180 a.C. e che nel Mediterraneo erano già attivi gli antenati dei popoli che abitavano la Grecia di età classica, che avevano interessi commerciali nell'area dello stretto dei Dardanelli. E' difficile, però, spingersi oltre.
Lo stratagemma del cavallo di legno raffigurato in un vaso greco trovato
a Cerveteri e datato al 560 a.C. (Foto: ilpost.it)
Tiboni parte dalla considerazione che nei poemi omerici l'episodio del cavallo di legno è molto marginale. Sui 27.000 versi complessivi delle due opere, quelli che ne parlano sono appena qualche decina. L'Iliade non contiene alcun riferimento esplicito allo stratagemma. Alcuni studiosi hanno intravisto degli accenni nel penultimo libro, ma niente di significativo. L'episodio viene citato esplicitamente solo nell'ottavo libro dell'Odissea, per bocca di un cantore che racconta gli ultimi giorni della guerra di Troia. La vicenda, per come la si conosce, viene sviluppata invece nel secondo libro dell'Eneide, un libro scritto 800 anni più tardi, in un contesto completamente diverso, l'età imperiale romana.
Nella cultura greca classica sono diversi i casi in cui i cavalli vengono associati alla navigazione: Poseidone è contemporaneamente il dio dei mari e il protettore dei cavalli e nella letteratura le navi vengono a volte definite "cavalli del mare". Nell'Iliade e nell'Odissea, invece, questo legame è tutto da dimostrare. Nei poemi omerici il primo passaggio in cui le navi vengono esplicitamente paragonate ai cavalli si trova nel quarto libro dell'Odissea, ai versi 707-709, in una scena in cui Penelope si lamenta del fatto che suo figlio Telemaco sia partito alla ricerca del padre. Tiboni lo giudica un passaggio chiave per la costruzione della sua ipotesi:
"O cantore, perché mio figlio è partito?
Non c'era bisogno che si imbarcasse sulle navi veloci,
che per gli uomini sono come dei cavalli del mare"
Il cavallo di Troia posto dinnanzi alle rovine della
città, in Turchia (Foto: archeologiavocidalpassato)
Telemaco si era imbarcato su una nave di Tafi, un popolo non greco, noto per commerciare metalli. Tiboni spiega che questo passaggio potrebbe nascondere un popolo e un'attività realmente esistiti e che avevano a che fare con i cavalli. In alcuni bassorilievi assiri, realizzati tra il IX e il VII secolo a.C., sono raffigurate delle navi commerciali con la polena a forma di cavallo. Il più famoso di questi bassorilievi è la cosiddetta decorazione del palazzo di Sargon II a Khorsabad, conservato oggi al Louvre e risalente al 700 a.C. circa.
Il bassorilievo di Khorsabad mostra l'arrivo di un carico di legname dall'odierno Libano, una terra che, all'epoca, era abitata dai Fenici. Tiboni fa presente che navi simili a quelle disegnate su questo bassorilievo siano state trovate in aree del Mediterraneo di colonizzazione fenicia, come Spagna e nord Africa. Scrive Tiboni: "Dal punto di vista navale possiamo affermare che presso i Fenici, nel corso della prima metà del I millennio a.C., era in uso apporre polene zoomorfe a testa di equino [...] a decorazione della prua, e in alcuni casi anche della poppa di navi mercantili"; e questo tipo di imbarcazione era nota ai Greci dell'epoca, che commerciavano frequentemente con i Fenici.
Tiboni sostiene che quando nell'Odissea Omero racconta lo stratagemma che permette ai Greci di conquistare Troia, il famoso cavallo, appunto, non ha in mente un cavallo vero e proprio ma una nave come quella dei Fenici. Hippos, è l'ipotesi di Tiboni, potrebbe essere il termine con il quale i Greci chiamavano le navi mercantili non greche che circolavano ai tempi in cui furono composti i poemi omerici.
Particolare della collina di Hissarlik, dove un tempo sorgeva Troia
(Foto: magnoliabox)
Tiboni rafforza le prove archeologiche con altre di carattere letterario. Nell'unico passaggio dell'Odissea in cui si parla dell'inganno del cavallo, i versi che descrivono la struttura di legno sono molto generici e non citano nessuna parte anatomica dell'animale. Al contrario, molte delle espressioni usate da Omero in quei versi hanno molto più senso se riferite a una nave.
Nel verso 504, il cantore che sta narrando la caduta di Troia davanti a Odisseo racconta che i Troiani "trascinarono" il cavallo fino all'acropoli della città, come leggiamo nelle traduzioni in italiano. Il verbo greco "eruo" viene spesso utilizzato da Omero per descrivere l'azione di tirare in secco le navi. L'aggettivo "koilos", che vuol dire concavo, ricorre due volte nel giro di una ventina di versi per descrivere il cavallo. In molti autori greci successivi è, invece, associato alle navi. L'aggettivo "durateos", riferito al cavallo, significa "composto da placche di legno". Le "durata", nella successiva tradizione greca, sono le tavole con cui si costruiscono diversi mezzi di trasporto fra cui le navi (la radice delle due parole è la stessa che in inglese ha generato la parola "tree", albero).
I vari strati della città di Troia (Foto: Ancient-Wisdom)
Per questi motivi Tiboni sostiene che prove letterarie ed archeologiche dimostrino che nel descrivere il cavallo di Troia Omero abbia avuto in mente una nave e non un cavallo vero e proprio. Il fatto che molti abbiano credo a quest'ultima ipotesi, nel corso dei secoli, è dovuto a Virgilio che nell'Eneide traduce le parole greche "durateos hippos" come "equus ligneus", il cavallo di legno.
La parte che più convince dello studio di Tiboni è quella relativa all'esistenza di navi-hippos nel Mediterraneo nel periodo in cui si pensa si siano formati i poemi omerici. Ma ci sono, a detta degli esperti, anche delle forzature, nella teoria di Tiboni. Per esempio il riferimento del termine hippos ad un meccanismo navale non è molto chiaro nei versi omerici che, del resto, non fanno riferimento esplicito a navi non greche o fenicie chiamate hippos, malgrado Omero utilizzi un lessico marittimo molto ricco e indulga spesso nella dettagliata descrizione di imbarcazioni e materiali navali.
Anche dal punto di vista narrativo, inoltre, c'è qualche perplessità: perché i Greci avrebbero costruito proprio una nave nella speranza che venisse portata dentro alle mura? E perché avrebbero costruito un modello esotico qual'era un'imbarcazione fenicia? Un vaso rinvenuto sull'isola di Mykonos nel 1961 e datato al 670 a.C., poi, raffigura gli eroi greci nascosti nella pancia di un cavallo.
Nell'Iliade Omero fa cenno alle "cuciture" delle navi greche, oramai fradicie, che avrebbero costretto i prodi ad affrettare il ritorno in patria. I posteri e i traduttori hanno spiegato che con cuciture si intendevano le funi e le vele, il degradarsi di questi accessori, però, non sarebbe stato così grave da costringere gli Achei al rimpatrio. "In realtà - afferma Tiboni - molti traduttori di Omero ignoravano che il fasciame delle navi greche fosse veramente cucito con grossi punti a croce di fibre vegetali, cosa che noi oggi sappiamo grazie ai relitti antichi. La decomposizione di queste cuciture, pericolosissima per l'integrità di tutto lo scavo, avrebbe richiesto migliaia di ore di lavoro per ricostruire quasi dal nulla le imbarcazioni: per questo gli Achei non avevano altra alternativa che concludere la guerra".

Fonti:
ilpost.it
lastampa.it

giovedì 9 novembre 2017

Nuove scoperte a Vulci

I vasi trovati nella sepoltura di Vulci (Foto: ilmessaggero.it)
Una nuova affascinante scoperta è stata fatta nell'area Poggetto Mengarelli a Montalto di Castro (Vt): una tomba etrusca inviolata, con il corredo intatto, databile fine VII secolo a.C.. Si tratta di una decina di pezzi di vasellame in ceramica, che vanno a implemetare la ricerca a quanto invece da poco rinvenuto in una sepoltura adiacente, appartenente a un guerriero, il cui corredo è composto da dodici vasi di impasto decorato e una fibula a drago in bronzo, oltre a una punta di lancia in ferro. "Materiali importantissimi - spiega Carlo Casi, direttore scientifico del Parco di Vulci - che pur essendo una tomba molto piccola, i vasi di impasto confermano la provenienza del popolo etrusco, ovvero da Vulci".
Il materiale verrà trasferito presso il laboratorio della Fondazione a Montalto di Castro, per l'avvio delle operazioni di restauro. La tomba più piccola è stata aperta alla presenza della Soprintendente dell'Etruria Meridionale Alfonsina Russo, della delegata del comune per le politiche per l'occupazione Rita Goddi e del presidente della fondazione Carmelo Messina.

Fonte:
ilmessaggero.it

mercoledì 8 novembre 2017

Egitto, scoperto un ginnasio ellenistico

Il ginnasio scoperto a Watfa (Foto: english.ahram org.eg)
Una missione archeologica tedesca-egiziana ha scoperto il primo ginnasio ellenistico mai trovato in Egitto, situato a Medinat Watfa, nel nordovest dell'oasi del Fayyum. La missione dell'Istituto Archeologico Tedesco (DAI), guidata dalla Professoressa Cornelia Romer, ha fatto questa scoperta nell'ultima stagione di scavo.
Watfa si trova dove, un tempo, sorgeva l'antico borgo di Philoteris, che venne fondata dal faraone Tolomeo II nel III secolo a.C. e che prende il nome dalla sorella del sovrano, Philotera. Il ginnasio si trova all'interno di una sala di grandi dimensioni, un tempo ornata di statue, completata con una sorta di sala da pranzo e un cortile. Vi è anche una pista, lunga quasi 200 metri, sufficiente per ospitare delle gare di corsa. L'edificio era circondato da giardini.
Le palestre private erano solitamente costruite da individui di un certo livello sociale, che desideravano che i loro luoghi d'origine divenissero il più possibile greci. In questi luoghi i giovani di lingua greca, appartenenti alle classi più abbienti, venivano addestrati allo sport, imparavano a leggere e scrivere e discutevano di filosofia. Queste palestre erano diffuse in tutto il mondo ellenistico, da Atene a Pergamo, a Mileto e a Pompei.
Papiri ed iscrizioni testimoniano dell'esistenza di palestre in epoca tolemaica, diffuse nei borghi più importanti. Il primo di questi edifici scoperti in Egitto è proprio quello di Watfa. Quest'ultimo, anticamente chiamato Philoteris, era uno dei villaggi fondati sotto la dinastia dei Tolomei nella prima metà del III secolo a.C.. Gli abitanti erano per un terzo egiziani e un terzo coloni di lingua greca.

Fonte:
english.ahram.org.eg

Cina, scoperti bagni imperiali a Xi'an

I bagni scoperti in Cina, nei pressi di Xi'an
(Foto: china.org.cn)
In Cina, nella città di Xi'an, gli archeologi hanno trovato di recente tre lussuosi bagni di duemila anni fa. Tre luoghi, sedi di altrettante antiche città, risalenti a diverse dinastie, sono stati scoperti nei pressi di Liyang, ex capitale delle dinastie Qin e Han, ora quartiere della grande Xi'an, capitale della provincia dello Shaanxi.
I bagni appena scoperti sono adorni di bellissime piastrelle e mattoni, con impianti per il deflusso delle acque reflue. Si tratta di impianti molto simili ai bagni del Palazzo Imperiale di Xianyang, capitale della dinastia Qin.
Lo scavo è iniziato nel 2013 ed è stato condotto dall'Accademia Cinese di Scienze Sociali, Istituto di Archeologia e protezione reliquie culturali.

Fonte:
china.org.cn

martedì 7 novembre 2017

Bologna, ritrovata la necropoli ebraica

Il cimitero ebraico medioevale di Bologna (Foto: magazine.unibo.it)
Ritrovato il cimitero ebraico medioevale di Bologna. Distrutto nel 1569, se ne era persa ogni traccia: con le sue 408 sepolture è il più grande finora noto in Italia. L'area dove si trova l'antico cimitero si trova nei pressi del Monastero di San Pietro Martire, nell'isolato compreso tra via Orfeo, via de' Butteri, via Borgolocchi e via Santo Stefano.
Il cimitero è stato scoperto nel corso di scavi archeologici compiuti tra il 2012 e il 2014. Per 176 anni è stato il principale luogo di sepoltura degli ebrei bolognesi, ma dopo le bolle papali della seconda metà del '500 - che autorizzarono la distruzione dei cimiteri ebraici della città - sopravvisse per secoli solo nel toponimo di "Orto degli Ebrei".
Il ritrovamento rappresenta un'opportunità unica di studio e ricerca. Le 408 sepolture scavate appartengono a donne, uomini e bambini, alcune hanno restituito elementi di ornamento personale in oro, argento, bronzo, pietre dure e ambra. Un gruppo di lavoro composto da Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio di Bologna, Università di Bologna, cercherà di ricomporne le vicende storiche, ricostruendo le dinamiche insediative e l'evoluzione topografica e sociale dell'area. Uno degli obiettivi primari del progetto è l'elaborazione di un piano di recupero della memoria e la valorizzazione del patrimonio culturale ebraico e della storia della comunità bolognese.
Alcuni dei gioielli ritrovati nella necropoli ebraica di Bologna
(Foto: magazine.unibo.it)
Oltre alla composizione demografica della comunità ebraica dell'epoca, si prevede di ricostruire lo stato di salute, la dieta, eventuali specializzazioni nelle attività lavorative, aspetti relativi ai riti funerari e la provenienza geografica legata a possibili spostamenti da altre aree europee. Il laboratorio di Bioarcheologia e Osteologia forense esaminerà gli aspetti relativi alla ricostruzione dell'integrità dei resti scheletrici per procedere alla ricostruzione del profilo biologico (stima dell'età e attribuzione del sesso degli inumati), dello stato di salute e nutrizionale attraverso l'esame di tutte le alterazioni e patologie ossee e dentarie, e delle attività lavorative svolte in vita.
Le fonti d'archivio riportano che quest'area fu acquistata nel 1393 da un membro della famiglia ebraica dei Da Orvieto per poi essere lasciata in uso agli Ebrei bolognesi come luogo di sepoltura. Una funzione che permane fino al 1569, quando l'emanazione di due Bolle Papali condanna le persone di religione ebraica ad abbandonare le città dello Stato Pontificio e ad essere cancellate dalla memoria dei luoghi dove avevano vissuto e operato.
Uno degli effetti più violenti di queste persecuzioni è l'autorizzazione a distruggere i cimiteri e profanare le sepolture ebraiche presenti in città. Una damnatio memoriae che riesce solo in parte, visto che negli atti e registri degli anni seguenti, ma soprattutto nella consuetudine orale, quell'area continua ad essere indicata come "Orto degli Ebrei".
Con il Breve del 28 novembre 1569, Pio V dona l'area del cimitero ebraico alle suore della vicina chiesa di San Pietro Martire, accordando alle monache la facoltà "di disseppellire e far trasportare, dove a loro piaccia, i cadaveri, le ossa e gli avanzi dei morti: di demolire o trasmutare in altra forma i sepolcri costruiti dagli ebrei, anche per persone viventi: di togliere affatto, oppure raschiare e cancellare le iscrizioni ed altre memorie scolpite nel marmo". Lo scavo archeologico ha riportato alla luce gli sconvolgenti effetti di questo provvedimento: circa 150 tombe volontariamente manomesse per profanare la sacralità delle sepolture, nessuna traccia delle lapidi che dovevano indicare il nome dei defunti, forse venduto o riutilizzate.
Proprio da via Orfeo vengono probabilmente le quattro splendide lapidi ebraiche esposte nel Museo Civico Medioevale di Bologna. L'area cimiteriale di via Orfeo ha restituito 408 sepolture ad inumazione perfettamente ordinate in file parallele, con fosse orientate est-ovest e capo del defunto rivolto a occidente.
Gli studi archeologici analizzeranno sia le sequenze stratigrafiche, che attestano una frequentazione dell'area dall'Età del Rame all'età moderna, sia i materiali recuperati nello scavo, avvalendosi anche del confronto con alcuni contesti cimiteriali ebraici scavati in Inghilterra, Francia e Spagna. Tra gli oggetti rinvenuti negli scavi, un approfondimento sarà dedicato ai numerosi gioielli medioevali, di cui verranno studiate caratteristiche stilistiche, tecniche di realizzazione e significati delle incisioni presenti.

Fonte:
magazine.unibo.it

sabato 4 novembre 2017

Una necropoli greco-romana scoperta a Corinto

Alcuni degli oggetti trovati nello scavo di una necropoli nei pressi di
Corinto (Foto: newsweek.com)
In Grecia gli archeologi hanno rinvenuto gioielli, monete e altri manufatti durante gli scavi di alcune sepolture nei pressi dell'antica città di Corinto, nel villaggio di Tenea. I ritrovamenti sono stati datati tra il IV secolo a.C. e il I secolo d.C.
Il Ministero della Cultura greco ha affermato che i monumenti funerari romani sembra si siano installati su strutture preesistenti di epoca ellenistica, un periodo compreso tra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e la conquista romana (146 a.C.). Cinque sepolture sono piuttosto ben arredate e si pensa appartengano a ricchi abitanti della Grecia preromana. Quanto rimane dei corpi è stato ritrovato insieme a foglie di bronzo dorate, anelli d'oro, pietre preziose e monete d'oro e di bronzo. Tra gli elementi legati al rituale funebre sono stati trovati profumi, manufatti in lamina d'oro, cristalli riccamente lavorati e oggetti in ceramica.
Molte delle sepolture sono state disposte in circolo, com'era usanza presso i Romani, e da esse sono emersi oro, monete d'argento, vasi e lampade, la più elegante delle quali raffigura la dea romana Venere e due amorini. A sovrintendere gli scavi, l'archeologa Elena Korka. Il lato di un monumento sepolcrale romano è risultato essere stato costruito su un seminterrato di forma rettangolare e di origine ellenistica, realizzato in calcare ricoperto da uno spesso strato di malta.
In altri settori di scavo sono state scoperte tombe del periodo greco antecedente all'occupazione romana. In queste sepolture sono stati scoperti elementi in ceramica tra i quali una statuetta a forma di colomba.

Fonte:
newsweek.com

La piramide di Cheope e i suoi segreti: ultime scoperte

La sezione della piramide di Cheope con la posizione della camera vuota
(ScanPyramids Hidden) - ricostruzione su focus.it
Una stanza segreta ben nascosta all'interno della piramide di Cheope, la più grande e antica delle tre piramidi della piana di Giza, vicino al Cairo è l'incredibile scoperta annunciata sulla rivista scientifica "Nature" dal team di ricercatori del progetto internazionale ScanPyramids. Si tratta, secondo gli scienziati, di una cavità lunga almeno 30 metri posta al di sopra della Grande Galleria.
Sono state utilizzate tecniche particolari non invasive per non rischiare di danneggiare in qualche modo il capolavoro dell'architettura antica. Il metodo è basato sulla fisica delle particelle. La tecnica si chiama muografia e permette di interpretare il cammino delle particelle subatomiche, chiamate "muoni" prodotte dall'interazione dei raggi cosmici provenienti dallo spazio con l'atmosfera terrestre. Come spiegano gli scienziati, queste particelle seguono diverse traiettorie a seconda che si spostino nell'aria oppure attraversino le pietre. E quindi in questo modo si rivela la presenza di spazi vuoti.
(Foto: lastampa.it)
Nella piramide di Cheope era già stata rilevata un'anomalia che aveva portato alla scoperta, nell'ottobre dell'anno scorso, di un corridoio localizzato vicino alla parete nord. Ora un'altra vibrazione anomala delle particelle individuata a marzo, ha permesso di rivelare questa nuova stanza segreta che è simile, come dimensioni, alla Grande Galleria e, secondo i rilevi condotti fino ad oggi, potrebbe essere composta da una o più strutture e potrebbe avere uno sviluppo orizzontale o leggermente inclinato. Resta ancora misteriosa, però, la sua funzione. La stanza è lunga almeno 30 metri ed è stata chiamata "il Grande Vuoto" dagli archeologi guidati da Mehdi Tayoubi, dell'Hip Institute di Parigi e da Kunihiro Morishima, dell'Università di Nagoya, in Giappone.
La piramide di Cheope è la più misteriosa delle tre piramidi della piana di Giza. Da sempre ci si chiede se, oltre ai passaggi e alle camere note agli archeologi, ve ne siano altre. Il presidente dell'Heritage Preservation Innovation Institute di Parigi ha affermato che "una delle due cavità è così grande che non può essere un errore di costruzione". La piramide di Cheope è stata realizzata con 2.300.000 blocchi di pietra, è alta 140 metri e larga 230.
Ricostruzione: lastampa.it
Oggi, accanto agli archeologi lavorano anche i fisici, che studiano le tracce dei raggi cosmici, ossia le particelle subatomiche che arrivano dallo spazio. Un approccio analogo a quello attualmente applicato alla piramide di Cheope fu utilizzato, negli anni '60, per la piramide di Chefren, ma senza risultati. Nel 2015 il fisico Kunihiro Morishima ha piazzato un primo rilevatore di muoni nella Camera della Regina e scienziati giapponesi e francesi ne hanno collocati altri due, uno dei quali all'esterno della piramide.
In merito al nuovo, eclatante, ritrovamento, Mark Lehner, direttore dell'Ancient Egypt Reserch Associates di Boston ritiene che "dal momento che è impossibile arrivarci, è improbabile che si tratti di una camera di sepoltura: non è il luogo dove gli Egizi avrebbero potuto mettere un corpo". Forse, allora, quella cavità ha un significato simbolico, potrebbe essere il luogo del passaggio verso l'oltretomba, oppure anche solo una "soluzione ingegneristica" per alleggerire il peso dei blocchi di pietra che si trovano sopra la Grande Galleria, al fine di prevenire un collasso.
Mehdi Tayoubi ritiene che possa trattarsi di una seconda Grande Galleria, della quale, però, non si comprende lo scopo, a meno che non porti a una nuova camera sepolcrale. Ma questa ipotesi è scartata dall'egittologo britannnico Aidan Doson: "Le probabilità di trovare una tomba sono pari a zero", ha subito commentato.
La Grande Piramide venne costruita nel corso della IV Dinastia dal faraone Cheope (Kufu), che regnò tra il 2509 e il 2483 a.C.. E' il più grande dei monumenti della piana di Giza. Finora si conosceva l'esistenza di tre camere: quella sotterranea, la camera della Regina e la camera del Re. Le stanze sono tutte orientate nord-sud, una sopra all'altra, e collegate da corridoi, il più lungo dei quali (la Grande Galleria) è lungo 47 metri.
Nell'Ottocendo e nel '900 archeologi come Flinders Petrie, Giovanni Battista Caviglia e Richard Vyse ne hanno studiato a lungo i corridoi e le stanze, senza arrivare a dare una spiegazione dei molti misteri nei quali si imbatterono: la mancanza di qualunque geroglifico, il sarcofago privo di un cadavere e di un nome, la Camera della Regina completamente vuota, i canali che comunicano con l'esterno, il pozzo scavato in modo irregolare che conduce a una grotta sotterranea. E poi la Grande Galleria, un capolavoro di architettura del quale ancora oggi non si conosce lo scopo e di cui è stata ora forse trovata una copia segreta.

Fonti:
corriere.it
focus.it
repubblica.it/scienze
lastampa.it

Resti di una donna e del suo feto nelle miniere di Timna

I resti della donna e del suo bambino ritrovati nei pressi delle miniere di
Timna (Foto: Timna Valley Project)
Lo scheletro di una donna incinta vissuta 3200 anni fa è stato trovato nei pressi di un tempio dedicato alla dea egizia Hathor, in un sito che, un tempo, era noto come le Miniere di re Salomone, situato nella valle di Timna, nell'attuale Israele.
Gli antichi Egizi sfruttarono, in passato, le miniere qui presenti per l'estrazione del rame. Gli archeologi hanno sempre ritenuto che Salomone abbia, un tempo, controllato le miniere di Timna. Lo scheletro della donna è stato scoperto proprio qui, sepolto all'interno di un tumulo vicino al tempio di Hathor, dea dell'amore, del piacere e della maternità, che i minatori di Timna avevano eletto a loro protettrice.
All'epoca in cui è vissuta la donna certamente l'Egitto controllava le miniere di Timna e questo può far pensare che la defunta fosse egiziana. Probabilmente, secondo quanto affermato da Erez Ben-Yosef, direttore del "Progetto Valle di Timna", era una cantatrice del tempio di Hathor. Venne sepolta con perle il cui disegno è simile a quelle trovate nel tempio della dea egizia. Un esame dei resti ha potuto accertare che la donna morì nel primo trimestre di gravidanza.
Probabilmente la donna accompagnò una delle spedizioni minerarie inviate nella valle di Timna allo scopo di estrarre rame. Lei avrebbe servito nel tempio durante le operazioni di estrazione del minerale. I rituali e le cerimonie che si svolgevano nel tempio di Hathor erano importanti proprio perché la dea proteggeva i minatori.
L'influenza egizia nella valle di Timna andò via via affievolendosi. All'indomani dell'epoca in cui morì la donna, l'Egitto perse il controllo delle miniere. Tra i ritrovamenti nella valle vi sono quelli inerenti i resti di un campo minerario che ha restituito gli avanzi di pasti a base di carne di pecora e capra, nonché resti di pistacchi, uva e pesce. Qui gli archeologi hanno anche identificato i resti di ripari per asini e quelli di un sistema difensivo altamente organizzato.

Fonte:
Live Science

Turchia, emerge un coperchio di sarcofago bizantino

Il coperchio di sarcofago trovato in Turchia (Foto: AA)
Nella provincia turca di Gumushane, nei pressi della città di Satala, è stato scoperto un coperchio di sarcofago bizantino di 1470 anni fa, che si presuppone appartenga ad un uomo morto in "odore" di beatitudine. Sul coperchio la scritta recita "Il beato Marco dorme in questo luogo", in caratteri greci.
Il reperto risalirebbe, secondo le autorità, al 610 d.C.. Si pensa che il sarcofago sia ancora celato sotto terra e si spera che possa fornire ulteriori informazioni sul defunto. Gli archeologi, inoltre, devono appurare se il luogo potrebbe essere stato, un tempo, una necropoli e se poteva esserci stata, nei pressi, anche una chiesa.
Satala era un tempo un importante accampamento militare dell'impero bizantino. La zona fu sottoposta, nei secoli, al controllo degli Ittiti, dei Persiani, dei Romani, dei Greci del Ponto e dei Bizantini.

Israele, scoperte stalle di epoca romana

Il villaggio di Eilabun, in Israele, dove sono state scoperte delle
stalle risalenti ai Romani
Una famiglia israeliana, scavando nel giardino di proprietà, si è imbattuta in un'apertura che nascondeva una serie di grotte sotterranee. Le successive indagini archeologiche hanno rivelato che si trattava di una complessa costruzione di 2000 anni fa, utilizzata, probabilmente, come stalla. Il complesso sotterraneo è stato scoperto a Eilabun, un villaggio non lontano da Nazaret.
Gli archeologi pensano che le grotte siano state scavate dai Romani, che le hanno utilizzate come ricovero per gli animali. Lo hanno dedotto da una serie di fori nelle pareti che servivano, con tutta probabilità, da luogo di sosta dei cavalli, mentre un trogolo in pietra potrebbe essere servito per distribuire acqua e cibo.
Queste probabili stalle si trovano a tre metri sotto la superficie del suolo ma 2000 anni fa erano sicuramente situate ad altezza del piano stradale. Gli archeologi hanno raccolto diversi sedimenti, accumulatisi nel corso di questi secoli. Vi è una camera centrale di circa 4 x 6 metri, di due metri di altezza; altre camere più piccole si dipartono dalla principale.
Purtroppo il sito è stato gravemente danneggiato dai saccheggiatori, che hanno rimosso e venduto quanto vi era di valore al suo interno. I danneggiamenti, sfortunatamente, si sono estesi anche alla roccia tutt'intorno, scalpellata in modo selvaggio alla ricerca di possibili tesori. I ladri si sono lasciati alle spalle frammenti di ceramica di epoca romana.
Nel villaggio di Eilabun sono stati precedentemente rinvenuti resti di ceramica datati alla media Età del Bronzo, all'Età del Ferro, all'epoca persiana, ai primi anni dell'occupazione romana e all'epoca bizantina. Ad ovest del villaggio sono stati scavati dei sarcofagi ricavati dalla roccia. Il villaggio era inserito, secondo le fonti, nelle 24 divisioni sacerdotali in cui era ripartito il territorio ed era la residenza di un clan sacerdotale noto come Haqos.

Fonte:
ancient-origins.net

venerdì 3 novembre 2017

La Spezia, riemergono domus roane del I secolo a.C.

Il mosaico dell'atrio della domus meridionale di Luni in corso di scavo
(Foto: lanazione.it)
Due domus romane costruite nel I secolo a.C. sono venute alla luce a Luni, in provincia de La Spezia, nel corso di una campagna di scavi diretta da Simonetta Menchelli, docente di Topografia antica e Archeologia subacquea dell'Università di Pisa.
Le ricerche rientrano nel "Progetto Luni, la città della Luna", che ha intenzione di ricostruire i paesaggi urbani e territoriali della città, colonia romana nel 177 a.C., anno della sua fondazione, e ancora attiva, dal punto di vista strategico ed economico, ancora nell'Alto Medioevo.
"La domus meridionale aveva le pareti affrescate, come documentano numerosi frammenti di intonaco rosso e alcuni ambienti pavimentali con mosaici geometrici e vegetali a tralci di vite - spiega Simonetta Menchelli - quella settentrionale ha subito profonde ristrutturazioni nel IV e V secolo, la costruzione poi di una grande vasca evidenzia, con tutta probabilità, che nella casa venne installata una fullonica, cioè un impianto per la lavorazione lavaggio dei tessuti. Entrambi gli edifici sino a quando non furono abbandonati, fra il VII e l'inizio dell'VIII secolo d.C., furono al centro di numerosi scambi e ricevettero merci di importazioni mediterranea come vasellame e vino, olio e salse di pesce da varie regioni italiche, dalla Gallia, dalla Penisola iberica, dall'Africa settentrionale, dall'Asia minore, dalla Siria e dalla Palestina".

Fonte:
lanazione.it

Emilia Romagna, trovate sepolture dell'Età del Rame

Una delle sepolture trovate a Formigine
(Foto: Gazzetta di Modena)
Dopo i ritrovamenti di un antico villaggio risalente al VI-V secolo a.C., datati a febbraio 2017, a Formigine, in provincia di Modena, sono tornate alla luce due tombe risalenti al VII secolo a.C., durante i lavori di scavo nella zona adiacente alla nuova Coop.
Con le tombe è riemerso uno scheletro intero risalente all'Età del Rame (3000 a.C. circa), appartenente ad un individuo adulto del quale è ancora sconosciuto il sesso.
I ritrovamenti confermano l'antico popolamento del territorio di Formigine.

Fonte:
Gazzetta di Modena

Turchia, gli "inviti" di Antioco I di Commagene...

Turchia, l'iscrizione di Antioco di Commagene (Foto: AA) Un'iscrizione trovata vicino a Kimildagi , nel villaggio di Onevler , in Tu...