giovedì 30 luglio 2009

Un prezioso relitto


Più di una tonnellata e mezzo tra monete d'argento, gioielli d'oro, cristalli, porcellana cinese, cannoni, moschetti e persino 400 bottiglie di vino sono state recuperate dalla nave Forbes, naufragata nel 1806 al largo dell'isola di Belitung, tra il Borneo malaysiano e la Sumatra indonesiana. Solo le monete pare che valgano più di sette milioni di euro.
La nave Forbes era autorizzata esplicitamente da re Giorgio III ad attaccare e saccheggiare navi straniere e, sicuramente, visto il ritrovamento di porcellana cinese, assaltò almeno una nave proveniente dall'Estremo Oriente. Inoltre la Forbes trasportava oppio e ferro da Calcutta verso oriente. Quando affondò era sulla via del ritorno. Il naufragio fu la conseguenza dell'attacco di una nave olandese. L'equipaggio si salvò ed il capitano, lo scozzese Frazer Sinclair, venne persino decorato da re Giorgio III.
Venendo alle cose pratiche, metà del valore del bottino ritrovato andrà al governo indonesiano. Gli esploratori che hanno ritrovato il ricco relitto, tedeschi, pensano di vendere la loro quota per finanziare future spedizioni (il recupero della Forbes ha richiesto la spesa di 400.000 euro).

mercoledì 29 luglio 2009

Un antico ospedale


Sono cominciati gli scavi a Pasohlàvky, 30 chilometri a sud di Brno, nella Repubblica Ceca, scavi che stanno rivelando la presenza di un ospedale romano che potrebbe rivelarsi come il più grande sito preservato del suo genere a nord del Danubio.
L'ospedale era 60 x 45 metri e venne costruito sulla collina di Hradisko, nella seconda metà del II secolo dalla X legione che combattè contro i Marcomanni. Era parte di un complesso fortificato e, ai tempi di Marco Aurelio, era l'avamposto più a nord dell'impero romano nell'Europa centrale.
Nonostante l'importanza della scoperta, la costruzione della diga di Nové Mlyny ha lasciato solo le fondamenta dell'ospedale. La motivazione degli scavi, oltretutto, risiede nella volontà di installare una stazione termale laddove sorgeva, un tempo, l'edificio romano.

martedì 28 luglio 2009

Memorie lontane di Hera Argiva

L'Heraion alla foce del Sele è un antico santuario della Magna Grecia, dedicato ad Hera, situato, anticamente, alla foce del fiume Sele, a 9 chilometri dalla città di Paestum.
Nel tempo la linea di costa è avanzata per il deposito di sedimenti alluvionali, per cui oggi il santuario si trova a circa 1,5 chilometri da essa. La sua esistenza è stata testimoniata da fonti storiche che, per lungo tempo, però, non poterono essere suffragate da ritrovamenti concreti. Strabone colloca il santuario di Hera Argiva al confine settentrionale della Lucania e ne attribuisce la fondazione a Giasone, di ritorno dalla spedizione degli Argonauti. Plinio il Vecchio, invece, colloca il santuario sulla sponda opposta del fiume, rispetto a Strabone.
Il santuario di Hera Argiva venne fondato nel VI secolo a.C. dai navigatori greci provenienti da Sibari. Hera Argiva era la divinità protettrice della navigazione e della fertilità. All'inizio il culto alla dea si svolgeva prevalentemente all'aperto, in un'area sacra, delimitata da portici per accogliere i pellegrini, dove era posto un altare. Alla fine del VI secolo si cominciò a costruire un grande tempio periptero che, probabilmente, doveva avere otto colonne sulla facciata, ad una certa distanza dal quale vennero eretti due altari monumentali.
Il santuario conobbe la sua massima fortuna alla fine del V secolo a.C., dopo l'arrivo dei Lucani. Vennero, allora, costruiti nell'area altri edifci che, in parte, riutilizzarono i materiali di quelli più antichi: un nuovo portico ed un edificio per le riunioni. Più distante da questi ultimi venne edificata una costruzione a pianta quadrata, nella quale sono stati rinvenuti ben 300 pesi da telaio. Era, probabilmente, il luogo in cui le fanciulle da marito si dedicavano alla tessitura del peplo destinato alla statua di culto, peplo che veniva offerto alla dèa ogni anno nel corso di una processione cerimoniale. In questo edificio è stata ritrovata una statua in marmo di Hera, seduta in trono, con in mano un melograno.
Con l'avvento dei romani, nel 273 a.C., l'edificio destinato alla tessitura fu distrutto e l'area sacra venne circondata da un recinto. Il santuario sopravvisse fino al II secolo d.C., in sempre più netta decadenza. Poi l'impaludamento della zona fece sì che se ne perdesse completamente memoria.
Il culto di Hera, però, sopravvisse all'oblìo che colpì l'area sacra. Esso fu trasferito nella religione cristiana con il culto per la Madonna del granato, nell'omonimo e non lontano santuario, che nella sua raffigurazione riprende i tratti di Hera con il melograno.
Il santuario di Hera Argiva fu riportato alla conoscenza degli uomini dagli archeologi Umberto Zanotti Bianco e Paola Zancani Montuoro, tra il 1934 ed il 1940. Negli scavi sono state trovate circa settanta metope, con raffigurazioni scolpite nell'arenaria locale. Circa quaranta di queste metope appartengono al ciclo più antico e, probabilmente, decoravano gli edifici che oggi non si riesce più ad identificare. Esse recano le raffigurazioni di episodi del mito di Eracle e del ciclo troiano, ma anche di Giasone ed Oreste. Probabilmente dovevano essere anche colorate. Il ciclo più recente di metope sono oggi collocate nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum, sorto nel 1952 proprio per ospitare questi ritrovamenti.
Dagli scavi sono emersi anche moltissimi doni votivi, per lo più costituiti da statuette in terracotta raffiguranti la dèa Hera. Questi doni venivano ritualmente seppelliti in alcuni depositi, il primo dei quali è stato individuato nei pressi del tempio, costituito da cinque fosse rivestite da lastroni di pietra e con coperchio in pietra. Le tracce di bruciato tuttora visibili sono dovute ai sacrifici offerti all'atto del seppellimento. I materiali ritrovati rimandano, per la datazione, ad un periodo compreso tra il VI ed il II secolo a.C.. E' stata rinvenuta anche una seconda fossa, molto grande, contenente circa seimila oggetti tra statuette in terracotta e manufatti in bronzo, databili tra il IV ed il II secolo a.C..
L'ipotesi di un tempio arcaico, antecedente a quello dedicato ad Hera alla fine del VI secolo a.C., fu avanzata già durante gli scavi del 1930, quando furono individuati numerosissimi reperti arcaici sotto la fondazione del tempio. La documentazione vera e propria, però, è stata portata alla luce durante le indagini archeologiche degli anni Novanta. Lo scavo ha restituito larghe trincee di fondazione (2 metri di lunghezza per 2 metri di profondità), riempite di sabbia finissima, che disegnano, sul terreno, l'impianto di un tempio. Le misure corrispondono a quelle di un hekatompedon (100 piedi di lunghezza) e le proporzioni (lunghezza il doppio della larghezza) appartengono ai canoni dell'architettura greca arcaica.
Per partecipare alle attività del Museo Narrante del Santuario di Hera alla Foce del Sele e per la visita guidata con archeologo occorre effettuare una prenotazione al Museo.
Museo Narrante del Santuario di Hera alla Foce del Sele
Masseria Procuriali - Via Barizzo Foce Sele, 29 - Capaccio (Sa)
Tel./Fax 028.861440
e-mail: museonarrante@libero.it
orario di apertura: dal martedì al sabato dalle ore 9.00 alle ore 16.00
Ingresso gratuito

Poseidonia, la città degli dèi


Paestum fu fondata dai Greci intorno al 600 a.C.. Inizialmente il suo nome era Poseidonia, da Poseidone, corrispondente al latino Nettuno, al quale la città fu dedicata.
L'impianto della città si fondò, inizialmente, su una fattoria commerciale posta sulla sponda sinistra e presso la foce del fiume Silaros. Poi, le condizioni malariche del terreno indussero i coloni a spostare il centro abitato verso oriente, su un banco calcareo leggermente rialzato sulla pianura e sul litorale, lungo il corso del fiume Salso o Capodifiume.
Dall'impianto sul Silaros venne sviluppandosi il porto marittimo e fluviale della città e, presso questo, il santuario di Hera Argiva, uno dei più grandi e visitati santuari dell'Italia antica.
La fine dell'impero romano segnò la fine della città. Verso il 500 d.C., al termine di un'epidemia di maliaria, aggravata dalle condizioni poco salubri del terreno, gli abitanti finiro per abbandonare gradualmente la città, che venne sommersa dalla vegetazione.
La scoperta di Paestum risale al 1762, quando fu costruita la moderna strada che tuttora l'attraversa.
Madrepatria di Paestum era stata Sibari, fondata nel 720 a.C. da Achei e Trezeni che presero il nome di sibariti, famosi per il lusso e la ricchezza. Strabone, storico greco, narra che i sibariti avevano creato un insediamento fortificato nei pressi della foce del fiume Sele, estendendo la loro influenza sui territori limitrofi (VII-VI secolo a.C.). La fondazione di Poseidonia fu dovuta innanzitutto al bisogno dei sibariti di aprirsi una via commerciale tra lo Ionio ed il Tirreno, evitando la circumnavigazione della Calabria e lo stretto di Messina.
Nel 510 a.C. Sibari fu distrutta dai crotonesi. Molti dei suoi abitanti fuggirono, dunque, portandosi dietro le loro ricchezze, proprio verso Poseidonia. Sia le ricchezze che l'esperienza dei transfughi consentirono alla città di svilupparsi rapidamente e felicemente. Proprio a questo periodo risale la costruzione dei tre templi che ornano l'area archeologica: la cosiddetta Basilica, il cosiddetto Tempio di Poseidone ed il Tempio di Cerere, coevi all'unico affresco greco finora scoperto nella tomba del Tuffatore.
Nel V secolo a.C. i Lucani, popolazione italica, cominciarono ad infiltrarsi nella colonia, lasciando numerose testimonianze della loro presenza soprattutto nelle bellissime tombe affrescate prendendo a modello le tombe greche. Verso la fine del IV secolo, i Lucani, alleatisi ai Bruzi, combatterono contro e vinsero i Greci ed occuparono Poseidonia.
Nel 273 a.C. arrivarono i Romani che conquistarono la città e le imposero il nome di Paestum. La colonia rimase sempre fedele a Roma, anche durante i periodi più drammatici della sua storia. Nel III secolo le attività economiche e culturali tornarono a fiorire, sorsero l'anfiteatro, il foro, il ginnasio.
Alla decadenza della città contribuirono, nel tempo, l'apertura di nuove strade per il commercio in Oriente e l'epidemia di malaria che, nel IX secolo, unita alle scorrerie dei pirati saraceni, costrinsero gli abitanti di Paestum a rifugiarsi nell'entroterra, sui monti, abbandonando l'antica città.
Il tempio di Hera, più comunemente detto Basilica, fu costruito tra il 550 ed il 450 a.C.. Era dedicato all massima divinità femminile greca, Hera (Giunone per i Romani), sposa di Zeus. E' un tempio periptero, con nove colonne sui fronti e diciotto sui lati lunghi. La cella ha ben conservato il pronao. Nella parte posteriore della cella vi è l'adyton, ambiente accessibile solo ai sacerdoti che, qualche volta, custodiva il tesoro del tempio. Il coronamento del tempio era in terracotta dipinta con finte grondai e teste di leone e terminava con antefisse a forma di palmetta. Le colonne sono alte 4,68 metri e possiedo un'entasi assai evidente.
Il tempio di Athena o tempio di Cerere, fu costruito nel 500 a.C. circa. Presenta una facciata ad alto frontone ed un fregio dorico, composto da ampi blocchi di calcare. E' privo di adyton, cioè della camera del tesoro. Tradizionalmente il tempio fu attribuito a Cerere ma la scoperta di numerose statuette in terracotta che raffigurano Athena ha fatto propendere gli studiosi per la dedica a questa divinità.
Il tempio di Nettuno è anch'esso, in realtà, dedicato ad Hera, fu eretto anch'esso nel V secolo a.C. e la sua concezione è ispirata al tempio di Zeus ad Olimpia. Il tempio è di ordine dorico, con sei colonne in facciata, e si eleva su tre gradini. La cella è divisa in tre navate. Il numero pari di colonne sui fianchi rappresenta un'anomali rispetto alla pianta dei templi greci. Le colonne, inusualmente massicce, hanno un diametro di 2,09 metri alla base e di 1,55 metri alla sommità.

Sorprese subacquee



La V edizione del Corso di Introduzione all'Archeologia Subacquea, organizzato al Castello di Donnafugata, in provincia di Ragusa, ha portato un'inaspettata sorpresa.
La parte pratica del corso è stata effettuata all'interno dell'area del "Palamento", presso Punta Secca (Ragusa), dove gli studiosi hanno sempre pensato ci fosse un porto tardo romano-bizantino, legato al vicino abitato di Kaukana. All'interno dello specchio d'acqua, infatti, sono stati già individuati due relitti che non sono, però, ancora stati scientificamente indagati.
Il corso prevedeva il rilievo di uno dei due relitti visibili ed il prelevamento di campioni lignei per la datazione al Carbonio 14. Durante una fase definita "ricognizione a pettine", la corsista Barbara Ferrari, di Massa Carrara, ha individuato una "protuberanza" che fuoriusciva dalla sabbia, dalla forma anomala, che, più tardi, si è rivelato essere il busto di una statua.
Dal momento che il trafugamento del reperto sembrava cosa assai probabile, data la sua vicinanza alla spiaggia affollata di bagnanti, si è proceduto al suo recupero ed all'affidamento al locale Museo Archeologico Regionale di Camarina, in attesa di procedere al restauro.
Per quanto riguarda la datazione, ci sono molti interrogativi, visto che il reperto è stato ritrovato in una località ricca di testimonianze risalenti al IV-VII secolo d.C.. Il dorso maschile, infatti, presenta una fisionomia decisamente classica.

lunedì 27 luglio 2009



Lungo il Vallo di Adriano, presso il forte di Vindolanda, nella contea di Northumberland, è stato scoperto un santuario romano consacrato a Giove di Doliche.
Il direttore degli scavi, Andrew Birley, racconta che il santuario era sepolto sotto una sorta di montagnola. Esso contiene un altare molto ben conservato, dedicato da un prefetto della Quarta Coorte dei Galli.
L'altare è alto circa 110 centimetri e mostra il dio che cavalca un toro con l'ascia ed il fulmine in mano. Il centro del culto di Giove di Doliche era l'attuale Turchia meridionale. E' una scoperta estremamente rara e, per questo, ancora più preziosa, in quanto è assai difficile ritrovare santuari all'interno di forti romani. Accanto al santuario sono state anche ritrovate tracce di sacrifici animali.
Gli scavi hanno anche riportato alla luce un secondo altare, dedicato, questo, da un prefetto della Seconda Coorte dei Nervi.

La signora ed il suo unguento



Quattro anni fa, in una necropoli vicino Chiusi, è stato ritrovato, miracolosamente intatto, un unguento etrusco. L'unguento si trovava nella sepoltura di una donna e risale alla seconda metà del II secolo a.C.
La grande piastrella di terracotta che sigillava la tomba ha permesso agli studiosi di affermare che la donna era di nobili origini. E' stato ritrovato anche il suo nome, inciso in rosso porpora: Thana Presnti Plecunia Umranalisa, che ha confermato l'appartenenza della defunta ad una delle famiglie aristocratiche più importanti della Chiusi etrusca.
Le ceneri della donna riposano in una piccola urna in travertino decorata con il volto di quella che dovrebbe essere la dea Cel Ati. Poco lontano gli archeologi hanno rinvenuto il beauty case decorato con ossa, avorio, stagno e bronzo, dove erano stati riposti gli oggetti personali di Thana: una coppia di anelli di bronzo, un paio di pinzette, due pettini ed un recipiente per unguenti di alabastro.
All'analisi il preparato è risultato composto da olio di moringa (usato sia da Greci che Egizi), resina di pino e resina di lentisco. Visto che gli alberi di moringa si trovano solo in Sudan ed in Egitto, gli archeologi hanno concluso, anche tenendo conto che l'unguentarium in alabastro era di chiare origini egizie, che la preziosa crema profumata sia stata importata proprio dal paese del Nilo.

Le caverne di Rapa Nui

Una squadra di esperti ha scoperto, recentemente, un sistema di caverne lungo ben sei chilometri, scavate nella lava dell'Isola di Pasqua ed hanno confermato che una di queste caverne è la undicesima, per grandezza, del mondo.
Queste caverne erano usate dagli abitanti come rifugio durante le guerre sociali che hanno insanguinato l'isola. All'interno sono stati ritrovati anche dei reperti archeologici, come punte di freccia, di lancia, asce, utensili ed incisioni nella roccia oltre a 30 scheletri umani.
L'Isola di Pasqua è conosciuta anche come Rapa Nui, si trova nell'arcipelago polinesiano, a 3.500 chilometri ad ovest delle coste del Cile, che l'ha annessa nel 1888. I suoi abitanti hanno ottenuto la cittadinanza cilena nel 1966.

domenica 26 luglio 2009

La città del lago sacro


Nelle Ande sono stati ritrovati i resti di un villaggio Incas. Ad effettuare la scoperta, una spedizione di archeologi genovesi. I resti si trovano non lontani da un lago sacro a 3.500 metri di altitudine nel cuore delle Ande.
Probabilmente si tratta della città perduta di Ciquate che, secondo la leggenda, fiorì in epoca Incas, finquando gli abitanti, per difendersi dagli spagnoli e nascondere il loro tesoro, non la fecero inabissare nel lago sacro.
Gli archeologi genovesi hanno ritrovato i resti di una strada di 200 metri, coperta da rovi ed arbusti, muretti di epoca precolombiana ed altre tracce che li hanno convinti dell'esistenza di un'antica città che si allungava verso il lago.
Proprio alla quota in cui sono stati intercettati i resti di Ciquate, ci sono una serie di laghi chiamati Huaringas, che sono il cuore dello sciamanesimo andino. Nelle tradizioni locali, questi laghi vengono indicati come il luogo mitico in cui ebbe origine il mondo. Tant'è vero che, sempre la spedizione genovese, ha ritrovato alcuni graffiti che hanno confermato la funzione sacra rivestita, un tempo dal lago di Ciquate.

La fornace di Gualdo Tadino


A Gualdo Tadino è stata scoperta una fornace a pianta circolare per la cottura della ceramica. La fornace risale ad epoca preromana ed è emersa in seguito alle indagini archeologiche condotte, in questi giorni, nel grande abitato preromano di Colle I Mori.
La fornace è collocata all'interno di un grande ambiente rettangolare, delimitato da muri a secco e alloggi per i pali. Lo scavo è tuttora in corso, ma sono già visibili le mura perimetrali in argilla ed il piano forato che separava la camera di combustione, dove era acceso il fuoco, dalla camera di cottura, dove venivano posti i vasi da cuocere.
Gli scavi condotti negli ultimi decenni hanno riportato alla luce parte dell'insediamento, databile ad un periodo compreso tra il VI ed il III secolo a.C., che si sviluppava su terrazzamenti artificiali sui fianchi di una collina. Sulla sommità di quest'ultima sorgeva un'area sacra. Le abitazioni che formavano l'insediamento era composte di tre ambienti con muri in pietrame a secco, piano superiore in legno e tetto a tegole e coppi.

I serafini di Hagia Sophia


Ad Istanbul, come ho scritto nel post precedente, l'antica basilica di Hagia Sophia, ora museo, è da tempo oggetto di un ampio restauro. Durante i lavori, i ricercatori sono stati in grado di restituire il volto ad uno dei quattro angeli rappresentati sui pennacchi alla base della cupola. Il volto dell'angelo fu dipinto 900 anni fa ed era rimasto coperto per oltre 160 anni.
Gli ultimi a vedere il volto erano stati i fratelli Fossati, architetti svizzeri che avevano restaurato l'edificio nel XIX secolo, per volere del sultano Abdulmescit I. Avevano, i fratelli, anche fatto importanti scoperte sulla decorazione interna della Basilica, riportando alla luce alcuni affreschi e mosaici. Ma il volto dei quattro angeli fu immediatamente ricoperto, probabilmente perchè Hagia Sophia era, oramai, diventata una moschea e, pertanto, tutte le immagini sacre dovevano essere occultate od eliminate dalla sala della preghiera, così come era stato per altri monumenti bizantini dell'antica Costantinopoli trasformati in moschea.
I fratelli Fossati riuscirono a lasciare memoria del loro lavoro: un album di disegni ed acquerelli che è stata molto preziosa per l'Alta Commissione per la tutela di Hagia Sophia.
Pare che ci siano voluti ben dieci giorni di lavoro per riportare alla luce il primo dei quattro volti degli angeli. Sul volto dell'angelo, del resto, erano stati spalmati ben sette strati di stucco e calce. Nonostante questo, la pittura è in ottime condizioni.
Gli angeli che si trovano sui pennacchi della cupola di Hagia Sophia sono serafini a sei ali, spesso ritratti in colore rosso e sono uno dei motivi più frequenti dell'iconografia bizantina.

sabato 25 luglio 2009

Hagia Sophia, la Divina Sapienza



Hagia Sophia è non solamente una basilica ma anche il monumento principale di Istanbul. Come la città di cui è praticamente l'emblema, attraversò diverse fasi e destinazioni: fu dapprincipio una sede patriarcale, per divenire una moschea ed ora è un museo.
La sua gigantesca cupola è nota in tutto il mondo e la chiesa è considerata l'apice dell'architettura bizantina. Fu terminata nel 537 e restò la più grande cattedrale del mondo fino al completamento della cattedrale di Siviglia nel 1520.
Il primo nucleo dell'edificio sorse quando Costantino era ancora in vita, ma nel 337, anno della morte dell'imperatore, la chiesa era ben lungi dall'essere completata. Fu consacrata solo nel 360, al tempo di Costanzo II, dal patriarca Eudossio. Teodosio II la riedificò e riconsacrò nel 415, poichè era stata distrutta da un incendio. Ma le fiamme tornarono a distruggere nuovamente Hagia Sophia, questa volta conseguenza della rivolta di Nika, scoppiata contro l'imperatore Giustiniano I, nel 532. La chiesa fu ricostruita nuovamente, ma in forme ancora più grandiose dallo stesso Giustiniano. Della basilica teodosiana sussiste ancora un edificio laterale, la sacrestia.
Giustiniano volle ricostruirla probabilmente per espiare il massacro dei 30.000 abitanti di Costantinopoli caduti nella rivolta. Il progetto fu affidato agli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto il Vecchio, entrambi particolarmente abili nelle scienze matematiche e nella geometria. Gli artigiani che si dedicarono al progetto venivano da ogni parte dell'impero ed i materiali ornamentali ed i marmi furono importanti anche da regioni lontanissime.
Il 27 dicembre 527 si ebbe la consacrazione della chiesa in presenza di Giustiniano. Ma i pilastri che sostengono l'enorme cupola di 31 metri di diametro non erano sufficientemente robusti. Già lesionati durante la costruzione, furono ancor di più indeboliti dai terremoti del 553 e del 557.
La cupola crollò una prima volta il 7 maggio 558, sempre a causa di un terremoto. La chiesa venne riaperta al culto solo nel 563, dopo la costruzione di una nuova cupola, più leggera e rialzata di circa sei metri per meglio distribuire il carico. I lavori furono diretti da Isidoro il Giovane, figlio di uno dei primitivi architetti. In seguito la cupola venne ricostruita altre due volte, nel X secolo e nel XIV secolo a seguito di altrettanti crolli.
Quando Costantinopoli fu presa durante la quarta crociata, Hagia Sophia fu pesantemente saccheggiata e numerose reliquie scomparvero. Tra esse la Sacra Sindone, una pietra della Tomba del Cristo, il latte della Vergine Maria. Le ossa dei morti santi furono saccheggiate e la chiesa fu convertita in edificio di culto cattolico e tale rimase fino alla conquista dei Bizantini nel 1261, quando venne chiusa perchè praticamente in rovina, fino all'intervento di restauro degli architetti Astras e Peralta.
Nel 1453 Hagia Sophia venne trasformata in moschea in seguito all'occupazione di Costantinopoli da parte dei Turchi. Vennero tolti l'altare, le immagini sacre ed intonacati i mosaici parietali. Nel 1847 il sultano Abdul Mejid I affidò il restauro della chiesa-moschea a Gaspare Fossati che portò alla luce diverse immagini nelle gallerie e nel timpano.
Nel 1934 la chiesa fu definitivamente adibita a museo, su decisione di Mustafa Kemal Ataturk, primo presidente della Repubblica turca. Nel 1935 gli scavi hanno permesso di riportare alla luce un grande portico antistante l'edificio, costruito da Teodosio II, decorato da una maestosa cornice e con un fregio particolare: un agnello raffigurato con la coda a terminazione ingrossata, elemento orientale che non è stato mai riscontrato in decorazioni occidentali. Furono anche scoperti i mosaici ed i pavimenti in marmo che, in precedenza, erano stati coperti da tappeti.
La pianta della basilica fonde il rettangolo nel quadrato, ha tre navate, arcate divisorie a doppio ordine ed un'unica abside opposta all'ingresso che, all'esterno, si presenta poligonale. L'ingresso è preceduto da un doppio nartece (struttura tipica delle basiliche dei primi 6-7 secoli del cristianesimo, che serve a raccordare le navate con l'esterno della chiesa ed ha funzione di un corto atrio largo quanto la chiesa stessa. Anticamente ospitava i catecumeni ed i pubblici penitenti, ma questa funzione scomparve nel VII secolo). Gli interni sono arricchiti con mosaici, marmi pregiati e stucchi. Le colonne sono state ricavate dal prezioso porfido o marmo verde della Tessaglia, impreziosite con capitelli finemente scolpiti. All'interno alcuni corridoi laterali, riccamente decorati (che hanno ispirato la Basilica di S. Marco a Venezia) conducono al grande vano della navata centrale dominato dall'enorme cupola che poggia su pennacchio ed archi che scaricano il loro peso su quattro pilastri. Questi ultimi sono costruiti con pietre lavorate, legate tra di loro con colate di piombo. Volte, archi e pareti sono in laterizi. Nelle fascia superiore della grande cupola sono state aperte diverse finestre, alcune delle quali successivamente murate per non compromettere la stabilità della cupola, che inondano di luce l'edificio in ogni momento della giornata.
Sulle navate laterali corrono i matronei, da dove la corte imperiale assisteva alla messa. Inizialmente la decorazione interna era aniconica, con motivi persiani (ci si atteneva all'iconoclastia del VII secolo), poi Giustino II vi introdusse cicli evangeliche e scene tratte dal Dodecaorto, il sistema delle dodici feste bizantine. La cupola riporta un Cristo Pantocratore benedicente.

Istanbul, Nea Roma


Capitale dell'Impero Romano dal 330 al 395 d.C., capitale dell'Impero Romano d'Oriente (Impero Bizantino) dal 395 al 1204 e dal 1261 al 1453, capitale dell'Impero latino dal 1204 al 1261 e dell'Impero Ottomano dal 1453 al 1922, si può ben dire che Istanbul sia una delle città più antiche che ha conservato il suo ruolo nei secoli.
Il nome attuale della città, secondo un aneddoto deriva da una curiosa circostanza: quando i turchi, che volevano conquistare l'Anatolia, chiedevano ai greci dove fosse "la città", ricevevano una risposta che non riuscivano a comprendere, "isten polis", che in greco vuol dire "quella è la città". La risposta venne presto confusa con il nome di Costantinopoli. Il nome Istanbul lo ricevette attorno al 1930, ma la sua storia, fatta anche di molti nomi, risale a ben prima di questa data.
La città fu fondata nel 667 a.C. dai greci di Megara ed originariamente chiamata Byzàntion, in onore del loro re Byzantas. Il nome greco Kostantinòupolis, da cui trae origine il nostro Costantinopoli, le fu dato in onore dell'imperatore Costantino, quando la città divenne la capitale dell'impero romano, l'11 maggio 330 d.C.. Costantino la ribattezzò, in realtà, Nea Roma, ma questo nome non venne quasi mai utilizzato, anche se oggi la denominazione ufficiale secondo la chiesa ortodossa ed il Patriarcato Ecumenico sia "Costantinopoli Nuova Roma".
Oltre a Nea Roma, Istanbul venne chiamata, nel corso dei secoli, Polis ("La Città"), Rumiyya al-Kubra ("La Maggior Roma", in arabo), Qostantiniyye (Costantinopoli, in arabo), Islambol ("Centro dell'Islam") perchè fu sede del Califfato islamico dal 1527 al 1924, Pay-i taht ("Il piede del trono", in persiano), Mikligardur ("Città grande" dei mercenari Vareghi o Vichinghi), Car(i)grad ("Città degli Imperatori", nelle lingue slave), Gostandnubolis (in armeno).
Fu la posizione strategica di Istanbul a determinare le sue vicende di alternanza di dominazioni nel corso dei secoli. E fu soprattutto per la sua posizione che la città venne eletta da Costantino a Nea Roma. L'imperatore romano costruì un numero impressionante di palazzi, chiese, luoghi di divertimento, come il circo, e la città continuò a crescere anche dopo la morte di Costantino.
Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, la posizione strategica di Costantinopoli continuò ad essere fondamentale nel passaggio tra Europa ed Asia.
A Costantinopoli nacque il fondamento del diritto romano, il Corpus Iuris Civilis voluto da Giustiniano tra il 528 ed il 565. Durante il medioevo fu la città più grande e ricca d'Europa, con il suo milione di abitante. La sua maggior basilica, Hagia Sophia, monumento di sublime architettura dedicato alla Divina Sapienza, divenne il centro dei cristiani ortodossi.
Grazie alle sue fortificazioni, la città rimase imprendibile fino al 1204, quando venne saccheggiata dagli eserciti della quarta crociata. Il 29 maggio 1453 Costantinopoli cadde in mano ai Turchi ottomani guidati da Maometto II il Conquistatore (Fatih) che ne fece la capitale dell'impero ottomano.
I sultani ottomani portarono nuovo splendore alla città, che divenne sede del califfato nel 1517. Hagia Sophia venne trasformata in moschea, ma la sede del Patriarcato Greco-Ortodosso rimase comunque in città. Il XVI secolo segnò l'apice dell'impero ottomano, fu in questo secolo che si costruirono le moschee più importanti della città: Beyazit, Suleymaniye (la più grande moschea di Istanbul), Sultan Ahmet e Fatih. L'impero ottomano uscì sconfitto dalla prima guerra mondiale e finì ufficialmente il 1° novembre 1922. Nel 1923 vennefondata la Repubblica di Turchia e la capitale venne spostata ad Ankara.

venerdì 24 luglio 2009

I Greci di Pithekoussai


Pithecusa, in greco Pithekoussai o Pithecusae, è comunemente considerato il più antico stanziamento magnogreco in Italia. La sua fondazione, infatti, viene fatta risalire all'VIII secolo a.C., ad opera dei Greci di Eretria e di Calcide (Eubea).
Nel 1989 furono ritrovati, in modo fortunoso, dei muri a secco, in seguito ad uno smottamento nella frazione di Panza. Gli scavi si sono svolti dal 1993 al 1995 ed hanno permesso il ritrovamento di una fattoria greca tenuta da agricoltori benestanti, vista la qualità dei vasi che vi sono stati rinvenuti. Da questo luogo i coloni si sono, poi, diffusi su tutta l'isola, occupando anche le alture di Monte Vico prospicienti il continente. La baia di Sorgeto, infatti, offre un riparo ideale alle navi, soprattutto quando soffia lo scirocco e questo deve aver contato non poco a determinare l'approdo, in questo punto, dei coloni greci.
Strabone informa che la ricchezza di Pithekoussai era dovuta sia alle risorse agricole che alla lavorazione dell'oro. Gli studi effettuati sui ritrovamenti della necropoli dell'isola ha evidenziato che gli abitanti vivevano soprattutto di scambi e di lavorazioni artigianali. Le ceramiche erano decorate con figure geometriche e compaiono, anche se sporadicamente, figure umane.
A Pithekoussai si è ritrovata, inoltre, la più antica firma di vasaio sinora conosciuta, trovata sulla Coppa di Nestore. Sull'isola si lavorava anche il ferro, a tal proposito sono stati ritrovati lo scarto di una fibula e delle scorie di materiale proveniente, con tutta probabilità, dall'isola d'Elba.
La Coppa di Nestore è stata ritrovata a Lacco Ameno dall'archeologo tedesco Giorgio Bucher. Risale al 725 a.c. circa ed è il più antico esempio pervenuto di un brano poetico in scrittura contemporanea. La Coppa è un kotyle, una tazza piccola e larga non più di 10 centimetri, usata quotidianamente e con figurazioni geometriche. Fu importata da Rodi e, secondo alcuni studiosi, faceva parte di una partita di vasi contenenti preziosi unguenti orientali. Era parte di un corredo funebre appartenente ad un fanciullo di appena dieci anni. Su un lato reca inciso un epigramma di tre versi in alfabeto euboico, da destra verso sinistra (come nella tradizione fenicia). L'epigramma allude a quanto descritto nell'XI libro dell'Iliade, in cui si narra della leggendaria coppa dell'eroe Nestore, figlio di Neleo, red i Pilo. Una coppa così grande che occorrevano quattro persone per spostarla.
La Coppa di Nestore è importante per ricostruire la fitta rete commerciale che i coloni di Pithekoussai avevano intessuto con i paesi del Mediterraneo ma anche con il Vicino Oriente. Il resperto si trova, ora, presso il Museo archeologico di Pithcusae, nella Villa Arbusto di Lacco Ameno, costruito nel 1785 da Don Carlo Acquaviva, duca di Atri.

giovedì 23 luglio 2009

La basilica di Santa Sinforosa a Tibur

Articolo di Gabriella Cetorelli Schivo
La basilica di Santa Sinforosa, situata al Km. 17,400 della via Tiburtina, a circa mt. 50 dall'antico asse viario pressochè coincidente con quello attuale, è oggi costituita dai resti dell'abside e del presbiterio di quella che è stata definita, dallo Stevenson, che vi effettuò estesi scavi alla fine del secolo scorso, la basilica maior, le cui mura appaiono conservate fino all'altezza delle volte.
L'edificio, connesso al culto della martire di Tivoli, Sinforosa, costituisce un importante monumento dal punto di vista archeologico, architettonico e storico.
Le più rilevanti fonti letterarie antiche, infatti, tra cui il Martiriologio Geronimiano e la Passio Sanctae Sympherosae, ricordano il luogo di deposizione del corpo della martire e dei suoi sette figli, al IX miglio della Tiburtina, e riportano la vicenda del martirio della santa, gettata nell'Aniene in suburbano eiusdem civitatis (l'antica Tibur) sotto l'imperatore Adriano.
Menzionata negli itinerari medievali cum multis martyribus, la figura di Sinforosa rileva una spiccata devozione da parte dei pellegrini del tempo, dal momento che le sue reliquie vengono indicate tra quelle da visitare nella città di Roma.
A questa venerazione, iniziata con la pace religiosa come ha più volte sottolineato il Testini, va connessa la costruzione del complesso paleocristiano costituito da due edifici di culto di datazione e forma diversa, simmetricamente disposti rispetto al punto di tangenza delle absidi.
Di questi il più antico, riferibile alla fine del III, inizi del IV secolo d.C., era costituito da una memoria triabsidata di modeste dimensioni (m. 15x19), all'interno della quale dovevano essere state deposte le onorate spoglie. Ad esso, in un periodo posteriore che si può ascrivere tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, venne aggiunta una basilica di dimensioni maggiori, atta ad accogliere la moltitudine dei devoti alla santa. Proprio per esigenze di carattere devozionale si sentì, in tale occasione, la necessità di creare un punto di collegamento tra la basilica maior e la cella memoriae, che avvenne tramite l'apertura, nelle absidi contrapposte, di una fenestrella confessionis, permettendo in tal modo ai fedeli la visione del luogo di deposizione dei martiri.
La basilica maior, preceduta da un nartece, era un ampio edificio di m. 40x20 circa, diviso in tre navate scandite da una doppia fila di sei pilastri e terminante con un'abside affiancata ai lati da due secretiores aedes. Presentava, come evidenziarono gli scavi dello Stevenson, una copertura a capriata, mentre l'interno era decorato da affreschi di cui, al momento dei sondaggi, fu possibile individuare quello dell'abside a "bande e festoni".
Lungo l'abside e nel presbiterio, inoltre, vennero rinvenuti i resti di piccoli fori che hanno fatto pensare ad intarsi marmorei posti fino a tre metri dal piano del pavimento, sormontati a loro volta da una cornie di marmo situata alla base degli affreschi, che dovevano ornare anche la volta.
Abside e presbiterio erano separati da transenne (plaustra) di cui sono state rinvenute le tracce di fondazione. L'illuminazione interna era ottenuta da una serie di finestre aperte lungo il muro della navata centrale, larghe m. 2,20, mentre aperture minori illuminavano le navatelle.
L'area del presbiterio, inoltre, doveva essere priva di finsestre per creare un suggestivo contrasto di luci ed ombre avvicinandosi progressivamente alle tombe venerate.
L'assedio longobardo del 756, che vide la devastazione della campagna romana e delle sue chiese, fu quasi certamente la causa per cui il papa Stefano III, nel 757, fece traslare le reliquie della martire tiburtina e dei suoi figli intra moenia, presso la chiesa di S. Angelo il Pescheria, come riporta un'iscrizione di piombo scoperta nel 1562 (...).
A tale situazione può riconnettersi l'abbandono del complesso paleocristiano e la conseguente fase di spoliazione ad esso relativa.
Abbiamo ancora notizie della basilica nel 944, in una bolla di Martino III ed in una del 991 di papa Giovanni XV. Nel 1124 la chiesa di Santa Sinforosa è ancora menzionata come appartenente al monastero di san Ciriaco di Roma.
Nel 1585 viene ricordata da Marco Antonio Nicodemi tra le rovine del nono miglio della via Tiburtina e nel 1632 il Bosio riporta di aver visto i resti della basilica di Santa Sinforosa e dei suoi figli (...).
Nel 1676 nella pianta (...) di Roma è ancora riportata la menzione di "S. Sinforosa", mentre nel 1737 viene rinvenuta vicino ai resti della basilica paleocristiana sulla Tiburtina, in proprietà Maffei, un'iscrizione, oggi conservata al Museo Maffeiano di Verona, ove sono riportati i nomi di una Cornelia Sympherusa e di sua figlia Claudia Primitiva, databile per i caratteri paleografici al II secolo d.C., che hanno fatto ritenere possibile, allo Stevenson, la presenza di un mausoleo della famiglia della santa al IX miglio della via Tiburtina, anche se l'identificazione di questa Cornelia con la martire di Tivoli non sembra, al momento, sostenibile.
Nel 1745 la basilica è ricordata dal Vulpio come "magnifica struttura" e ancora nel 1828 viene ricordata dal Sebastiani che ne descrive le vestigia.
Nel 1877 lo Stevenson, dopo averne individuato i resti, chiede ed ottiene dal duca Grazioli, allora proprietario del sito, il finanziamento per gli scavi del complesso.
Gli anni che vanno dal 1940 al 1960 hanno visto la distruzione del muro nord e dell'angolo sud est della basilica per la creazione della linea ferroviaria Roma-Tivoli e l'abbattimento dell'intera metà nord della chiesa per pubblici lavori di ampliamento della via Tiburtina. (...)
La lunga fase di frequentazione del sito, che va dal periodo romano al medioevo, come testimoniano le fonti appena ricordate, evidenziano in maniera inequivocabile la grande importanza rivestita dal complesso di Santa Sinforosa presso Tivoli.
Va peraltro ricordato che tra il IX ed il XVII secolo l'area fu anche utilizzata come sepolcreto da una comunità locale, il cui desiderio di trovare sepoltura sotto la protezione della santa testimonia, per un lungo periodo di tempo, la profonda venerazione riservata dagli abitanti del territorio tiburtino alla martire, tuttora protettrice della città da cui ebbe i natali.
La basilica di Santa Sinforosa è, oggi, difficilmente rintracciabile.
Immersa nella campagna romana in un fondo privato, interamente ricoperta da vegetazione infestante nei lacerti sempre più esigui delle originarie strutture, l'antica aula giace, infatti, negletta ed obliata, in un lento ed inesorabile declinare di un lontano splendore offuscato dal silenzio dei secoli di abbandono.

Il primo omicidio della storia



L'antropologo Steven Churchill sostiene di aver individuato il luogo dove si svolse il primo delitto della storia. Si trova non lontano dalle città dove occidentali e musulmani si sono massacrati per sei anni, sui Monti Zagros, in Iraq.
Qui, in questo luogo oggi dimenticato da Dio e dagli uomini, un Homo Sapiens uccise un Neanderthal tra 50.000 e 75.000 anni fa. L'arma? Probabilmente una freccia. Ne è stata trovata la punta nel torace di una delle vittime.
I resti di Shanidar 3, battezzata così dagli studiosi, sono stati ritrovati in una caverna del nord-est iracheno. A partire da questi frammenti Steven Churchill ha ricostruito il thriller che ha portato alla scomparsa dell'uomo di Neanderthal a favore del più socievole e forte Homo Sapiens.
La prova del crimine è nella lesione ancora evidente nella nona costola sinistra di Shanidar 3. Questi era un uomo già avanti con gli anni, forse aveva quaranta-cinquanta anni, afflitto da un problema di artrite. Forse era un personaggio di una certa rilevanza nell'ambito della sua tribù.
Dalle analisi effettuate dagli esperti, pare che riuscisse a sopravvivere all'attacco (tra l'altro gli studiosi stanno cercando di decodificare anche la lingua gutturale utilizzata dai neanderthaliani) e fu soccorso dagli altri componenti della sua tribù, che lo portarono in una caverna. Ma, purtroppo, la freccia ferale dovette forargli anche un polmone e l'infezione fece spietatamente il suo corso portando Shanidar 3 alla morte.
Fu senz'altro una guerra tra diversi tipi di adattabilità all'ambiente, di evoluzione. I neanderthaliani si erano dimostrati imbattibili nella caccia collettiva ai mammuth ed ai bisonti. I Sapiens, invece, eccellevano nella comunicazione e nello sviluppo di oggetti di caccia e di offesa più sofisticati. Una guerra, per l'uomo di Neanderthal, persa in partenza.

mercoledì 22 luglio 2009

L'antica mansio di Santa Cristina


Capanne, ruderi ed oggetti di vita quotidiana databili tra il I ed il VI secolo d.C., sono andati a completare un quadro d'insieme interessante composto dagli studiosi che si stanno occupando dello scavo di Santa Cristina, nel comune di Buonconvento (Siena).
Innanzitutto è stato riportato alla luce un grande complesso termale del I secolo d.C. in buono stato di conservazione. Gli archeologi pensano si tratti di una mansio, posta lungo l'antica via Cassia, praticamente una stazione di sosta gestita dal governo centrale e messa a disposizione di dignitari, ufficiali e quanti viaggiassero all'epoca per ragioni di stato. In una stanza absidata del complesso è stato ritrovato un mosaico in stile geometri del III secolo. In uno spogliatoio, invece, è stato riportato alla luce un braciere per riscaldare l'ambiente e poi due ambienti relativi al calidarium ed un bagno di vapore ed una vasca destinata all'acqua fredda.
Presumibilmente il complesso termale venne definitivamente abbandonato nel IV secolo d.C.. All'inizio, all'interno delle sue mura venne installata una abitazione con muri in terra e copertura di paglia (VI secolo d.C.) che fa pensare alla presenza, intorno, di altre unità abitative a formare un popoloso villaggio.
L'area indagata è di circa 200 mq ed ha rivelato una lunga frequentazione della zona tra la prima età imperiale e l'inizio dell'Alto Medioevo. Essa prende il nome da un'antica chiesa oggi scomparsa, la cui prima menzione risale all'814 ma che certamente risaliva almeno all'VIII secolo. Il 29 dicembre 814 l'imperatore Lodovico il Pio emette un diploma in favore dell'abate di Sant'Antimo in valle Starcia, con il quale si conferma l'appartenenza a quel monastero del caium Ceciliano all'interno del quale vi è compreso l'oratorium di Sancta Christina. Il possesso della chiesa da parte dell'abbazia viene ulteriormene sottolineato dall'imperatore Enrico III nel 1051.
Nel 1189 la bolla di papa Clemente III elenca la "Plebem Sanctae Cristinae in Cajo" tra le chiese che fanno parte della diocesi di Siena, pur continuando la pieve ad essere sotto la giurisdizione dell'abate di Sant'Antimo (bolla di Onorio III del 1216).
Ancora nel 1246 Santa Cristina è luogo in cui vengono ratificate importanti donazioni, come quella in fovere dello Spedale di Santa Maria della Scala. Nel 1249 vi viene venduto un campo insieme a chi lo coltivava ed alla sua famiglia. Nel 1462, con l'istituzione della diocesi di Pienza da parte di Pio II, la pieve di Santa Cristina venne assegnata a quest'ultima.
L'edificio religioso subì notevoli danni nella guerra di Siena, nel XVI secolo. Gli ultimi ruderi della pieve furono abbattuti nel 1787 per volere del patrimonio ecclesiastico di Montalcino. I materiali furono riutilizzati nella costruzione del campanile della chiesa di San Pietro a Buonconvento.

I Maya e l'impoverimento dell'ambiente


La fine di grandi civiltà è certo un argomento al quale gli studiosi sono molto "affezionati", se non altro per cercare le cause che hanno determinato la scomparsa improvvisa di grandi imperi. E' quel che è accaduto per quel che concerne i Maya, la cui scomparsa ha sempre destato l'attezione di storici ed archeologi, alla ricerca di cause e concause che hanno portato questo popolo ad estinguersi in un breve lasso di tempo.
Sicuramente una parte importante l'hanno avuta guerre e malattie, ma un paleobotanico americano dell'Università di Cincinnati, David Lentz, afferma che la causa principale dell'estinzione di questo popolo sia stata la fine delle risorse naturali. Per diverso tempo, infatti, Lentz e la sua squadra hanno studiato le strutture in legno dei templi e dei palazzi di Tikal, città maya che si trova in Guatemala.
Tre templi costruiti prima del 741 d.C. sono stati ricavati da tronchi di sapodilla, un legno molto forte e resistente, che consente di incidere disegni ed iscrizioni con relativa facilità.
Dopo il 741 d.C., però, la sapodilla sembra scomparsa, sostituita dal legno di un piccolo albero tropicale con rami nodosi, quasi impossibile da scolpire. Lentz sostiene che la sostituzione di quest'albero alla sapodilla è stata dovuta all'estinzione di quest'ultima.
Studi precedenti sui pollini nella foresta circostante, avevano dimostrato che la decadenza dei Maya conincideva con un impoverimento della vegetazione ed un aumento dell'erosione del terreno.

martedì 21 luglio 2009

L'isola dimenticata



Aristobulo, vissuto nel 150 a.C. circa, afferma che Alessandro Magno volle chiamare quest'isola Icaro, poichè gli ricordava Ikaria, piccola isola dell'Egeo che Omero citava come uno dei luoghi di nascita di Dioniso.
Su quest'isola, si dice, sbarcò Nearco, uno dei generali più noti del grande macedone.
Certo è che gli scavi hanno rilevato la presenza di strutture ellenistiche soprattutto una cittadella. Forse, chissà, lo scalo della flotta greca diretta in India.
Le mappe portoghesi del Settecento chiamavano il luogo Ilha de aguada, dal momento che vi si trovava l'acqua necessaria alle navi che qui si rifornivano. Ora appare come una lingua di terra piatta e deserta, ma vecchie foto mostrano mandrie al pascolo, coltivazioni e pozzi, confermando la feracità di questi venticinque chilometri quadrati di terra a soli venti chilometri dalla costa del Kuwait.
I primi scavi risalgono al 1958, quando una squadra di archeologi danesi si interessò di sapere se Failaka (questo è il nome dell'isola) potesse essere l'isola citata dallo storico greco Arriano Flavio nella sua Anabasi di Alessandro. Un'isola ricca di templi e santuari dedicati a Febo, Artemide e Poseidone.
Già nel 1937, in prossimità della residenza estiva dello sceicco Ahmad (sopra un'altura che si affaccia su un villaggio dell'Età del Bronzo), era stata ritrovata una pietra con un'iscrizione greca datata al II secolo a.C., che oggi si trova al Museo Nazionale di Kuwait City. L'iscrizione parla di un certo Soteles, cittadino ateniese, e dei soldati di stanza in loco che dedicavano quella stele a Zeus, Poseidone ed Artemide.
Un'altra scoperta fu un possibile legame tra il Maqam Al Khidhir, edificio del XII secolo d.C., dove le donne si recavano a chiedere di poter avere figli, ed un santuario molto più antico, datato al I millennio a.C., dedicato ad Ishtar, dea della fertilità.
Gli scavi riportarono alla luce reperti del 2500-2000 a.C., tra cui 400 sigilli, incisi sull'isola con effigi di animali, alberi, figure umane e geometriche. Furono ritrovati anche scarabei egiziani, giare, utensili, armi e gioielli. Interessantissimo è stato il rinvenimento di tredeici monete d'argento del periodo del re seleucide Antioco III il Grande (223-187 a.C.). All'età ellenistica appartengono anche raffigurazioni di Aphrodite, statuette votive, lucerne, utensili, altre statuette di regnanti ed una testina in cui si può riconoscere l'effige di Alessandro Magno.
La scoperta più emozionante, però, è datata 1960, quando venne riportata alla luce una stele greca che recava disposizioni in materia di amministrazione pubblica, compresa l'esenzione dalle tasse degli abitanti. Un tempo questa stele doveva essere murata nel basamento del tempio di Artemide "Anaxarchos saluta gli abitanti di Ikaro", si legge nella prima delle 44 righe.

I misteri del sacro telo



Si fa, ultimamente, un gran parlare di nuovo della Sindone, specialmente dopo le affermazioni di una giornalista americana, che ha suscitato un pò di scalpore affermando che "autore" della Sindone sarebbe stato Leonardo Da Vinci, che in essa si sarebbe ritratto grazie a tecniche particolari.
Alla giornalista ora ripsonde Barbara Frale, studiosa e scrittrice, che nel prologo al suo ultimo saggio, "I templari e la Sindone di Cristo", annuncia che uno scienziato francese, Thierry Castex, ha scoperto una scritta in caratteri ebraici che si riferiscono all'aramaico, la lingua delle prime comunità cristiane. La scritta è invisibile ad occhio nudo ed è stato possibile leggerla solamente ricorrendo a particolari tecniche fotografiche. La scritta non è molto lunga, si tratta di pochi caratteri del significato, più o meno, di "Noi abbiamo trovato".
Barbara Frale ha, inoltre, ritrovato, negli archivi Vaticani un testo del X secolo, un'omelia, nella quale è descritta la preziosa reliquia, che l'imperatore Romano I aveva mandato a prelevare dalla città di Edessa. Autore ne è Gregorio il Referendario, arcidiacono della Basilica di Santa Sofia, incaricato di prendere in consegna la sindone nel 943. Nel farlo egli accenna chiaramente non ad un fazzoletto dipinto (Mandylion), ma ad una grande immagine.
Barbara Frale ha affermato di aver preso visione di documenti che già nel IV secolo parlavano della Sindone.
Le scritte sulla Sindone sono più di una, in greco ed anche in latino, scoperte nel 1978. La Frale afferma che non sembra siano state impresse sul lino ma per contatto, forse casuale, con cartigli e reliquiari. Tutto ciò che riguarda le ipotesi e le certezze sul sacro telo, saranno presto messe nero su bianco sul prossimo libro che uscirà prima di Natale: "La Sindone di Gesù Nazareno".
Per il momento, chi volesse ammirare la Sindone dovrà aspettare il 2010, quando, in primavera, sarà esposta a curiosi e pellegrini. Le ultime ostensioni si sono avute nel 1978 e nel 2000, in occasione del giubileo.

Da Petra a Shawbak, un viaggio in Oriente



Un'interessante mostra allestita a Palazzo Pitti (Firenze) documenta la "rinascita" di Shawbak, riemersa dalle sabbie del deserto giordano grazie all'impegno degli archeologi italiani e giordani che hanno operato sul sito per ben venti anni.
La mostra sarà visitabile fino all'11 ottobre ed è incentrata su questa città-cardine tra due potenti imperi: quello egizio e quello siriano.
Gli archeologi italiani ed i loro colleghi giordani hanno praticamente recuperato una delle più affascinanti aree monumentali del Mediterraneo orientale. Nel Medioevo Shawbak fu il punto in cui la cultura cristiana si armonizzo e si amalgamò con la cultura islamica e viceversa.
In mostra vi sono reperti che giungono sia da Shawbak che dalla più nota Petra, mai esposti in pubblico. Ma i curatori hanno inteso porre un accento particolare sulla funzione della città durante l'epoca delle crociate.
Il sito di Shawbak si trova a circa 25 chilometri da Petra ed è denominato castrum Mons Regalis/Shawbak. Nel XII secolo, Shawbak sostituì Petra nella funzione di capitale della Transgiordania. La fortezza che emerge sulla sommità di un rilievo calcareo costituisce uno dei rari esempi di castello crociato rioccupato (fu costruito da re Baldovino I), con funzione militare, durante l'epoca Ayyubide, dopo che le truppe cristiane furono sconfitte nella Battaglia delle fonti di Hattin (1187).
La cittadella ha una triplice cinta di mura risalenti al XII secolo, intervallate da torri e bastioni databili dalla fondazione crociata fino all'epoca Mamelucca.
Localizzazione: Palazzo Pitti - Limonaia (Firenze)
Periodo: dal 13 luglio all'11 ottobre 2009
Info: Tel. 055.294883 - 055.2654321 - www.palazzopitti.it

L'idea della Grande Madre




Oramai è accertato che, in tempi antichissimi, la figura di una divinità femminile definita come Grande Madre era predominante nelle culture del bacino del Mediterraneo.
A confermare e suffragare quest'affermazione ci sono i numerosi ritrovamenti di statuette in terracotta ed incisioni che risalgono a 30.000-25.000 anni prima di Cristo. Statuette ed incisioni che hanno le fattezze di una figura femminile, spesso chiamata Venere Preistorica, dai seni prosperosi, dai fianchi e dal ventre generoso. Una figura che incarnava il fenomeno della procreazione, della fecondità, della nutrizione.
Nel III millennio a.C. le antiche popolazioni della Mesopotamia veneravano la dea Inanna, che successivamente verrà chiamata con un nome a noi più familiare: Ishtar. Della sua unione con il Figlio-Compagno Dumuzi (chiamato, in seguito, Tammuz) si narra ampiamente nel famoso Poema di Gilgamesh, la prima epopea concepita dall'uomo.
Inanna e Dumuzi, in seguito, "trasmigrarono" in Grecia con il mito di Tammuz, giovane eroe nato dalla corteccia dell'albero in cui era stata trasformata sua madre Mirra. Tammuz fu conteso, a sua volta, da due donne, Aphrodite e Persephone ed ucciso, per gelosia, da quest'ultima. I Romani chiamarono Attis il giovane Tammuz e gli diedero come compagna la dea Cibele. La vicenda, però, ebbe un epilogo tragico quando Attis si sposò, malgrado l'amore di Cibele e costei rese folli tutti i partecipanti al banchetto di nozze. Attis, per la disperazione, si evirò sotto un pino e Cibele lo trasformò in albero. La cerimonia funebre di Attis si teneva durante il giorno dell'equinozio e rappresentava i cicli riproduttivi di morte e rinascita della vegetazione.
Un destino simile ebbe il dio egizio Osiride, rinchiuso in una cassa e gettato nel Nilo dal suo fratello-rivale Seth. La cassa finì per arenarsi sotto un melograno ed il dio crebbe all'interno dell'albero. Quest'albero sarebbe diventato, più tardi, lo zed e sarebbe stato associato al culto di Osiride malgrado questa divinità fosse addirittura di origine predinastica. In Egitto le funzioni di vivificazione erano proprie di una divinità femminile, Hathor, la dea-vacca tra le cui corna sorge il sole (metafora dell'utero dal quale fuoriesce la vita). Hathor è, dapprincipio, la madre di Horus che, più tardi, diventerà il figlio postumo di Osiride ed Iside rendendo, pertanto, necessaria una fusione tra la figura di Hathor e quella di Iside.
Nell'area siro palestinese compaiono, più o meno nello stesso periodo in cui in Egitto compare Osiride e Iside, la dea Anat ed il suo fratello-marito Baal. Anche Anat è spesso rappresentata come una vacca selvatica, sostanzialmente un animale totemico comune a molte popolazioni dell'area mediorientale per rappresentare la Grande Madre. Anche Baal è ucciso, precisamente dal dio degli Inferi Mot ed Anat lo fa rivivere e con lui fa rivivere tutta la natura. Anat aveva avuto, però, un primo consorte, El (confuso e, poi, rappresentato come Baal), il dio con le ali, posto sopra il sacro albero che riporta direttamente ai riti di rinascita che, solitamente, si svolgevano in primavera (Ver Sacrum) in tutto il bacino del Mediterraneo.
Ma altre caratteristiche colpiscono, nel culto della Grande Madre. Innanzi tutto, ovviamente, il suo dominio sugli animali con i quali, spesso, è rappresentata in una sorta di commistione. Ishtar era accompagnata da leoni alati, Diana (altra raffigurazione classica di un'Antica Divinità femminile) da un cervo, la dea cretese comunemente chiamata Potnia Theron (vale a dire Signora delle Fiere) aveva, come suoi "accompagnatori" i serpenti. Altra caratteristica è la forte connotazione ctonia, sotterranea, notturna, del culto a questa divinità primigenia (i Misteri Eleusini, relitto di un'antica grande festa di rigenerazione legata al culto di una divinità femminile, si svolgevano prevalentemente di notte).

lunedì 20 luglio 2009

Tesori ritrovati


Fino al 30 settembre 2009 sarà possibile ammirare, a Palazzo Reale a Napoli, una serie di reperti archeologici trafugati e recuperati dal Comando dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
Tra le opere recuperate vi è la "Triade Capitolina", che ora si trova al Museo Archeologico di Palestrina, il "Volto d'Avorio", conservato al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme.
Tra i reperti che meritano attenzione per la loro importanza, chi visiterà la mostrà potrà vedere il busto di bronzo della dea Minerva, rubato nel 1975 nell'area archeologica di Ercolano ed il volto in bronzo di un bambino, trafugato dalla Casa dei Vettii a Pompei nel 1978 e recuperato due anni dopo. Ma non è certo finita qui! Si potranno anche vedere quattro delle monete d'oro che, assieme ad altre migliaia, vennero rapinate con mitra e pistole dal medagliere del Museo Archeologico di Napoli del 1975 e l'affresco con "Figura Femminile", del I secolo d.C., letteralmente strappato dalla parete della casa di Fabio Rufo a Pompei.
I reperti sono stati recuperati tra Europa ed America dai Carabinieri e sono esposti al pubblico in occasione del quarantesimo anno dall'istituzione di questo speciale corpo dell'Arma.
Dal 10 settembre 2009 al 30 gennaio 2010, inoltre, la mostra verrà ospitata a Castel S. Angelo a Roma, arricchendosi di opere storico-artistiche tra cui "Cristo di Pietà tra la Madonna e San Giovanni Evangelista", di Andrea della Robbia.
Il biglietto, per chi volesse visitare la mostra a Napoli, è di € 6,00 (€ 3,00 con la riduzione). Non è necessario prenotare.

Cuma ai tempi della Sibilla



Cuma è ritenuta essere la più antica colonia greca in occidente. Furono i Calcidiesi, guidati da Ippocle e Megastene, a darle origine, Calcidiesi che già erano attestati a Pitecusa e Cumani, nella penisola Anatolica. Era il 740-730 a.C. e nel territorio dove stava per nascere Cuma erano stanziati gli Opici che, perciò, dovettero essere cacciati. Il nome della città deriverebbe da Kyme, che in greco significa "onda". Prima dei Calcidiesi, però, il promontorio dove sorge la città era frequentato già tra il IX e l'VIII secolo a.C. dalla cosiddetta "cultura delle tombe a fossa", la cui necropoli è stata in parte ritrovata nella città bassa.
Nel 524 a.C., secondo quanto tramanda Dionigi di Alicarnasso, Cuma fronteggiò vittoriosamente una coalizione di Etruschi, Umbri e Dauni. Nella battaglia che pose fine alle mire espansionistiche degli avversari, si fece particolarmente notare il giovane Aristodemo che, a vent'anni di distanza, si proclamerà tiranno di Cuma e tale sarà finché non verrà ucciso, vent'anni dopo la sua autoproclamazione.
Nel 474 a.C. gli Etruschi mossero ancora una volta contro Cuma e ne incrociarono la flotta al largo. Solo con l'aiuto di Siracusa, Cuma riuscì a venirne fuori. Nel 421 a.C. la popolazione indigena dei Campani conquistò il predominio in città, pur mantenendo leggi e costumi magnogreci.
La conquista romana data al 334 a.C. e, dopo l'interruzione delle guerre annibaliche, nel 251 a.C., quando Cuma sconfisse in battaglia le truppe di Capua che si erano alleate con i cartaginesi. Da allora a Cuma si utilizzò la lingua latina negli atti ufficiali e restò fedele a Roma divenendo municipium.
Cuma fu sotto il dominio bizantino nel 558 d.C., quando fu fortificata dal prefetto della flotta Flavio Nonio Erasto. In seguito passò sotto il dominio longobardo e venne governata dai duchi di Napoli. Ben presto, però, le scorrerie dei Saraceni finirono per precipitare la città nella completa decadenza, finquando i napoletani, guidati da Goffredo di Montefuscolo, liberarono il golfo dalla pericolosa presenza dei predatori saraceni. Oramai, però, Cuma era stata quasi praticamente distrutta e gli abitanti l'avevano pressocchè abbandonata. L'interramento delle acque dei fiumi Clanis e Volturno trasformarono la città bassa in un pantano
L'acropoli di Cuma si erge sul Monte di Cuma ed è stata il perno difensivo ed il fulcro religioso della città. E' stata organizzata su due terrazze che, un tempo, erano a picco sul mare, tra due insenature portuali. Sulla terrazza superiore si trova il cosiddetto Tempio di Giove, santuario eretto nel VI secolo a.C. e di cui si conserva solo il basamento in tufo. Molte sono state, nel tempo, le trasformazioni subite dal tempio che, un tempo, doveva essere circondato da portici e pilastri in laterizio, che lo dividevano in cinque navate. Nel V secolo d.C. esso fu definitivamente trasformato in una basilica paleocristiana i cui resti sono da attribuire all'età romana ed a quella bizantina. Nell'VIII secolo l'edificio divenne la cattedrale della città, dedicata a S. Massimo martire. Nella cella del vecchio tempio venne inserito un altare in muratura rivestito di marmo e poggiato alla parete di fondo. Alle sue spalle si collocò un fonte battesimale in marmi policromi, di forma circolare.
In età altomedioevale, grossi muri in blocchi di tufo vennero eretti per delimitare delle cappelle, mentre gli intercolumnia furono adoperati per dare sepoltura ai membri più illustri della società dell'epoca.
La terrazza inferiore dell'acropoli ospita il Tempio di Apollo, riportato alla luce nel 1912, in cui una dedica romana identifica la divinità alla quale era dedicato con Apollo che aveva guidato i coloni alla fondazione della città. Della fase primitiva si conserva solo il basamento. Il tempio fu eretto nel V secolo a.C. ed originariamente doveva essere periptero, vale a dire circondato completamente da colonne. All'età augustea risale la realizzazione della monumentale scala che congiunge la terrazza inferiore al tempio della via Sacra. Intorno al V secolo d.C., l'edificio venne trasformato in basilica cristiana con fonte battesimale. A questo periodo risalgono le numerose tombe a fossa ricavate dal basamento del tempio arcaico. Ad età più antica risale la cosiddetta "Cisterna Greca", una fontana monumentale strettamente correlata alle qualità medicamentose di Apollo
Alle fortificazioni dell'acropoli si riferisce, invece, una lunga galleria più comunemente conosciuta come "Antro della Sibilla", scavata nel tufo che corre parallelo alla terrazza che si affaccia sul vecchio porto Qui si riteneva risiedesse la Sibilla Cumana, profetessa di Apollo, che qui riceveva i suoi fedeli ed interpretava e prediceva il futuro per loro. Romani e Bizantini apportarono non poche modifiche alla grotta. Recenti ipotesi propendono per un uso militare del lungo corridoio, che doveva proteggere le mura alla base dell'acropoli.
Ai piedi dell'acropoli si stende la città bassa, dove è stato scavato solo il Foro Romano. Le mura risalgono al VI secolo a.C., quando era tiranno Aristodemo.

domenica 19 luglio 2009

La caserma dei vigili del fuoco più antica del mondo

Piantina dell'excubitorium della VII coorte dei vigili in Trastevere.


L'excubitorium era la sede distaccata della VII coorte dei Vigili, incaricati di sorvegliare, soprattutto in funzione antincendio, la zona di Trastevere.
Il termine deriva dal latino ex cubare, dormire fuori, vegliare, fare la guardia. La scoperta di questa caserma avvenne negli anni 1865-1866, durante gli scavi intrapresi per recuperare delle opere d'arte in riferimento ad un muro che si trovava in una casa di fronte a piazza S. Crisogono.
L'edificio venne progressivamente abbandonato, dopo lo scavo, e questo provocò danni alle opere murarie ed all'apparato decorativo, composto da uno splendido mosaico pavimentale in tessere bianche e nere e ad affreschi che ornavano i muri della sala principale e dell'edicola del dio protettore della caserma. Una sistemazione, per quanto insufficiente, fu data solo nel 1966, quando si coprì l'edificio, finallora rimasto praticamente esposto alle intemperie, con una copertura di cemento.
Originariamente, nel luogo dove oggi è possibile ammirare l'excubitorium della VII coorte, vi era un insula di II secolo a.C., che fu poi riadattata, sotto Augusto, a caserma, nell'ambito della risistemazione dei quartieri di Roma, racchiusi in Regiones. Dapprincipio, probabilmente, la caserma principale dei vigiles della VII coorte, che sorvegliavano la Regio XIV Trans Tiberim e la Regio IX Circus Flaminius doveva trovarsi in Campo Marzio.
Le Militia Vigilum Regime, divenute in seguito Cohortes Vigilum, furono istituite nel 6 d.C. da Augusto che pose a loro capo un prefetto. Esse comprendevano ben 7000 uomini che assicuravano la vigilanza notturna delle strade, svolgendo compiti di pubblica sicurezza oltre che di prevenzione dei numerosi incendi che, spesso, flagellavano la Città. Il motto di questi vigiles era "Ubi dolor ibi vigiles". Essi erano arruolati tra i liberti che, dopo sei anni di servizio, ridotti poi a tre, potevano ottenere la cittadinanza romana. I vigiles si dividevano in VII coorti, ciascuna di 1000-1200 uomini, suddivise in sette centurie di 100-160 unità. Ogni coorte era comandata da un tribanus, così come a capo delle centurie vi era un centurione affiancato da adiutores centurionis. In ciascuno reparto, poi, vi erano soldati specializzati per le varie mansioni del corpo: acquarii, addetti alle pompe ed alle prese d'acqua, balneari, incaricati della vigilanza nei bagni pubblici, horreari, sorveglianti nei magazzini, carcerarii, carcerieri e quaestionarii, impiegati nell'interrogatorio dei prigionieri.
I Vigiles erano dotati di pertiche, scale e corde (funes), nonchè di centones, grandi coperte con le quali, una volta bagnate, si cercava di isolare e soffocare le fiamme. Per l'adduzione dell'acqua si utilizzavano pompe a sifone (siphones) che attingevano dalle tubature. Altre volte si ricorreva al passaggio di recipienti (hamae) o secchi di giunchi (vasa spartea) di mano in mano. Da questo l'epiteto dispregiativo di sparteoli che il popolo aveva affibiato ai vigili.
L'excubitorium della VII coorte dei Vigili si trova a ben otto metri di profondità rispetto all'attuale piano di calpestìo. E' composto da una grande aula pavimentata, in origine da un mosaico con tessere in bianco e nero. Al centro vi è quel che rimane di un bacino di fontana esagonale, a lati concavi, a sud del quale si apre un'esedra rettangolare, con ingresso ad arco. All'interno si conservano ancora parti degli affreschi originari. La funzione di questo vano è quello di larario, cappella del Genio tutelare dei vigiles, il Genio Excubitori. Del larario sopravvive solo il timpano corredato da cornici. Intorno si aprono altri ambienti, alcuni di incerta destinazione. Altri, invece, sono stati correttamente interpretati come un bagno ed un magazzino (con un dolio interrato). La stanza alla quale è stata attribuita la funzione di bagno è dotata di un chiusino proprio al centro e da pavimentazione ad opus spicatum, solitamente utilizzato per gli ambienti di servizio a cielo aperto, proprio per la resistenza e l'impermeabilità.
Tra i graffiti molti erano saluti agli imperatori e ringraziamenti agli dei, altri indicano il nome ed il numero della coorte, i nomi ed i gradi dei vigili. Ricorre spesso il nome di sebaciaria e di milites sebaciarii, collegata al termine sebum, cioè sego, grasso solido di bue o di montone utilizzato per alimentare le torce per le ronde notturne. I graffiti risalgono tutti ad un arco temporale compreso tra il 215 ed il 245 d.C. e sono stati lasciati dai vigiles durante i momenti di riposo.
Durante lo scavo sono stati recuperati anche diversi ex voto fittili raffiguranti tutti il busto di una donna con il capo velato e con la mitra. Si è recuperato anche un busto attribuito ad Alessandro Severo, ora in Vaticano, mentre nei pressi della caserma il Comune di Roma ha individuato ed acquistato una grande fiaccola in bronzo scomponibile in quattro parti, chiusa, in alto, da un contenitore per l'olio a forma di fiamma.

sabato 18 luglio 2009

I Piceni di Mantelica


Fino al 13 settembre 2009 il Museo Civico Archeologico di Bologna ospiterà la mostra "Potere e Splendore. Gli antichi Piceni a Mantelica", che la Soprintendenza Archeologica delle Marche ha organizzato con il Museo Civico Archeologico di Bologna e con il Comune di Mantelica.
La mostra raccoglie le scoperte recenti effettuate nella necropoli della comunità picena di Mantelica, in provincia di Macerata, risalenti al VII secolo a.C.
I Piceni comparvero in Italia verso la seconda metà del X secolo a.C., durante l'Età del Ferro, nel tratto della costiera adriatica tra i fiumi Foglia e Pescara. Il nome Piceni è una convenzione suggerita dalle fonti scritte che parlano di un "ager Picenus" e di "Picentes", ma anche dal fatto che proprio nella V Regio Augusta (Picenum) si concentrano la maggior parte dei ritrovamenti.
Le recenti ricerche archeologiche hanno rilevano estese aree abitate e diverse necropoli, collocabili tra l'VIII ed il IV secolo a.C.. Le capanne intercettate aveva una pianta prevalentemente rettangolari ed un breve lato curvo. Le capanne maggiori superano i 20 metri di lungheza e sono delimitate da allineamenti di buche o trincee di fondazione dove venivano alloggiati i pali lignei per il sostegno delle pareti.
Ma sono state le necropoli a restituire la chiave di lettura della cultura picena. Le tombe più antiche, databili tra il IX e l'VIII secolo a.C., il defunto vi è deposto in una semplice fossa, in posizione rannicchiata su un fianco. Nelle tombe maschili prevalgono le armi, in quelle femminili gli oggetti di ornamento. Le tombe del VII secolo sono quelle sicuramente più ricche: il corredo è costituito da monili ed oggetti di ornamento in grande profusione e ricchezza, accompagnati da carri, vasellame di bronzo e di terracotta, armi, utensili per il banchetto e per il simposio, metalli preziosi ed oggetti realizzati con materiali esotici quali gusci di uova di struzzo, avoro ed ambra.

Localizzazione: Museo Civico Archeologico - Bologna, via dell'Archiginnasio, 2
Orari: martedì-venerdì: dalle ore 9.00 alle ore 15.00; sabato, domenica e festivi dalle ore 10.00 alle ore 18.30
Biglietti: € 6,00
Info: antichi.piceni@comune.bologna.it - Tel. 051.2757244 (dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 12.30)

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