sabato 20 maggio 2023

Croazia, una strada di 7000 anni fa in fondo al mare

Croazia, le tracce dell'antica strada
(Foto: archeomedia.net)
Nel corso delle ricerche condotte da un team di archeologi in una località sommersa a Soline, sull'isola di Curzola (Korula), in Croazia, è stato scoperto il segmento di un'antichissima strada, la cui costruzione viene datata dagli esperti a circa 7000 anni fa, ossia 5000 anni prima che questa regione adriatica passasse ad essere amministrata dall'impero romano.
A diffondere la notizia è stato l'Ateneo di Zara, il cui gruppo di esperti del Dipartimento di archeologia si è reso protagonista del rinvenimento. La strada, composta da lastre di pietra accuratamente sistemate, giaceva da millenni ricoperta da uno strato di melma che la rendeva invisibile ai bagnanti.
La scoperta ha consentito agli archeologi di accertare che il plurimillenario percorso allacciava l'abitato neolitico di Soline alla vicina isola di Curzola. Il villaggio si trovava su un isolotto artificiale, creato dalla mano dell'uomo e a sua volta unito a Curzola grazie appunto a questa strada, di larghezza di circa quattro metri.
Attraverso il metodo della datazione al radiocarbonio, effettuata su un pezzo di legno del villaggio - legno ritrovato in una precedente campagna archeologica - è stato poi appurato che l'insediamento umano era stato costruito circa nel 4900 a.C.: da qui la conclusione che la strada, o quanto ne resta, ha un'età di quasi settemila anni.
Contemporaneamente, come ha reso noto il responsabile della squadra di ricerche, Igor Borzic, dall'altro capo dell'isola dalmata si stanno compiendo scavi nelle vicinanze dell'insenatura di Gradina, situata a poca distanza dalla località di Vallegrande (Vela Luka). 
L'isola di Curzola non è nuova a ritrovamenti archeologici, avendo una storia ricchissima, un passato di dominazioni varie, tra illiri, greci e romani, il che permette agli archeologi di avere sempre numerose opportunità.

Fonte:
archeomedia.net

Sardegna, scoperte archeologiche nel proto-nuraghe di Gesturi

Sardegna, il proto-nuraghe ed il coltello ritrovati nel
territorio di Gesturi (Foto: Comune di Gesturi)

Il comune sardo di Gesturi ha annunciato il ritrovamento di un lungo pugnale in bronzo. La scoperta è avvenuta durante lavori di valorizzazione e messa in sicurezza del proto-nuraghe Bruncu Maduli, che ha previsto anche scavi e restauri archeologici.
Il complesso del proto-nuraghe si affaccia sul ciglio sudest della Giara, altopiano basaltico al confine tra le regioni della Marmilla, del Sarcidano e dell'Arborea. L'edificio principale riveste una notevole importanza sul piano architettonico poiché rientra nella tipologia dei protonuraghi o nuraghi "a corridoio".
Si tratta di una poderosa costruzione in opera ciclopica di blocchi irregolari di basalto. Ha planimetria irregolare, quasi reniforme (m 3,80 x m 16,50) e si conserva in elevato per circa m 4,50. L'ingresso (larghezza m 1,00 e altezza m 1,70) è volto a sud-sudovest ed immette su una scala sulla quale si affaccia, sulla destra, una nicchia.
L'edificio, di difficile lettura, è stato datato per lungo tempo al Calcolitico e al Bronzo antico, per la presenza di ceramiche scanalate attribuite alla cultura di Monte Claro e per la datazione al C14 di alcuni reperti organici rinvenuti all'interno di una camera (1820 a.C., con oscillazione di 250 anni). Studi più recenti propongono una datazione al Bronzo medio (XV-XIV secolo a.C.) e danno una nuova interpretazione architettonica dell'edificio: in particolare i due ambienti principali non sarebbero capanne con coperture straminee a vista sul terrazzo, come ipotizzato dal Lilliu, ma camere interne con volte a filari a sezione tronco-ogivale.
A circa 100 m ad ovest del nuraghe si estende un villaggio di capanne. Queste sono raccolte in isolati, raccordate tra loro e disposte intorno a cortili comuni centrali. I vani hanno forma circolare e pavimenti lastricati e acciottolati; sono presenti focolari, nicchie, sedili e ripiani alle pareti. Le capanne hanno restituito materiali del Bronzo finale (XIII-X secolo a.C.).

Fonte:
stilearte.it
 


Pompei, trovati due scheletri nell'Insula dei Casti Amanti

Pompei, uno degli scheletri dell'Insula dei Casti Amanti
(Foto: mediterraneo.it)

Subbuglio, confusione, tentativi di fuga e nel mentre terremoto, lapilli, correnti turbolente di cenere vulcanica e gas caldi. Fu l'inferno dell'eruzione del 79 d.C. quello in cui si trovarono gli abitanti dell'antica città di Pompei, tra cui le ultime due vittime, di cui sono stati rinvenuti gli scheletri durante uno scavo nell'Insula dei Casti Amanti.
Vittime di un terremoto che ha accompagnato l'eruzione, ritrovate sotto il crollo di un muro avvenuto tra la fase finale di sedimentazione dei lapilli e prima dell'arrivo delle correnti piroclastiche che hanno definitivamente sepolto Pompei e che costituiscono la testimonianza sempre più chiara che, durante l'eruzione, non furono solo i crolli associati all'accumulo dei lapilli o l'impatto delle correnti piroclastiche gli unici pericoli per la vita degli abitanti dell'antica Pompei, come gli scavi degli ultimi decenni stanno sempre più investigando.
L'eruzione del 79 d.C. inizia nella mattinata di un giorno autunnale, ma solo intorno alle 13.00 comincia la cosiddetta fase "Pliniana" durante la quale si forma una colonna eruttiva, alta decine di chilometri, dalla quale cadono pomici. Questa fase è seguita da una serie di correnti piroclastiche che sedimentano depositi di cenere e lapilli. I fenomeni vulcanici uccisero chiunque si fosse ancora rifugiato nell'antica città di Pompei, togliendo la vita ad almeno il 15-20% della popolazione, secondo le stime degli archeologi. Tra le cause di morte anche il crollo degli edifici, in alcuni casi dovuto a terremoti che accompagnarono l'eruzione, si rivelò una minaccia letale.
Gli scheletri sono stati ritrovati nel corso del cantiere di messa in sicurezza, rifacimento delle coperture e riprofilatura dei fronti di scavo dell'Insula dei Casti Amanti, che sta prevedendo anche degli interventi di scavo in alcuni ambienti. Giacevano riversi su un lato, in un ambiente di servizio, al tempo in dismissione per probabili interventi di riparazione o ristrutturazione in corso nella casa, nella quale si erano rifugiati in cerca di protezione.
I dati delle prime analisi antropologiche sul campo, indicano che entrambi gli individui sono morti verosimilmente a causa di traumi multipli causati dal crollo di parti dell'edificio. Si trattava probabilmente di due individui di sesso maschile di almeno 55 anni. Durante la rimozione delle vertebre cervicali e del cranio di uno dei due scheletri, sono emerse tracce di materiale organico, verosimilmente un involto di stoffa. All'interno sono state trovate, oltre a cinque elementi in pasta vitrea identificabili come vaghi di collana, sei monete. Due denari in argento: un denario repubblicano databile alla metà del II secolo a.C. e un altro, più recente, da riferire alle produzioni di Vespasiano. Le restanti monete in bronzo (due sesterzi, un asse e un quadrante), erano anch'esse coniate durante il principato di Vespasiano e pertanto di recente conio.
Nella stanza in cui giacevano i corpi sono emersi anche alcuni oggetti, quali un'anfora verticale appoggiata alla parete nell'angolo vicino a uno dei corpi e una collezione di vasi, ciotole e brocche accatastata contro la parete di fondo. La cosa più impressionante è l'evidenza dei danni subiti da due pareti, probabilmente a causa dei terremoti che hanno accompagnato l'eruzione. Parte della parete sud della stanza è crollata colpendo uno degli uomini, il cui braccio alzato rimanda forse alla tragica immagine di un vano tentativo di proteggersi dalla caduta della muratura. Le condizioni della parete ovest, invece, dimostrano la forza drammatica dei terremoti contestuali all'eruzione: l'intera sezione superiore si è staccata ed è caduta nella stanza, travolgendo e seppellendo l'altro individuo.
L'ambiente adiacente ospita un bancone da cucina in muratura, temporaneamente fuori uso nel 79 d.C.: sulla sua superficie si trova, infatti, un mucchio di calce in polvere in attesa di essere impiegata in attività edilizie, il che suggerisce che al momento dell'eruzione si stavano effettuando delle riparazioni nelle vicinanze. Lungo la parete della cucina si trova una serie di anfore cretesi, originariamente utilizzate per il trasporto del vino. Sopra il bancone della cucina, le tracce di un santuario domestico sotto forma di un affresco che sembra raffigurare i lares della casa e un vaso di ceramica parzialmente incassato nel muro, che potrebbe essere stato utilizzato come ricettacolo di offerte religiose. Accanto alla cucine, inoltre, una stanza lunga e stretta con una latrina, il cui contenuto sarebbe defluito in un canale di scolo sotto la strada.

Fonte:
mediterraneoantico.it




Lazio, rinvenuta una misteriosa statuina neolitica in una grotta del reatino

Lazio, la misteriosa statuetta trovata in una
grotta (Foto: stilearte.it)

Una donna, una divinità, una bambola? Chi raffigura la statuina d'argilla rinvenuta negli scavi che la Sapienza sta conducendo dal 2021 in una grotta a Poggio Nativo, in Sabina? Questo eccezionale ritrovamento è avvenuto durante l'ultima campagna di scavo.
Si tratta di una figurina in argilla risalente a circa 7000 anni fa, cioè a un periodo, il Neolitico, in cui la penisola era abitata dalle prime comunità agricole. Oggetti di questo tipo sono molto rari in Italia e pressoché assenti nelle regioni del versante tirrenico. 
Poggio Nativo è un comune della provincia di Rieti, posto ad un'altitudine di 500 metri circa sul livello del mare. La grotta di Battifratta si apre su un costone di travertino, lungo la valle di un piccolo affluente del fiume Farfa. L'attuale ingresso della grotta corrisponde allo sbocco di un'antica sorgente, probabilmente a regime stagionale, che costituiva un punto di attrazione per le comunità umane del passato.
La statuina è attualmente oggetto di uno studio multidisciplinare, coordinato dal Dipartimento di Scienze dell'Antichità della Sapienza, sugli aspetti tecnologici e stilisti per conoscere le modalità di realizzazione del manufatto e per capire se rispecchia modelli iconografici riconducibili a tradizioni culturali precise. I tratti del volto sono accennati in modo schematico ma maggiore cura pare sia stata posta nella rappresentazione dell'acconciatura e delle decorazioni del corpo. Questo prezioso reperto aggiungerà molte nuove informazioni su quello che si sta rivelando essere un sito chiave nella preistoria del Lazio e dell'Italia centrale.
"La presenza di ceramica, industria litica, reperti faunistici e botanici su più livelli stratificati - spiega Cecilia Conati della Sapienza - rivela l'utilizzo della sorgente e della grotta non soltanto per l'approvvigionamento di acqua, ma anche per scopi sepolcrali e rituali, come testimoniano i resti scheletrici umani rinvenuti e la statuina in argilla".
Le ricerche alla grotta di Battifratta sono condotte nell'ambito di un più ampio progetto di ricerca sul popolamento preistorico della valle del Farfa e territori limitrofi finanziato dal fondo Grandi Scavi Sapienza. 

Fonte:
stilearte.it


Ricostruito il carro nuziale trovato a Pompei nel 2019

Pompei, la ricostruzione del carro nuziale
(Foto: Parco Archeologico di Pompei)

Nel 2019 a Civita Giuliana, località a nord di Pompei, in una villa suburbana già in parte individuata e indagata agli inizi del '900 e tornata all'attenzione per gli scavi clandestini condotti da tombaroli, si avvia un'attività di scavo senza precedenti per la sua genesi e per le sue straordinarie scoperte. Tra queste un carro cerimoniale con il lussuoso rivestimento in bronzo e le decorazioni in argento, in ottimo stato di conservazione.
Oggi il carro ricostruito nelle sue parti mancanti - che lasciarono impronte nella cenere e furono recuperate grazie alla tecnica del calco - è finalmente percepibile nelle sue reali forme e dimensioni e sarà fruibile nell'ambito della mostra "L'istante e l'eternità. Tra noi e gli Antichi", in programma dal 4 maggio al 30 luglio 2023 al Museo Nazionale Romano
"La scoperta all'epoca dello scavo fu eccezionale per le informazioni che rivelava per la tipologia di veicoli di trasporto, di tipo cerimoniale, che non trovava confronti in Italia con simili reperti. Un carro simile era stato ritrovato anni fa in Grecia, nei luoghi dell'antica Tracia, in una tomba appartenuta a una famiglia di alto rango, ma lasciato in situ. Questa è, invece, la prima volta al mondo che un pilentum viene ricostruito e studiato". E' quanto è stato dichiarato dal Direttore generale dei Musei, Massimo Osanna, sotto la cui Direzione del Parco di Pompei nel 2018 si sono avviate tutte le attività e la firma del protocollo d'Intesa con la Procura.
"Il carro, oltre al suo valore scientifico, costituisce il simbolo di un processo virtuoso di legalità, tutela e valorizzazione non solo dei singoli reperti, ma di tutto il territorio vesuviano. - Aggiunge Gabriel Zuchtriegel, attuale Direttore del Parco. - Quell'attività ha dato avvio ad operazioni di esproprio di strutture illecite, per consentire di proseguire l'indagine e ha visto più enti collaborare per un intento univoco".

Fonte:
stilearte.it

domenica 14 maggio 2023

Gli antichi scribi usavano righe per scrivere...

Analisi sui papiri di Ercolano hanno permesso di
individuare griglie per scrivere (Foto: Cnr)

Anche gli antichi scribi utilizzavano diversi tipi di griglie per delimitare lo specchio di scrittura sui papiri. La prima conferma scientifica di questa consuetudine, di cui gli autori classici ci avevano tramandato notizia, arriva dalla ricerca condotta da Università di Pisa, Cnr e Infn, coordinati dal Professor Graziano Ranocchia del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell'Università di Pisa, nell'ambito di un progetto dedicato all'analisi con tecniche avanzate dei papiri carbonizzati di Ercolano, custoditi presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli.
Frutto della collaborazione di fisici, chimici e papirologi, la pubblicazione dei risultati ottenuti dal progetto ha evidenziato per la prima volta la presenza di vari tipi di griglie nei rotoli librari greci dell'antichità. Era già noto agli autori classici che gli scribi antichi utilizzavano a questo scopo un righello e una rondella di piombo, la quale strofinata sulla superficie del papiro lasciava un'esile traccia appena visibile che serviva a tracciare i confini dello specchio di scrittura. Mai finora ne era stata evinta traccia nei numerosissimi papiri a noi giunti dall'antichità, al punto che i moderni studiosi si sono arrovellati per decenni sul significato di tali testimonianze.
Gli esperimenti di marco-fluorescenza a raggi X a scansione compiuti su papiri ercolanesi della Biblioteca Nazionale di Napoli dal team del Dottor Paolo Romano, dell'Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del Cnr (Cnr-Ispc) di Catania, e nei laboratori Nazionali del Sud dell'INFN, Istituto di Fisica Nucleare, hanno dato la prova sperimentale della correttezza di queste informazioni.
Grazie alla strumentazione portatile sviluppata in Cnr-Ispc con il progetto MUR PON IR SHINE, sono stati rivelati per la prima volta diversi tipi di griglie costituite da linee di piombo disposte in senso ortogonale al fine di delimitare spazi intercolonnari, colonne, intercolunni e singole linee di scrittura.
"Si tratta di una scoperta sensazionale per la papirologia", ha affermato il Professor Graziano Ranocchia. "Ora abbiamo conferma di quanto prima potevamo solo immaginare. E' inoltre finalmente dimostrato che la sistematica inclinazione delle colonne di scrittura nei rotoli letterari, la cosiddetta Legge di Maas, era un fatto estetico intenzionale degli scribi antichi e non un segno di mancata accuratezza grafica, come è stato da alcuni ipotizzato".

Fonte:
finestresullarte.com

Armenia, antichi forni ed antica farina...

Armenia, residui di farina dallo scavo di Metsamor
(Foto: Patrick Okrajek)

Metsamor era un'antica città fortificata che custodisce le prime testimonianze di occupazione risalenti al periodo Calcolitico (IV millennio a.C.). Nella tarda Età del Bronzo e nella prima Età del Ferro, l'insediamento divenne un importante centro religioso ed economico, costituito da un grande complesso religioso, un palazzo ed una cittadella fortificata.
Sebbene si sia a lungo creduto che la città fosse stata distrutta dagli uratiani durante l'Età del Ferro, ricerche più recenti suggeriscono che la distruzione sia stata causata da nomadi sciti o cimmeri. La missione archeologica è un progetto congiunto guidato dall'Università di Varsavia e dal Dipartimento di Antichità e Protezione del Patrimonio Nazionale dell'Armenia.
Gli scavi hanno portato alla luce un edificio di 3000 anni sostenuto da colonne utilizzato dall'XI fino al IX secolo a.C. L'edificio è crollato a causa di un incendio, lasciando al suo posto quelli che si è creduto fossero strati di cenere spessi fino a 36 centimetri. Utilizzando, però, la flottazione, si è scoperto che la cenere era, in realtà, farina.
Il Professor Krzysztof Jakubiak della Facoltà di Archeologia dell'Università di Varsavia, ha dichiarato: "E' una delle più antiche strutture conosciute di questo tipo del Caucaso meridionale e dell'Armenia orientale. I suoi resti si sono conservati così bene grazie ad un antico incendio".
I ricercatori stimano che l'edificio potesse immagazzinare fino a 3,5 tonnellate di farina. Era costituito da due file di colonne di legno che sostenevano un tetto di canne con travi di legno. Sono sopravvissuti solo i basamenti in pietra delle colonne e frammenti bruciati ben conservati di travi. Gli archeologi pensano che l'edificio avesse inizialmente una funzione di rappresentanza, ma venne in seguito convertito alla produzione di pane, come è testimoniato dalla presenza di diverse fornaci.

Fonte:
PAP attraverso heritagedaily.com

sabato 13 maggio 2023

Trieste, tracce dell'antica Tergeste

Trieste, i lavori alla rete idrica durante i quali sono emerse
le evidenze dell'antica Tergeste (Foto: archeomedia.net)
Nuove evidenze della città antica sono emerse a Trieste in piazza della Repubblica, in corrispondenza di via Mazzini, durante i lavori condotti per la riparazione di una condotta della rete idrica.
A seguito dell'emergenza, la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio ha coordinato le verifiche archeologiche necessarie per le quali è stata incaricata la ditta archeologica Archeotest Srl che ha svolto il controllo dello scavo e gli opportuni approfondimenti stratigrafici.
I lavori hanno permesso di realizzare un'investigazione archeologica mirata, senza incidere sui tempi tecnici necessari all'intervento di messa in sicurezza e di ripristino dell'area. Le indagini hanno rivelato la presenza di strutture e materiali archeologici, tra i quali frammenti di intonaco dipinto, di anfore, ceramica sigillata e laterizi databili in via preliminare al IV-V secolo d.C. Il livello individuato, di frequentazione tardoantica o successiva, ricopre uno strato di distruzione con tracce della precedente occupazione di età romana.
Questi ritrovamenti possono essere messi in relazione con quanto emerso all'inizio del Novecento tra via Santa Caterina e il "Palazzo della R.A.S.": tracce di una strada lastricata in arenaria, resti di un edificio di culto dedicato alla Bona Dea e di abitazioni con pavimenti a mosaico e cocciopesto, tutti riferibili all'età romana.
Le verifiche archeologiche condotte in questi giorni in via Mazzini, seppure in un cantiere di difficile gestione e in un contesto stratigrafico fortemente rimaneggiato da precedenti lavori per la realizzazione di reti di servizi e altre infrastrutture, permettono dunque di aggiungere un importante tassello nella comprensione della Tergeste antica. I dati emersi, infatti, confermano la presenza di una stratigrafia archeologica ancora ben conservata pertinente all'insediamento di età romana, tardoantica e medioevale in aree dove, a seguito dei lavori di urbanizzazione della città moderna, susseguitisi a partire dall'Ottocento, si pensava perduta ogni traccia del passato.

Fonte:
archeomedia.net


Egitto, Buddha alla corte dei faraoni

Egitto, la statua di Buddha
rinvenuta nel Mar Rosso
(Foto: mediterraneoantico.it)
Certamente una scoperta inattesa ed incredibile, quella annunciata dalla missione archeologica congiunta polacco-americana. Durante gli scavi nell'antico tempio della città di Berenice, sul Mar Rosso, è stata rinvenuta una statua di Buddha risalente al II secolo a.C.
Gli scavi nella città, fondata nel 275 a.C. da Tolomeo II Filadelfo in onore della madre Berenice I, proseguono dal 1994, sotto la supervisione del Consiglio Supremo delle Antichità Egiziane.
La statua di Buddha permette di far luce sui rapporti tra Egitto ed India, dovuti alla posizione privilegiata che l'Egitto ha mantenuto in età romana: si trovava, infatti, al centro delle rotte commerciali che collegavano Roma alle diverse parti del mondo antico, tra cui, appunto, l'India.
La vocazione commerciale dell'Egitto romano è testimoniata anche dalla presenza di innumerevoli porti lungo il Mar Rosso, oltre a Berenice. Nella città, in particolare, arrivavano navi cariche di prodotti quali pepe, pietre semipreziose, tessuti, avorio e spezie, che poi venivano distribuiti in tutto l'Egitto a mezzo di carovane di cammelli che attraversavano il deserto, oppure via mare fino ad Alessandria e da lì nel resto dell'Impero Romano.
Secondo i primi studi effettuati da Mariusz Gwiazda, responsabile della missione dalla parte polacca, si pensa che la statua, scolpita in pietra, potrebbe provenire dalla zona a sud di Istanbul oppure essere stata scolpita direttamente a Berenice e dedicata al più importante mercante indiano del tempo. E' alta 71 centimetri e raffigura Buddha in piedi mentre tiene parte della sua veste nella mano sinistra, porta un'aureola con raggi di sole rappresentante la sua mente radiosa ed è vicino ad un fiore di loto.
Inoltre è stata rinvenuta, durante i lavori di scavo nei pressi del tempio di Berenice, un'iscrizione in lingua hindi, ovvero in sanscrito, risalente all'imperatore Marco Giulio Severo Filippo, originario dell'attuale Siria e noto come Filippo l'Arabo (244-249 d.C.), e sembra che tale iscrizione non sia della stessa data della statua, la quale ultima è probabilmente molto più antica, in quanto altre iscrizioni nello stesso tempio erano in greco, risalenti agli inizi del I secolo d.C. Sono state invenute anche due monete di II secolo d.C. provenienti dal regno indiano medio di Satavahana.

Fonti:
mediterraneoantico.it
finestresullarte.info


Petra, il mistero della donazione della città ai romani: fu costrizione?

Giordania, una veduta dell'antica città di Petra
Petra fu per secoli la capitale di un florido regno di mercanti, i Nabatei, popoli di origine incerta che occuparono la regione a cavallo tra la Penisola Arabica e la regione palestinese sfruttando la loro posizione e la loro profonda conoscenza del deserto per ricoprire il ruolo di cerniera tra i commerci mediterranei e orientale, mettendo in comunicazione con le loro piste carovaniere i mercanti da Roma all'india.
I Nabatei costruirono Petra nel I secolo a.C. e ne fecero la loro capitale. Alla morte del loro ultimo sovrano Rabbel II Soter, nel 106 d.C., il ricco regno nabateo venne pacificamente inglobato dall'Impero Romano, che già ne controllava tutte le regioni circostanti. L'annessione, che avvenne sotto l'imperatore Traiano che ribattezzò la regione Arabia Petraea, avvenne in maniera del tutto simile a quanto già accaduto in passato con altri ricchi ma piccoli principati, attraverso un lascito testamentario del sovrano morente che, per salvaguardare l'integrità del suo popolo, lo rimetteva alla potenza straniera in maniera spontanea e pacifica. Almeno così raccontano le fonti romane.
La cartina elaborata dai ricercatori: in azzurro i tre possibili
accampamenti individuati (Credits to Antiquity)
Una recente scoperta della Scuola di Archeologia dell'Università di Oxford, avvenuta sotto l'egida dei Professori Andrew Wilson e Michael Fradley, ha aperto il dibattito circa le reali modalità di annessione del piccolo regno all'impero. Infatti, sfruttando le immagini satellitari open-source messe a disposizione da Google Earth, i ricercatori hanno individuato tre strutture, poste in linea retta tra gli insediamenti di Bayir e Dumat al-Jandal, che sono stati interpretati come accampamenti temporanei dell'esercito romano. Le tre strutture, regolarmente quadrangolari e circondate da muretti di pietre e fossati, distano l'una dall'altra dai 37 ai 44 chilometri ed hanno dimensioni differenti: la più occidentale (vicina all'area già sotto il controllo romano) è grande il doppio rispetto a quella più orientale e a quella di mezzo. Essendo stati appena scoperti, i siti non sono ancora stati oggetto di indagini archeologiche che ne determinino la datazione e reale natura. Tuttavia il Dottor Fradley sembra molto sicuro di ciò che ha individuato.
Petra, veduta di uno dei tre possibili castra romani
(Credits to Google Earth)
Secondo il Dottor Fradley le strutture sono dei castra romana, estremamente riconoscibili per via della loro forma "a carta da gioco", con ingressi speculari su ciascun lato, da datare proprio all'epoca dell'annessione del regno nabateo all'Impero (II secolo d.C.). Più in là si spinge, nelle ipotesi, il Dottor Wilson: secondo lui gli accampamenti sarebbero serviti per una rapida incursione verso l'insediamento di Dumat al-Jandal, forse a scopo deterrente o forse per sedare una vera e propria rivolta. La distanza tra gli accampamenti, inoltre, suggerirebbe che ad erigerli sia stata non una legione appiedata ma una forza di cavalleria, probabilmente un reparto di equites su cammelli (ampiamente in uso, nell'esercito romano, in quest'area). L'incursione, avvenuta in linea retta e verosimilmente in tre giorni, avrebbe inoltre sfruttato una via di accesso secondaria al sito, evitando la più nota e battuta pista del Wadi Sirhan, aggiungendo all'attacco romano l'elemento sorpresa. Resta da spiegare come mai l'accampamento occidentale sia grande il doppio degli altri due: le forze romane si divisero? Operarono una manovra a tenaglia, o una parte rimase a presidiare il forte occidentale?
Il silenzio delle fonti romane circa una possibile campagna militare in Arabia Petraea aggiunge ulteriore fascino all'indagine di questi antichi insediamenti nel deserto. Lo stesso Professor Wilson ammonisce a non spingersi troppo in avanti con le ipotesi, almeno finché non saranno state condotte indagini archeologiche.

Fonte:
mediterraneoantico.it


Egitto, area di Meir, la signora delle conchiglie...

Egitto, perline e grani di collana da una 
tomba femminile di Meir
(Foto: Ministero del Turismo e delle 
Antichità Egiziane)

Il Ministero del Turismo e delle Antichità Egiziane ha annunciato la scoperta di edifici e sepolture nell'area di Meir, relativa alla città di el-Quseyya (egiziana Kis, greca Kusae), nel governatorato di Asyiut, Medio Egitto. Le più antiche attestazioni del sito archeologico risalgono al Medio Regno.
Lo scavo ha restituito, nella sua parte più recente, ovvero sui livelli superiori dell'indagine archeologica, resti di edifici di epoca copta, relativi ad un impianto monastico. Sono state messe in luce le stanze utilizzate come celle dai monaci, stanze che si aprivano su una corte, oltre ad un ambiente usato come focolare. Altri locali erano probabilmente adibiti a biblioteca, come testimonierebbero le mensole realizzate in argilla e paglia sulle quali andavano poggiati i manoscritti. Non è, però, da escludere che potessero essere utilizzati anche per conservare gli alimenti. Di particolare importanza è stato il rinvenimento di un'iscrizione in lingua copta di otto righe, iscritta con inchiostro nero su una parete, la quale reca preghiere e suppliche a Dio.
Nei livelli inferiori, quindi più antichi, sono state rinvenute delle tombe di Epoca Tarda, purtroppo in cattivo stato di conservazione. Queste hanno restituito resti di sarcofagi in legno, scheletri e alcune parti di corredi funebri. Tra di esse la sepoltura di una figura femminile, il cui sarcofago è danneggiato eccetto per il viso e frammenti delle spalle e del busto. Insieme alla donna sono stati sepolti vaghi, conchiglie, perline in faience, specchietti e vasellame.

Fonte:
Ministero del Turismo e delle Antichità Egiziane via mediterraneoantico.it)



Perù, trovati i resti di un adolescente sepolto in un pozzo

Perù, i resti dell'adolescente ed il pozzo di sepoltura
(Foto: stilearte.it)

I resti di un adolescente precolombiano di 12-13 anni, vissuto circa 800 anni fa, sono stati trovati nel complesso archeologico di Cajamarquilla, a Lima, Perù, da un team di ricercatori guidati dall'archeologa dell'Università San Marcos, Yomira Huamàn.
I resti umani erano localizzati a più di due metri di profondità, in un'area funeraria dell'unità di scavo 8 del complesso archeologico. I resti corrisponderebbero ad un adolescente di circa 12-13 anni, di altezza approssimativa di un metro e trenta centimetri.
L'individuo, di cui per ora non si conosce il sesso, sarebbe vissuto nel tardo periodo intermedio (1200-1400 d.C.), probabilmente apparteneva alla cultura Lima o Yshma. La sabbia grossolana della zona con elevate componenti saline, avrebbe generato un naturale processo di mummificazione, che ha permesso a braccia, avambracci ed entrambe le gambe di trattenere resti di pelle mentre la testa, separata dal corpo, conserva ciocche di capelli. A livello della mascella si possono ancora vedere parte dei denti.
A detta degli archeologi che si stanno occupando dello scavo, si tratta della prima volta che un individuo viene scoperto all'interno di una matrice funeraria dell'unità 8, il cui accesso era coperto da un tapial (roccia fangosa). Tra gli elementi del corredo rinvenuti accanto al corpo vi era una boleadora (arma in pietra), un mate (piatto), un ago di rame, materiale tessile con il quale è stato avvolto il corpo, resti di mais e peperoncino.
I resti dell'adolescente sono stati portati in laboratorio dove saranno analizzati non solo per comprendere quale sia il sesso della persona sepolta, ma per raccogliere tutte le informazioni su cosa abbia fatto durante la sua breve vita, di quali malattie abbia sofferto e quale sia stata, se fosse possibile riconoscerla, la causa della sua morte.

Fonte:
stilearte.it

Scozia, individuate le fondamenta di un forte romano

Ricostruzione del forte romano rinvenuto in Scozia
(da mediterraneoantico.it)

Un team di archeologi dell'Historic Environment Scotland ha scoperto le fondazioni di una fortezza romana dietro una scuola nella periferia nordovest della città di Glasgow. L'edificio è una delle 41 strutture difensive facenti parte del Vallo Antonino, ovvero un sistema di fortificazioni costituito da terrapieni e legno che correva per circa 65 chilometri attraverso la Scozia.
Il Vallo Antonino venne fatto realizzare proprio dall'imperatore Antonino Pio nel 142 d.C., per emulare e superare il predecessore Adriano. Antonino Pio fece costruire il suo sistema di forti ben 160 chilometri a nord del precedente, demarcando il confine tra Inghilterra e Scozia. Ben vent'anni dopo la sua edificazione, però, il Vallo Antonino perse importanza e solidità, tanto che i soldati dovettero retrocedere al Vallo di Adriano.
Il forte, le cui fondamenta sono state appena rinvenute, era stato citato nel 1707, ma mai trovato, neppure nelle campagne di scavo degli anni '70 e '80 del secolo scorso. Grazie alla gradiometria, una tecnica geofisica non invasiva che misura piccolissime variazioni nel campo magnetico terrestre per individuare le strutture sotterranee, gli archeologi hanno localizzato le fondazioni sepolte del forte.
La struttura si caratterizzava per la presenza di due costruzioni in legno circondate da un bastione di pietra e torba alto fino a due metri e costruito lungo il lato sud del Vallo Antonino. Il bastione aveva due torri di legno sopra le porte, una delle quali, situata a nord, serviva per il transito di persone, animali e carri attraverso il vallo. Verosimilmente 12 soldati sarebbero stati di stanza nel forte e, dopo l'abbandono di quest'ultimo, sarebbero stati sostituiti da un nuovo distaccamento di soldati proveniente da un forte romano più grande a Duntocher, a circa 1,6 chilometri ad est.

Fonte:
mediterraneoantico.it

Segesta, alla ricerca degli assi viari dell'antica città

Sicilia, l'acropoli di Segesta (Foto: stilearte.it)

Torna alla luce l'antica strada lastricata che tagliava Segesta: nel corso del cantiere di scavo, condotto dall'Università di Ginevra all'interno del Parco Archeologico Regionale, sono stati scoperti diversi lastroni dell'antica strada che fu utilizzata fino al periodo medioevale.
Si tratta di un ritrovamento eccezionale che permetterà di riscrivere l'ampiezza dell'abitato di età ellenistica, ma già nell'orbita romana, in attività sino all'epoca medioevale, come denunciano importanti (e bellissimi) frammenti di ceramica. Ma gli archeologi sperano in altro: si intuisce che la strada prosegua ben oltre e potrebbe condurre ad un'agorà. Attorno e sopra, si è accumulato terriccio, facilmente asportabile. Siamo nella cosiddetta Casa del Navarca, nell'Acropoli sud dell'insediamento, in un sito dove si svolsero delle prime indagini nel 1992, ma lo scavo venne ricoperto. Nel 2021 si è ripreso a lavorare ed è venuta alla luce un'importante pavimentazione unica nel suo genere, una sorta di antico gioco illusorio a tessere romboidali a tre colori, "sectilia" marmorei (bianco, celeste e verde scuro) che raffigurano una sequenza concatenata di cubi dall'effetto tridimensionale. Ma anche due mensole in pietra a forma di prua e una scritta di benvenuto: sono stati questi ritrovamenti a far finora ipotizzare agli archeologi che questa fosse l'abitazione del navarca Eraclio, ricchissimo armatore citato da Cicerone nelle "Verrine".
La casa doveva essere una sorta di sito di avvistamento, come dimostra una torre medioevale che insiste sull'atrio a peristilio della dimora, visto che da quassù lo sguardo arriva fino all'odierna Castellammare. Ma è un'ipotesi di cui gli archeologi, la direttrice dello scavo Alessia Mistretta ed Emanuele Canzonieri, non sono convinti. Della Casa del Navarca non si accontentano perché il loro intento non è soltanto portare alla luce altri ambienti di questo complesso monumentale, ma soprattutto comprenderne la funzione.
Il ritrovamento delle prue, infatti, secondo gli studiosi, indica la probabile funzione soltanto di uno degli ambienti, che doveva essere molto grande e con pavimenti musivi di gran pregio: come ipotesi di lavoro sono, invece, orientati verso un archivio in cui venivano conservati documenti, rotte, mappe sul porto che Segesta possedeva, presieduto da un quaestor navalis di cui si conosce l'identità.
Nei decenni gli archeologi hanno scoperto i simboli più importanti, ma poco si sa della città che si è capito essere stata elegante, raffinata, con decorazioni, mosaici, affreschi, sculture. L'intento, adesso, è scoprire in quale direzione Segesta aveva i suoi assi viari.
L'obiettivo a lungo raggio entra nelle pieghe più profonde del Parco e mira a disegnare a Segesta un nuovo itinerario di visita sui simboli del sacro, che è insieme luoghi, rituali, religioni, tradizioni, architetture, a partire dalla moschea, dall'imponente tempio dorico e dalla piccola chiesa di San Leone, interessante sito stratificato di civiltà precedenti. San Leone nasce nel 1442 su una preesistente chiesa normanno-sveva di fine XII secolo che, a sua volta, sorge su un edificio di età ellenistica (II-I secolo a.C.) i cui mosaici, riportati alla vista in questi giorni dopo pesanti interventi di disboscamento, furono poi riutilizzati come pavimento delle due chiese posteriori.

Fonte:
stilearte.it

lunedì 1 maggio 2023

Ungheria, il medico romano ed i suoi strumenti del mestiere

Lo scheletro del medico ed i suoi "attrezzi" del mestiere
(Foto: Università di Eotvos Lorànd)

In un sito archeologico di Jaszberény, una città di circa 30.000 abitanti nel cuore dell'Ungheria centro orientale, è stata fatta una scoperta straordinaria: è stata rinvenuta una tomba di un medico romano morto circa 2000 anni fa, che sepolto con almeno una parte della sua attrezzatura professionale. Gli studiosi hanno trovato pinzette, aghi e bisturi in rame e argento finemente decorati, che avevano anche lame in acciaio intercambiabili.
Gli strumenti, conservati in uno stato eccezionale, erano riposti in due piccole casse di legno poste ai piedi dello scheletro, mentre all'altezza del ginocchio è stata trovata una pietra consumata. Anche quella, secondo gli esperti, faceva parate della sua attrezzatura da lavoro. Molto probabilmente veniva utilizzata per pestare erbe ed altri composti officinali, per mettere a punto i farmaci dell'epoca (ne sono stati trovati dei residui). Non si esclude che potesse essere utilizzata anche per affilare gli strumenti del mestiere. Si tratta di una scoperta talmente rara e affascinante che in letteratura scientifica è noto un solo precedente analogo dal punto di vista della completezza e della conservazione, rinvenuto a Pompei.
A scoprire la tomba del medico è stato un team di ricerca ungherese guidato da archeologi dell'Università Eotvos Lorànd e dall'Eotvos Lorànd Research Network che hanno collaborato a stretto contato con i colleghi del Museo Jàsz. Il sito archeologico è stato individuato grazie ad una tecnica di rilevazione con un magnetometro, che identifica le alterazioni/anomalie del campo magnetico terrestre suggerendo la presenza di elementi degni di interesse sotto il suolo.
Scavando in loco è stato trovato un sito funerario risalente al I secolo d.C. Si trattava di un complesso funerario romano e la tomba era quella di un medico la cui attrezzatura era stata collocata in due scatole di legno accanto ai suoi piedi. La tomba conteneva i resti di un uomo di età compresa tra i 50 ed i 60 anni senza segni di traumi o malattie. La tomba era quasi del tutto intatta. Conteneva pinzette, aghi e bisturi di alta qualità, adatti per operazioni chirurgiche oltre a resti di medicinali.
E' interessante notare che all'epoca questa regione dell'Ungheria era occupata da barbari (i Sarmati), talvolta alleati e altre volte nemici di Roma. E' verosimile che il medico, dopo l'addestramento in un centro dell'impero, sia giunto fino a questo luogo remoto per aiutare qualcuno del posto, probabilmente una figura di un certo rilievo sociale, forse un aristocratico o un comandante militare di alto grado. Ma non si esclude che potesse essere un medico assegnato a una legione di soldati romani.

Fonte:
fanpage.it


Frammento di una traduzione del Vangelo di Matteo scoperta in manoscritto della Biblioteca Vaticana

Il frammento della traduzione del Nuovo Testamento visibile
con la luce ultravioletta (Foto: Biblioteca Vaticana)

In un manoscritto della Biblioteca Vaticana si nascondeva il frammento di un'antica traduzione in siriano del Vangelo di Matteo: un amanuense ci aveva scritto sopra 1300 anni fa.
Il frammento scoperto è una delle più antiche traduzioni in Siriano del Vangelo, risalente al VI secolo d.C. Si trovava nascosta sotto tre strati di testo, dopo che il foglio di pergamena era stato riutilizzato da uno scriba.
Secondo Grigory Kessel, medievalista autore della scoperta, la traduzione venne fatta nel III secolo d.C. e ricopiata nel VI secolo d.C. Quella ritrovata sarebbe la versione ricopiata. "Non ci sono dubbi che il manoscritto risalga a non più tardi del VI secolo, probabilmente alla prima metà del sesto secolo", sottolinea Kessel. Il testo riguarda il capitolo 12 del Vangelo. "E' affascinante notare la variazione nell'uso di alcuni termini in questa versione rispetto all'originale greco", commenta Justin Brierley, scrittore ed autore radiofonico che si occupa di teologia e, in particolare, di Cristianesimo.
Finora si avevano solo tre manoscritti contenenti la traduzione in siriano antico dei Vangeli: una è conservata alla British Library di Londra, una al Monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai (Egitto) ed una è stata identificata di recente nell'ambito del Sinai Palimpsest Project. Questo frammento fa dunque parte di una quarta traduzione di cui non abbiamo traccia, ed è stato identificato grazie alla fotografia a ultravioletti, che lo ha rivelato tra le pagine di un manoscritto della Biblioteca Vaticana.
La prima versione di questa traduzione in siriano (quella del III secolo d.C.), che offre uno sguardo unico sulla prima fase della storia della trasmissione scritta dei Vangeli, è precedente ai manoscritti greci più antichi, compreso il famoso Codex Sinaiticus. La scoperta mette in luce anche l'importanza che giocano le nuove tecnologie nel rinvenimento di manoscritti antichi: se non avessimo avuto l'aiuto della fotografia a ultravioletti, il frammento sarebbe ancora sepolto tra le pergamene della Biblioteca Vaticana.

Fonte:
focus.it

Paestum, forse identificato l'antico tempio dedicato a Poseidone

Paestum, resti della struttura indentificata con il tempio
perduto di Poseidone (Foto: Parco Archeologico di
Paestum e Velia)

 In Campania, di recente, è avvenuto un ritrovamento straordinario. Nell'antica città di Paestum, nota anche con il suo nome greco di Poseidonia, sono stati trovati diversi indizi del fatto che le fondamenta del tempio dorico portate alla luce dagli archeologi nel 2019 potrebbero essere quelle del tempio di Poseidone, dio protettore della città. La localizzazione esatta del santuario, infatti, fino ad ora era sconosciuta e i ricercatori stanno lavorando per trovare conferme alla loro ipotesi, corroborata da statuette votive e resti architettonici all'interno dell'edificio.
Secondo la direttrice del Parco Archeologico di Paestum e Velia, Tiziana D'Angelo, è una scoperta "di quelle che capitano una volta nella vita a un archeologo, se è fortunato e rivela un mondo, che da' una svolta alla nostra attuale conoscenza della città antica".
L'antica Poseidonia, ribattezzata Paestum dopo la conquista romana, fu fondata dai coloni greci tra la fine del VII e l'inizio del VI secolo a.C. Il suo nome evocava il dio del mare, Poseidone, la divinità protettrice della città. Per questo motivo il tempio a lui dedicato, costruito intorno al 460 a.C., doveva essere l'edificio religioso più importante della città.
In un primo momento si era pensato che, vista la sua rilevanza, dovesse per forza essere l'edificio più importante e più grande del sito archeologico. E invece ricerche successive hanno scartato questa ipotesi: la struttura più rilevante del complesso è nota oggi come tempio di Hera o di Apollo. Rimaneva dunque ancora senza risposta la domanda su dove si trovasse il tempio dedicato al dio del mare.
Paestum, putto su delfino rinvenuto negli scavi
(Foto: Parco Archeologico di Paestum e Velia)
Nel corso della campagna di scavi nel 2019 diretta da Gabriel Zuchtriegel, attualmente direttore degli scavi a Pompei, nella sezione occidentale della città antica, in prossimità della cinta muraria e del mare, sono stati rinvenuti i resti di un piccolo tempio in stile dorico. A partire da agosto 2022, dopo oltre due anni d'interruzione dei lavori, i ricercatori hanno dato inizio a una campagna di scavi stratigrafici e nelle ultime settimane sono stati rinvenuti numerosi indizi del fatto che questo edificio potrebbe essere proprio il tempio perduto di Poseidone, il luogo religioso più importante dell'antica città.
Nel complesso sono stati rinvenuti 250 reperti appartenenti alla struttura del tempio e una trentina di frammenti che ne costituivano la decorazione e che sono legati al culto di Poseidone. La testimonianza principale è costituita da quindici statuette raffiguranti putti su delfini, animali che erano considerati messaggeri del dio del mare. Un altro indizio estremamente rilevante è costituito dalle sette figure di teste di toro, un animale sacro a Poseidone.
Molti dei reperti rinvenuti hanno chiare funzioni religiose: ne sono un esempio l'altare - localizzato a circa nove metri dal tempio, la cui pietra sacrificale è dotata di canalette per il drenaggio dei liquidi sacrificali -, o una scultura dedicata ad Afrodite.
Secondo D'Angelo è ancora presto per affermare quanto tutti i ricercatori sospettano, e cioè che quel tempio in riva al mare fosse, un tempo, la casa del dio del mare a Paestum. Ed è proprio la vicinanza della struttura alla costa che fa ben sperare i ricercatori. "Le navi che passavano se lo trovavano di fronte", racconta la direttrice del Parco Archeologico.

Fonte:
storicang.it


Antichi rituali di sacrifici umani: l'incaprettamento femminile

Francia, le sepolture neolitiche rinvenute in grotta (Foto: stilearte.it) Uno studio, pubblicato da Science advances , ha portato alla luce ...