sabato 29 aprile 2017

Cesarea, trovata una tavoletta di madreperla con menorah

La tavoletta in madreperla incisa trovata a Cesarea
(Foto: Ilan Ben Zion - Times of Israel)
E' stata ritrovata, nell'antica città romana di Cesarea, sulla costa israeliana, una tavoletta in madreperla di 1500 anni fa, recante incisa una menorah, probabilmente parte di una scatola che alloggiava un rotolo della Torah.
Si tratta di un manufatto unico nel suo genere, ricavato da materiale prezioso, frutto delle ricerche archeologiche della Israel Antiquities Authority all'interno degli scavi conservativi e di restauro dell'antico porto di Cesarea. La tavoletta è stata rinvenuta nei pressi di un tempio di epoca romana dedicato a Cesare Augusto, costruito da Erode nel I secolo a.C., un Augusteum, che dominava il porto di Cesarea nell'antichità. All'interno del perimetro del tempio sono stati trovati un altare e parte di un'iscrizione greca che deve essere ancora studiata.
Secondo gli archeologi la piccola tavoletta di madreperla risale, con tutta probabilità al periodo tardo romano-bizantino (IV-V secolo d.C.). Si trovava, forse, all'interno di una sorta di scatola per un Sefer Torah, la pergamena manoscritta che riporta i primi cinque libri dell'Antico Testamento, nei quali si trova il cuore della legge ebraica.
Tra i siti oggetto al momento di restauri conservativi vi è il grande acquedotto costruito dai Romani che portava l'acqua dal nord del Paese. Gli archeologi si sono prefissi di portare alla luce altri 10 archi del grande acquedotto, uno dei sette che alimentava la città di Cesarea.

Fonte:
timesofisrael.com

Tiriolo, scoperto un edificio di IV-III secolo a.C.

L'archeologo Riccardo Stocco illustra i ritrovamenti archeologici alla
popolazione di Tiriolo (Foto: vita.it)
Le ultime campagne di scavo condotte a Tiriolo, in provincia di Catanzaro, hanno portato a scoperte interessanti. L'area era già nota, dal punto di vista archeologico, per il ritrovamento della tavola bronzea contenente il testo del Senatus Consultum De Bacchanalibus (186 a.C.), con il quale il Senato romano aboliva i culti orgiastici in onore di Bacco. La tavola è conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Gli scavi recenti, invece, hanno permesso di recuperare delle strutture riferibili ad un grande edificio con splendide decorazioni e molto ben conservato, del quale sono stati riportati alla luce 120 metri quadrati di superficie, databile intorno al IV-III secolo a.C.. Sono state documentate le diverse fasi di costruzione, ristrutturazione e riuso dell'edificio prima che venisse distrutto da un violento incendio.
Frammenti di un pavimento musivo dell'edificio di Tiriolo
(Foto: catanzaroinforma.it)
"Le strutture rinvenute - ha dichiarato Giovanna Verbicaro, funzionario archeologo della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di Catanzaro, Cosenza e Crotone. - si articolano in un lungo corridoio colonnato, sul quale si aprono tre ambienti: una stanza pavimentata in cocciopesto e con un riquadro centrale in mosaico che raffigura due delfini e un terzo pesce non ancora identificato; una seconda stanza provvista di una porta monumentale dal ricchissimo apparato architettonico; una terza stanza, pavimentata con cocciopesto decorato a motivi geometrici e, infine, un grande atrio-vasca, parzialmente indagato".
Al momento, poiché le indagini sono ancora in corso, non è possibile chiarire quale fosse la destinazione d'uso dell'edificio. Numerosi indizi suggeriscono che, almeno in parte, esso dovesse avere una funzione religioso-sacrale. L'edificio è stato battezzato Palazzo dei Delfini e rappresenta un unicum relativo alla frequentazione brettia dell'entroterra catanzarese e fa di Tiriolo antica uno dei più rilevanti centri preromani.
Una delle colonne superstiti dell'edificio (Foto: catazanroinforma.it)
"Per quanto concerne le strutture murarie, di cui il Palazzo dei Delfini ha restituito un'ampia e articolata campionatura - spiega Riccardo Stocco, archeologo responsabile tecnico del progetto. - notevole importanza assume il ritrovamento, in ottimo stato di conservazione, di intere parti dell'edificio realizzate con la tecnica della terra cruda, compattata sul posto e quindi intonacata e dipinta. Ancor più straordinaria è la scoperta di gran parte della decorazione architettonica: coperti dal carbone e pressoché integri, sono stati infatti rinvenuti i capitelli degli stipiti e delle colonne, in pietra lavorata e dipinti in rosso e nero, insieme a grandi frammenti delle cornici e degli architravi, anch'essi in pietra e dipinti".
Tra i reperti mobili, spiccano un tesoretto costituito da oltre cento monete cartaginesi d'argento e tre gruzzoli di monete bronzee brettie, nascoste poco prima che l'edificio andasse a fuoco.
Le indagini archeologiche sono partite nel 2014, volute dall'amministrazione comunale di Tiriolo e coordinate dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria. Tutto è iniziato con la realizzazione di una campagna estensiva di indagini georadar. "C'era un fitto reticolo di strutture murarie e di piani pavimentali sepolti a profondità comprese tra i 15 e i 90 centimetri dal piano della campagna attuale, copriva tutta l'area del vecchio campo sportivo comunale", ha affermato Riccardo Stocco.
I Bruzi (in latino Brettii o Bruttii) erano un antico popolo italico insediato nell'attuale Calabria. Si pensa fossero di origine indoeuropea, come gli Italici. Inizialmente erano pastori e servi dei Lucani, molti dei quali a carattere nomade, come li definisce il geografo Strabone ma anche Diodoro Siculo e Pompeo Trogo. Furono i Lucani a dare il nome Bretti, che vuol dire "i ribelli", a questa popolazione. I Brettii si coalizzarono, nel 356 a.C., in una lega ed elessero a loro capitale una città che non è dato sapere se fosse stata eretta ex novo oppure fosse preesistente. Chiamarono questa città Consentia, ad indicare il consenso esistente tra le varie tribù, che attualmente è conosciuta come Cosenza.

Fonti:
Liberamente adattato da "Archeo", aprile 2017 e da vita.it

venerdì 28 aprile 2017

La straordinaria villa romana di Positano

Uno degli affreschi della villa romana di Positano
(Foto: Beacon)
Positano, per la sua bellezza e la sua posizione geografica, divenne un luogo di villeggiatura privilegiato già nei tempi antichi. I Romani vi edificarono una sfarzosa villa d'ozio che si inserì nel novero delle abitazioni che i ricchi cittadini dell'Urbe avevano cominciato ad edificare nel II secolo a.C. lungo tutta la costa campana.
Di queste ville restano, purtroppo, scarse testimonianze nella zona flegrea, in quella vesuviana e lungo la costa sorrentina. Per questo il ritrovamento, a Positano, di una di queste dimore di lusso costituisce una notizia clamorosa. Questa villa era, in realtà, nota già dalla metà del '700, nel periodo delle grandi scoperte archeologiche ad Ercolano (1738), Pompei (1748) e Stabiae (1749).
Nel 1758 un ingegnere svizzero, Karl Weber, addetto agli scavi borbonici, riferisce del ritrovamento, al lato di una chiesa di fronte alla spiaggia, dei resti di un antico edificio con i pavimenti in mosaico bianco, di una serie di stanze dipinte, di colonne in stucco rosso e di un giardino con vasca. Altri resti della villa emersero nel corso del tempo in più punti della cittadina, tanto che in molti pensarono ad una residenza imponente, realizzata su più piani degradanti fino alla spiaggia. Lo studioso Matteo Della Corte (1875-1962) avanzò l'ipotesi che la denominazione stessa di Positano derivasse dal proprietario della villa, Posides Claudi Caesari, liberto dell'imperatore Claudio.
Amorini in stucco dalla villa romana di Positano
(Foto: L'Espresso - Repubblica)
Ma le scoperte più eclatanti si sono avute durante gli scavi del 2003-2004, sotto la cripta della chiesa di Santa Maria Assunta, utilizzata per secoli come un cimitero, dove è stata posta in evidenza una straordinaria sequenza stratigrafica che dal '700 arriva al medioevo e all'età romana. Venne riportato alla luce parte di un ambiente riccamente decorato sepolto dall'eruzione del 79 d.C.. Gli scavi, però, furono ripresi solo nel 2015-2016, a causa di problemi di natura economica, sotto la supervisione della Soprintendenza. Gli archeologi responsabili dello scavo, Luciana Jacobelli e Riccardo Iaccarino, hanno scoperto quello che pare essere un lussuoso triclinium, del quale sono state riportate alla luce le pareti nord ed est, mentre la parete ovest risulta crollata. Un paziente lavoro di ricomposizione sta impegnando attualmente gli studiosi.
Gli affreschi presentano una notevole qualità ed originalità. La tecnica è quella che veniva solitamente utilizzata negli ambienti termali: stucco e pittura insieme. Una tecnica rara nella pittura parietale delle domus. L'uso abbondante dello stucco, la scelta di colori accesi e costosi come l'azzurro e il tema delle raffigurazioni, fanno pensare che il proprietario desiderasse ottenere un effetto scenografico a beneficio degli ospiti.
Un particolare di un amorino in stucco
(Foto: Positano News)
L'affresco, che si articola in più pannelli, è pieno di figure: animali (cigni, cavallucci, capre, pavoni), tappeti gialli e rossi, tralci di vite, quadretti marini, inseriti tutti in un'architettura fantastica. Compare anche l'immagine di una divinità, forse Dioniso. La particolare abilità nella resa pittorica degli elementi risalirebbe, secondo alcuni studiosi, a botteghe non locali ma itineranti. Si trattava, forse, di maestranze sicuramente di alta qualità provenienti da diverse zone dell'impero.
A sottolineare la ricchezza del padrone di casa c'è anche una cassaforte. Si tratta di un vero e proprio armadio blindato, tre lati in legno rivestiti internamente di ferro e uno sportello pure di ferro, chiuso da una lunga sbarra metallica. Gli archeologi ne stanno recuperando con estrema cura il contenuto. Finora sono stati identificati sei oggetti in bronzo (brocche, tazze, situle per simposi). I resti ammaccati del forziere si trovano in un cumulo di detriti vulcanici, grandi pezzi di intonaco dipinto, altri oggetti in bronzo.

Fonti:
Liberamente adattato da "Archeologia Viva", maggio/giugno 2017 e L'Espresso on line

mercoledì 26 aprile 2017

Continuano le scoperte ad Aquileia

Gli scavi di via delle Vigne Vecchie ad Aquileia
(Foto: messaggeroveneto.it)
In via delle Vigne Vecchie, ad Aquileia, lo scavo archeologico, aperto di recente, ha portato alla luce ben sette vani con pavimentazione in tessellato.
Una trincea, lunga una trentina di metri per una larghezza di circa due metri, corrispondente all'ampiezza della striscia di terreno tra il campo arato di proprietà Ritter e la strada, via delle Vigne Vecchie, all'incrocio con via Julia Augusta, ha riportato alla luce, a soli venti centimetri di profondità, parte di sette vani affiancati uno all'altro.
Sei conservano la pavimentazione in mosaico, più o meno danneggiata, uno presenta, invece, una superficie in cubetti di terracotta. Lo scavo archeologico preventivo è stato effettuato in occasione della realizzazione di uno spaccio agricolo, di un posteggio e di una canalizzazione. L'area, già sottoposta a vincolo nel 1931, costituisce la naturale prosecuzione del complesso noto come "Casa delle Bestie Ferite", che non risultava completo nella sua struttura.
Per il momento si sta cercando di ricontestualizzare il nuovo complesso proprio in relazione all'importante domus scavata dall'Università di Padova fin dal 2007 e della quale il recente rinvenimento costituisce l'articolazione settentrionale più prossima al decumano. La stratigrafia relativa all'edificio ha consentito di attestare almeno quattro fasi, che vanno dall'epoca tardo-repubblicana, fine del I secolo d.C., tra l'altro raramente documentata ad Aquileia, al IV secolo d.C.
Durante i lavori di rilievo archeologico è stato possibile documentare anche delle suspensurae, che sostenevano una superficie più alta andata perduta, indice della presenza di un vano riscaldato. Di grande rilievo, inoltre, i mosaici pavimentali, in tessere bianche e nere, con decori vegetali e a crocette, che caratterizzano la pavimentazione dei vani.
Lo scavo non è ancora ultimato verso ovest. Parte dei lavori relativi alla realizzazione dello spaccio agricolo sono stati già autorizzati. Per la conclusione si attende il completamento delle indagini archeologiche. Non si può, al momento, dire con certezza che si tratti della stessa casa che continua (un isola può comprendere più domus), ma sicuramente siamo all'interno dello stesso isolato della "Casa delle Bestie Ferite". Questi livelli tardo-repubblicani sono piuttosto rari per Aquileia.

Fonte:
www.messaggeroveneto.it (Elisa Michellut)

martedì 25 aprile 2017

I segreti della città abbandonata di Ayawiri

Vista dal forte abbandonato sulla collina di Ayawiri, in Perù
(Foto: Elizabeth Arkush)
Intorno al 1450 d.C., gli Incas effettuarono un attacco a sorpresa alle genti che vivevano nella fortezza di Ayawiri, una città posta su una collina in Perù. Le persone non ebbero nemmeno il tempo di prendere i loro oggetti di valore: dovettero fuggire precipitosamente.
Ayawiri era una grande città delle Ande centrali del sud, abitata da circa mille persone nei primi anni del XV secolo. Il centro urbano era arroccato sulla cima di una collina ripida, piatta, circondata da pianure erbose. Gli scavi condotti ad Ayawiri hanno restituito il quadro di una partenza improvvisa dei suoi abitanti. Gioielli in bronzo, utensili in metallo pesante e ceramiche intatte sono stati tutti lasciati nelle case in pietra a pianta circolare, sepolte poco sotto la superficie del terreno.
"Ci sono molti oggetti in rame e bronzo, si tratta di ornamenti personali, spille, piccoli fermagli che ornavano i capi di abbigliamento delle persone. - Ha detto la Dottoressa Elizabeth Arkush, dell'Università di Pittsburgh. - Abbiamo anche trovato un paio di anelli e frammenti di un bracciale. Trovare una così ricca collezione di oggetti di metallo è piuttosto raro negli insediamenti abbandonati".
Tra gli oggetti abbandonati figurano anche asce e utensili in pietra. E' probabile che alcuni dei residenti di Ayawiri fossero a conoscenza dell'invasione degli Incas con almeno un giorno di anticipo e che abbiano avuto il tempo di prepararsi alla fuga. Alcune case di Ayawiri appartenevano a persone di alto rango, ma contenevano molti pochi oggetti. Altre case, viceversa, contenevano oggetti di valore e questo ha indotto i ricercatori a pensare che qualcuno, ad Ayawiri, sapesse dell'imminente attacco. Dove siano andati, però, non è possibile saperlo.
Una casa di pietra a pianta rotonda nel sito dell'antica città di Ayawiri, ancora in corso di scavo
(Foto: Elizabeth Arkush)

Fonte:
ibtimes.co.uk

lunedì 24 aprile 2017

La fine del mondo c'è già stata?

Gobekli Tepe, particolare (Foto: Panorama)
11.000 anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la terra devastandola, modificando l'inclinazione dell'asse di rotazione del pianeta, provocando l'estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un'era glaciale che durò mille anni.
A dipingere questo clima apocalittico un gruppo di ricercatori dell'Università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel sud della Turchia. All'annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato. Naturalmente si preparano altri libri sull'argomento.
Gobekli Tepe, stele con rappresentazione di avvoltoi
(Foto: Peter Simon)
Una stele in particolare, quella chiamata dell'avvoltoio, ha attratto l'attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all'aiuto di un computer è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame delle comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane. La stele è importante perché conferma eventi che già conoscevamo, come il periodo glaciale noto come Dryas recente (dal nome di un fiore della tundra) e l'anomalia dell'iridio osservata in nord America, risalente all'11-10.000 a.C.: l'iridio è poco presente nel suo e quando in uno strato geologico se ne trova molto di più, vuol dire che un meteorite o una cometa lo hanno portato sulla terra, come avvenne nell'estinzione dei dinosauri. Per il Professor Martin Sweatman, direttore della ricerca pubblicata su Mediterranean Archaeology, "questa scoperta, insieme all'anomalia dell'iridio, chiude il caso in favore dell'impatto di una serie di comete".
Gobekli Tepe è il tempio più antico dell'umanità e pare fosse dedicato all'osservazione delle comete e dei meteoriti. I bassorilievi che narrano la catastrofe dell'11.000 a.C. erano tenuti in grande considerazione e conservati con cura, come se fosse importante non perderne la memoria. Inspiegabilmente, in epoca preistorica, il sito venne abbandonato e completamente ricoperto di terra, perché nessuno lo potesse individuare. Archeologi e antropologi collocano nel Dryas recente l'inizio della civiltà umana, con le prime coltivazioni e i primi villaggi del Neolitico. ma per altri ricercatori, che il mondo accademico non tiene in nessuna considerazione, la caduta delle comete ha causato la fine di una civiltà che già esisteva sulla terra e ha costretto gli esseri umani sopravvissuti a un nuovo e faticosissimo inizio.
La teoria che grandi civiltà del passato siano state distrutte da eventi catastrofici è suggestiva e spiegherebbe le grandi costruzioni le cui rovine sono state trovate sui fondali dell'Oceano, dove Platone collocava Atlantide, così come la piramide sommersa che si trova vicino all'isola di Yonaguni, in Giappone. Ma c'è da sperare che i cultori delle civiltà perdute non abbiano ragione: gli sciami di comete sono infatti periodici e quello descritto nella stele di Gobekli Tepe potrebbe tornare nell'arco di qualche decennio.

Fonte:
La Stampa


domenica 23 aprile 2017

Trovata una proprietà imperiale in Lidia

La tomba di Kabalis, in Lidia, con il rilievo del leone
(Foto: Università di Vienna)
Gli archeologi hanno scoperto la residenza estiva di un imperatore romano a Kibyratis, sulle montagne turche.
La tenuta rurale apparteneva alla famiglia dell'imperatore Marco Aurelio, che governò tra il  161 e il 180 d.C.. L'area di Kibyratis è stata interessata da alcuni scavi archeologici, anche se si era a conoscenza dell'esistenza del latifondo rurale di epoca romana. Indagini più approfondite sono iniziate nel 2008 ed hanno rivelato vasti siti appartenenti a famiglie imperiali. I resti sono stati gravemente danneggiati, ma gli storici sono riusciti a ricostruire mosaici, tubi per l'acqua in argilla e alcune decorazioni parietali in marmo.
L'impero romano intratteneva proficui contratti per l'esportazione del vino e di prodotti in ceramica dalle province orientali. Ci sono prove di processi di vinificazione costituiti da reperti di pesi utilizzati all'occorrenza.
Indagini su Asar Tepe, del quale almeno una parte apparteneva alla
tenuta dei Calpurnii (Foto: Oliver Hulden)
Un altare votivo rinvenuto in loco reca incisa una poesia su una partita di caccia, uno dei passatempi più popolari tra i nobili romani. L'iscrizione era stata dedicata dalla famiglia dei Calpurnii a Marco Calpurnio Longo, raffigurato mentre uccide uno stambecco durante una battuta di caccia e sacrifica l'animale agli dèi per garantirsi la loro protezione sulle sue ricchezze e sulle sue terre.
Tra gli altri reperti vi sono un rilievo scolpito nella roccia dedicato alla dea madre Cibele, antica divinità frigia, adorata con riti orgiastici. Un secondo rilievo raffigura un pastore attaccato da un lupo. Si pensa che i rilievi siano un dono che l'uomo abbia fatto a Cibele per averlo salvato in un momento di pericolo.
Nel 2011 è stata trovata anche una sepoltura nel settore nord del sito, decorata con il rilievo di un leone e databile al periodo arcaico. Per ragioni sconosciute la famiglia dei Calpurnii perse la tenuta di Kibyratis che venne inglobata nelle proprietà della famiglia imperiale alla fine del II secolo d.C.. Tra i nuovi proprietari vi fu anche Annia Cornifica Faustina, sorella di Marco Aurelio.

Fonte:
International Business Times

sabato 22 aprile 2017

Volterra, emerge un muro di costruzione romana

(Foto: quinewsvolterra.it)
Cospicui resti di una struttura monumentale di epoca romana scoperti a Volterra. L'eccezionale ritrovamento è avvenuto nei giorni scorsi sull'Acropoli all'interno del Parco Fiumi.
In particolare gli archeologi della ditta Ara, sotto la direzione scientifica di Elena Sorge della Soprintendenza archeologica belle arti e paesaggio di Pisa, hanno avuto la sorpresa di riportare alla luce, nel corso dei lavori per la riapertura della vecchia traccia dell'acquedotto, numerosi resti di una potentissima struttura muraria.
Il muro, rimesso in luce per adesso per quasi 7 metri, è costruito in opera quadrata, ovvero con massi quadrati posti in opera e legati con malta "fattori questi che ci lascerebbero pensare ad una struttura monumentale, per ora da definire, di epoca romana. - Ha detto Sorge. - Questa struttura è certamente da identificarsi con un potente muro scoperto nel 1909 sull'Acropoli, documentato da una fotografia dell'epoca, la posizione del quale era però andata perduta".
"Una scoperta eccezionale - ha commentato il sindaco di Volterra Marco Buselli - che moltiplica il valore e il peso specifico dell'Acropoli volterrana, vero e proprio cuore pulsante della città. La scelta di aver allargato l'area dell'Acropoli alla Cisterna Romana è avvalorata da questa ulteriore scoperta della Volterra romana".

Fonte:
quinewsvolterra.it
Il rostro "Egadi 12" (Foto: Richard Lundgren, GUE)
Ad 80 metri di profondità, nei fondali a nordovest dell'isola di Levanzo, è stato ritrovato il dodicesimo rostro pertinente la Battaglia delle Egadi. Una spedizione frutto di una collaborazione internazionale tra la Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana e la GUE - Global Underwater Explorer, ha effettuato immersioni nell'area già oggetto di ritrovamenti negli scorsi anni da parte della RPM Nautical Foundation. Il team della GUE, sotto il coordinamento scientifico della Soprintendenza del Mare, ha effettuato con due squadre di subacquei immersioni esplorative su batimetriche che vanno dai 75 ai 90 metri.
Dopo avere documentato il rostro "Egadi 9" già individuato nel 2012 dalla RPM Nautical Foundation e in attesa di un recupero, la ricerca è continuata in maniera sistematica sullo stesso areale dove è stato rinvenuto il nuovo rostro. Il reperto in bronzo si trova adagiato sul fondo e si presenta integro e in ottime condizioni. A pochi metri dal rostro è stato individuato un elmo in bronzo del tipo Montefortino che si va ad aggiungere agli altri otto ritrovati e recuperati nelle precedenti campagne di ricerca. E' stato quindi effettuato dai subacquei il posizionamento dei reperti e la documentazione video fotografica. Inoltre per la prima volta i fotografi della Global Underwater Explorer hanno realizzato una fotogrammetria tridimensionale del rostro nel luogo del ritrovamento. Si è ottenuto, quindi, un modello 3D ad alta risoluzione di grande impatto scenografico ma di notevole utilità per le prime analisi scientifiche.
Il ritrovamento dell'elmo Montefortino (Foto: Jarrod Jablonski, GUE)
Il recupero dei reperti è stato già programmato per il mese di ottobre 2017. Il Soprintendente del Mare Sebastiano Tusa si dichiara molto soddisfatto di questo ennesimo successo nei luoghi della Battaglia delle Egadi. "E' un risultato eccezionale sia sotto il profilo scientifico, poiché aggiunge altri reperti a quelli già noti e recuperati che certamente potranno apportare nuovi dati tipologici, tecnici ed epigrafici decifrando le iscrizioni che certamente si trovano sui nuovi rostri. E' anche un ulteriore rafforzamento del dispositivo di tutela localizzando i nuovi reperti e, infine, ci gratifica poiché rende più incisiva e fruttuosa quella collaborazione internazionale che da sempre costituisce uno dei punti di forza più coltivati dalla nostra Soprintendenza. C'è anche da sottolineare che ancora una volta si ribadisce la correttezza del percorso metodologico adottato che vede un eccellente esempio di giusto equilibrio fra ricerca strumentale e intervento diretto dell'uomo".
Queste ultime scoperte si aggiungono alle tante effettuate nel passato in questo tratto di mare tra Levanzo e Marettimo che hanno permesso di localizzare esattamente il sito in cui si combatté una delle più grandi battaglie navali dell'antichità per numero di partecipanti, circa 200.000, tra i Romani, guidati da Gaio Lutazio Catulo, e i Cartaginesi, capeggiati da Annone, e che, oltre a chiudere a favore dei primi la lunga e lacerante Prima Guerra Punica, sancì la supremazia di Roma su Cartagine. Sono tornati alla luce autentici frammenti di storia antica in forma di dodici rostri bronzei di antiche navi da guerra, nove elmi bronzei, centinaia di anfore e reperti di uso comune.

Fonte:
mediterraneoantico.it

giovedì 20 aprile 2017

Pietrabbondante, sopravvivenze pagane

Gli archeologi al lavoro sul sito di Pietrabbondante
(Foto: ecoaltomolise.net)
Nel 2016, grazie alla campagna di crowdfunding "Rock Samnium", promossa da un gruppo di giovani archeologi da anni impegnati negli scavi del santuario sannitico di Pietrabbondante, nel Molise, con l'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte, sono stati raccolti 16.000 euro che hanno consentito di proseguire le attività di ricerca e di laboratorio presso quel sito archeologico. Un ritrovamento ha gettato nuova luce sulla poco documentata fase di passaggio tra paganesimo e cristianesimo nel Molise. I contenuti delle nuove scoperte saranno illustrate durante la conferenza stampa che si terrà il 28 aprile a partire dalle ore 11.00 all'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte in piazza San Marco a Roma.
Gli scavi hanno rivelato la sopravvivenza di un culto pagano, fino agli inizi del V secolo d.C., in un sacello del settore orientale del santuario, mentre i grandi edifici sacri (Tempio A, Tempio B, Aerarium) erano in abbandono da molto tempo. Si è potuto quindi documentare un particolare rituale di chiusura dell'intero santuario in ottemperanza alle disposizioni imperiali per la soppressione dei culti pagani, le leggi di Teodosio I degli anni 391 e 392. La deposizione, nel sacello ora ritrovato, di elementi architettonici e oggetti pertinenti anche a templi già distrutti dimostra, infatti, l'intento di estinguere definitivamente qualsiasi forma di culto nel santuario di Pietrabbondante del cui antico prestigio restava ancora memoria nella regione sannitica.
Di alcuni templi di cui si sono ritrovati i resti nel sacello conosciamo così l'esistenza ed i caratteri stilistici (capitelli, colonne) ma non l'ubicazione. La loro individuazione resta uno degli obiettivi più importanti delle prossime indagini. 

Fonte:
ecoaltomolise.net

Druso Minore torna a Napoli

La testa di Druso Minore restituita all'Italia (Foto: vesuviolive.it)
E' stato raggiunto un accordo tra il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e il Cleveland Museum of Art. Ritorna finalmente a Napoli una statua in marmo dell'inizio del I secolo a.C., raffigurante la testa di Druso Minore. Ad annunciarlo è il ministro Dario Franceschini.
"Questa restituzione è il frutto di un importante e proficuo accordo culturale e della piena collaborazione dei vertici del museo con le autorità italiane - spiega Franceschini. - Ora attendiamo il ritorno dell'opera, che una volta in Italia, verrà restituita al più presto a Napoli e alla sua comunità, alla quale fu sottratta".
L'opera fu trasportata illecitamente da un sito nei pressi di Napoli, verso la fine della seconda guerra mondiale. La scultura era stata acquistata dal Museo di Cleveland nel 2012, credendo che provenisse originariamente dal nord Africa.
 
Fonte:
vesuviolive.it


mercoledì 19 aprile 2017

Bryansk, scoperta una "Venere" di osso di mammut

La "Venere" siberiana (Foto: Istituto di archeologia ed etnografia)
Una splendida statuina raffigurante una "Venere" di 23000 anni fa è stata scoperta nella regione di Bryansk, in Russia. La statuina è stata ricavata dalla zanna di un mammut lanoso ed ha fattezze estremamente delicate.
Il Dottor Konstantin Gavrilov, che ha guidato la spedizione che ha trovato la statuina, ritiene impossibile che la "Venere" sia legata ad un culto della fertilità, poiché è antecedente alla "scoperta" dell'agricoltura. Probabilmente si tratta della rappresentazione di una donna incinta, o con una pancia evidente.
La "Venere" giaceva accanto a strati di calcare di grandi dimensioni e a parti di ossa di mammut dipinte con un colorante di origine minerale. Altre "Veneri" sono state trovate in Russia, in particolare nei pressi del lago Baikal, in Siberia.

Fonte:
Daily Mail


Il luogo dove è stata rinvenuta la statuetta (Foto: Istituto di archeologia ed etnografia)

Iran, scoperta una misteriosa città sotterranea

Il complesso sotterraneo scoperto in Iran, utilizzato prima per scopi religiosi, poi come cimitero ed, infine,
come riparo durante le emergenze (Foto: IRNA)
Gli scavi archeologici nella provincia di Hamedan, in Iran, hanno portato, dopo dieci anni, alla scoperta di una città sotterranea di duemila anni fa. La città dista 400 km da Teheran ed è stata chiamata provvisoriamente Samen.
Si pensa che l'insediamento sia stato costruito durante gli anni della transizione tra la caduta dell'impero achemenide (550-330 a.C.) e l'inizio dell'era partica (247 a.C.-224 d.C.). Gli scavi sono iniziati nel 2005 e sono andati avanti fino ad oggi.
La città è formata da tunnel collegati tra di loro, composti da 25 camere, che servivano da case e catacombe, sale e corridoi. Gli scheletri di 16 uomini, 26 donne, 14 bambini, un infante sono stati recuperati in nove camere. Si ritiene che la città si estendesse su più di tre ettari.

Fonte:
Iran First Page

Luxor, scoperta la tomba di Ou Sarhat

La tomba di Ou Sarhat a Luxor (Foto: english.ahram.org.eg)
Una missione archeologica egiziana a Luxor ha annunciato la scoperta di un'importante sepoltura nella zona ovest della città. La tomba risale alla XVIII Dinastia e contiene inestimabili artefatti. Mostafa Waziry, Direttore Generale delle Antichità di Luxor, ha detto ai giornalisti che la tomba si trova nella necropoli di Zeraa Abu El-Nagaa ed appartiene, con tutta probabilità, ad un magistrato di Luxor di nome Ou Sarhat. Gli oggetti ritrovati nella sepoltura comprendono dozzine di statue, sarcofagi e mummie.
Il ministro delle Antichità Khaled El-Enany ha affermato che, nonostante le ridotte dimensioni, la tomba rappresenta una scoperta importante, poiché la maggior parte del corredo funebre è intatto. La tomba era stata già intercettata nel XX secolo, ma non è stata mai scavata perché il suo ingresso è stato trovato solo nel mese di marzo di quest'anno.
La tomba è stata riutilizzata in un periodo successivo, mal la maggior parte del corredo risale alla XVIII Dinastia. Si tratta di sarcofagi in legno decorati con scene colorare, maschere funerarie in legno e quasi 1.000 ushabti scolpiti in faience, terracotta e legno. E' stata trovata anche una collezione di vasi in argilla di diverse forme e dimensioni.
La sepoltura è un tipico esempio di ultima dimora nobiliare, con la struttura a forma di T, costituita da una corte aperta che conduce in un corridoio rettangolare, un altro corridoio ed una camera. Continuano gli scavi nella tomba per carpirne i segreti e per rivelare il contenuto della cachette, dove giacciono mummie della XXI Dinastia. Ora gli esperti stanno esaminando le mummie per poter dar loro un'identità e per comprendere le ragioni della loro morte.
 
Fonte:
english.ahram.org.eg


martedì 18 aprile 2017

Abbazia di Thornton, trovati i resti di un sacerdote

Il crannio di Richard de W'Peton (Foto: Università di Sheffield)
I resti di un sacerdote vissuto nel medioevo e morto 700 anni fa, sono stati scoperti in un'elaborata sepoltura nell'Abbazia di Thornton, nel Lincolnshire, in Gran Bretagna, che nel 1139 era un monastero nonché una delle più ricche case religiose d'Inghilterra.
La pietra tombale del sacerdote è stata scoperta vicino all'altare di una cappella di un ex ospedale. Cosa insolita per il periodo, vi era un'iscrizione con il nome del defunto: Richard de W'Peton (abbreviativo di Wispeton, attuale Wispington, nel Lincolnshire). Oltre al nome vi era anche la data della sua morte, 17 aprile 1317. Sulla lastra vi era anche un versetto tratto dalla lettera ai Filippesi: "che al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, di quelli che sono nei cieli, di quelli che sono sula terra e di quelli che sono sotto la terra".
La scoperta della sepoltura è stata fatta da Emma Hook, una studentessa dell'Università di Sheffield, che ha rinvenuto anche lo scheletro del prelato circondato dai frammenti di una bara in legno. Lo scheletro è, purtroppo, in cattive condizione di conservazione ed è stato trasferito immediatamente al laboratorio per gli esami e le procedure di conservazione. Si pensa che l'uomo avesse, al momento della morte, tra i 35 ed i 45 anni.
I ricercatori ritengono che l'uomo avesse umili origini, le sue ossa mostrano i segni di una muscolatura robusta, indice di gravosi lavori fisici condotti per buona parte della vita. I denti recano segni distintivi di ipoplasia dello smalto, segno che i primi anni del prelato furono segnati da un periodo di malnutrizione o malattia.
I ricercatori hanno, poi, indagato il cranio dell'uomo con una scansione 3D che ha rivelato un episodio potenzialmente violento nel passato del sacerdote. Si tratta di una leggera depressione nella parte posteriore del cranio, guarita perfettamente e indice di un colpo sferrato da un corpo contundente molti anni prima della morte del sacerdote.
Il Dottor Hugh Willmott, del Dipartimento di archeologia dell'Università di Sheffield, che ha lavorato allo scavo dell'Abbazia di Thornton dal 2011, ha affermato: "Il 2017 segna non solo il settecentesimo anniversario della morte di Riccardo III, ma anche quella di un evento catastrofico che oggi è in gran parte dimenticato, ma che ha causato anni di sofferenza in tutta Europa: la grande carestia del 1315-1317, innescata da una primavera ed un'estate molto piovose, che hanno causato molti danni all'agricoltura ed hanno notevolmente depauperato la disponibilità di grano per umani ed animali. Fu un periodo di fame generalizzata. Nella primavera del 1317, quando Richard è morto, la crisi alimentare era al suo massimo e aveva sicuramente investito anche gli ospedali medioevali come l'Abbazia di Thornton ed i sacerdoti che vivevano lì. Queste istituzioni curavano tradizionalmente i poveri, gli affamati ed i malati e durante la carestia erano certamente in prima linea. Forse Richard provvedeva agli affamati lavorando con forze e risorse limitate e, forse, malgrado gli sforzi ha finito per cedere alla disperazione. Quello che è certo che quando è morto Richard era tenuto in alta considerazione, gli venne accordata una sepoltura elaborata nella parte più prestigiosa della cappella dell'ospedale, là dove aveva prestato, negli ultimi anni, la sua opera".
La sepoltura del sacerdote è l'ultima, in ordine di tempo, delle scoperte significative intorno all'Abbazia di Thornton, nel Lincolnshire. Lo scorso anno sono venute alla luce diverse sepolture di vittime della peste nera, scoperte nei pressi dell'ospedale. Sono stati recuperati 48 scheletri, molti dei quali di bambini.

Le sorprese di Alessandria d'Egitto

Uno degli oggetti rinvenuti nello scavo
(Foto: english.ahram.org.eg)
Gli archeologi del Ministero delle antichità egiziane hanno scoperto una serie di reperti greco-romani durante degli scavi nella zona di Babour El-Maya, in Alessandria d'Egitto.
Mahmoud Afifi, responsabile del Dipartimento delle antichità egiziane del Ministero delle antichità, ha affermato che gli scavi, effettuati su richiesta di un residente di Alessandria d'Egitto, è stato effettuato in un luogo chiamato Villa Agion, dove deve essere eretto un edificio residenziale. Afifi afferma che secondo la legge egiziana, il Ministero delle antichità deve ispezionare qualsiasi luogo edificabile, per accertarsi che non vi siano reperti archeologici.
Mostafa Roshdi, direttore generale delle antichità di Alessandria d'Egitto ha dichiarato che gli archeologi hanno riportato alla luce una collezione di vasi di terracotta, monete, ossa e lampade di argilla risalenti al periodo ellenistico e bizantino. E' stato scoperto anche un pavimento in granito nero di età greco-romana, che apparteneva ad una stanza con le pareti rivestite di intonaco. Gli scavi sul sito sono ancora in corso.


Fonte:
english.ahram.org.eg

Via Prenestina: rovato un tratto di acquedotto romano

Uno dei pozzi del tratto di acquedotto appena scoperto
(Foto: roma.repubblica.it)
Prima nove antichi pozzi romani, a distanza di 45 metri l'uno dall'altro, di due metri per due, foderati di tufo. E poi sotto, esplorati dagli speleologi, cinquecento metri di un acquedotto che affiora al "sesto miglio" della Prenestina, proprio davanti alla facciata di mattoncini rossi del nuovo ipermercato Esselunga.
La scoperta è stata fatta dagli archeologi della Soprintendenza guidati da Francesco Prosperetti. E si tratterebbe proprio di quell'acquedotto Appio, di cui 35 metri di tracciato sono stati riportati alla luce a 17 metri di profondità nelle viscere del Celio durante gli scavi per i lavori della linea C della metropolitana.
La zona di scavo (Foto: roma.repubblica.it)
Il contesto è preciso. "Si tratta", spiegano l'archeologo che sovrintende alla zona, Stefano Musco, e l'archeologa degli scavi, Federica Zabotti "di un quadrilatero compreso tra le vie Prenestina, Giovan Battista Valente, Collatina e Palmiro Togliatti e noto da sempre con il toponimo di "Cappellette". Ed è qui che, durante i sondaggi preventivi fatti per l'insediamento del Nuovo Centro Servizi Prenestina, che sono emersi i pozzi disposti in modo ordinato su di un pianoro di tufo che fiancheggia la valle del Fosso di Centocelle, che oggi non esiste più perché è stato intubato".
Ma la conferma dell'esistenza dell'acquedotto sotterraneo è arrivata con lo scavo del pozzo più orientale, rinvenuto accanto a viale Palmiro Togliatti. E qui non solo sono state trovate numerose anfore, che provano che l'area era frequentata fino in epoca tardo antica, ma gli speleologi hanno potuto esplorare il condotto interno. "Si tratta", raccontano gli archeologi, "di uno speco che abbiamo perlustrato per 27 metri in direzione est e per 26 in direzione ovest, scavato nel tufo della collina, un condotto alto fino a 2 metri e 15 e largo 90 centimetri. Ha una copertura in conglomerato cementizio gettato su uno strato di 4-5 tavole di legno. E l'acqua scorreva, in pendenza da est verso ovest, a una quota di più di 21 metri sotto terra".
Un tratto dell'acquedotto appena scoperto (Foto: roma.repubblica.it)
Ma subito arriva il giallo dell'attribuzione. Frontino, infatti, responsabile delle acque ai tempi di Traiano, nel suo De Aquaeductu Urbis Romae segnala in questa zona il tracciato di due soli acquedotti, quello dell'Aqua Appia e l'altro dell'Aqua Appia Augusta. Ora le murature dei pozzi trovati sono sicuramente di epoca augustea, però sembrano essere costruiti su un acquedotto precedente, proprio quello Appio.
L'Aqua Appia, il primo degli acquedotti pubblici, venne fatta arrivare a Roma nel 312 a.C., sotto i censori Appio Claudio Crasso e Gaio Plauzio Venox. Le sorgenti, sempre secondo Frontino, erano poste in quello che veniva chiamato l'ager Lucullanus, tra il VII e l'VIII miglio della via Prenestina, ad una quota di circa 24 metri di profondità. L'acquedotto subì restauri nel 147, nel 33 e tra l'11 e il 4 a.C., quando Augusto ne potenziò la portata collegandovi un nuovo condotto, quello dell'Aqua Augustana, l'altra attribuzione possibile, che confluiva nell'Appia in prossimità della località "ad Spem Veterem".
Non è tutto. Nella zona sono stati rinvenuti anche due mausolei, nel parco del nuovo quartiere Prampolini. Due sepolcri a tempietto con pronao, del IV secolo d.C.. E sotto, con la telecamera, si è raggiunto il luogo della sepoltura di una ragazza, una tomba foderata di marmi, trovata depredata, ma in cui è rimasta la sagoma della defunta, che ha impresso sul suolo un colore viola, quello della porpora di Tiro, che allora si usava solo per le vesti delle famiglie patrizie vicine all'imperatore. Infine è stata anche trovata un'antica fornace, scavata dall'archeologa Floriana Policastro, pressoché intatta, dove si trasformavano in calce i marmi, cuocendoli alla temperatura di mille gradi.

Fonte:
roma.repubblica.it

venerdì 14 aprile 2017

Nea Paphos, continuano le scoperte

Nea Paphos, Cipro, frammento di un sebatoio
d'acqua (Foto: Henryk Meyza)
Durante gli scavi sull'isola di Cipro, gli archeologi polacchi hanno scoperto i resti più antichi della città di Nea Paphos. Paphos è uno dei siti archeologici più importanti dell'isola, nel periodo greco romano servì come capitale di Cipro.
"Durante l'ultimo scavo della stagione siamo riusciti a raggiungere alcuni dei primi edifici eretti in quest'antica città", ha detto il Dottor Henryk Meyza, dell'Istituto del Mediterraneo e delle Culture Orientali dell'Accademia polacca delle scienze. La sua squadra sta operando nel settore residenziale della città, dove i primi scavi sono stati effettuati nel 1965.
Gli edifici, vasti e lussuosi, sono stati in uso per quasi mille anni, dal IV secolo a.C. al VII secolo d.C.. "Fin dall'inizio sono stati edificati rispettando una ordinata griglia di strade. Le case vennero erette allo stesso modo anche nei decenni successivi, poiché la costruzione del quartiere residenziale è stata preceduta dalla realizzazione di un sistema di drenaggio dell'acqua che funzionò per tutta la storia della città", ha affermato il Dottor Meyza.
Gli ultimi scavi di un'altra squadra di archeologi polacchi, guidati dal Professor Ewdoksia, si sono concentrati sull'interno di una delle case, chiamata "Ellenistica" e di quelle circostanti. Gli edifici sorgevano solitamente intorno a tre cortili, quello centrale era una sorta di peristilio con un giardino nel mezzo. Quest'ultimo, nella casa "Ellenistica" venne realizzato solamente tra il I e il II secolo d.C., là dove, in precedenza, vi erano due vasche di diverse dimensioni.
Nei secoli Nea Paphos divenne il porto più importante della flotta ellenica, accanto ad Alessandria d'Egitto. All'epoca Cipro aveva una notevole ricchezza in legname da costruzione, principalmente legno di cedro, un bene prezioso per i governanti egiziani della Dinastia dei Tolomei.

Fonte:
scienceinpoland.pap.pl

Il tesoretto romano di Tomares

Le monete romane scoperte a Tomares (Foto: repubblica.it)
Nella cittadina di Tomares, a circa 8 chilometri da Siviglia, sulla riva occidentale del Guadalquivir, alcuni operai che stavano scavando nel Parco dell'Olivar del Zaudìn, aprendo una trincea per la posa di una conduttura idrica, hanno trovato una irregolarità sospetta. Sono emerse in questo modo frammenti di anfore e numerose monete antiche.
Sul posto sono immediatamente intervenuti gli archeologi del Museo di Siviglia che hanno provveduto ad allargare lo scavo e a recuperare un tesoro costituito da ben 600 kg di monete romane contenute in 19 anfore, 9 delle quale sono state estratte dal terreno integre. I reperti sono stati subito trasferiti presso il Museo per essere ripuliti e studiati. La direttrice, Ana Navarro, ha dichiarato che si tratta di un ritrovamento di entità mai vista prima in Spagna.
Particolare delle monete scoperte a Tomares (Foto: repubblica.it)
Le anfore sono del tipo comunemente impiegato per immagazzinare e trasportare olio in tutto l'impero e sono state ricollegate alle botteghe della vicina Alcolea del Rio. L'esame delle monete ha permesso di concludere che si tratta di oltre 50.000 pezzi di epoca tardo-imperiale, in bronzo e in alcuni casi bagnati d'argento. Le iscrizioni rimandano agli imperatori Diocleziano, Massimiano (Marco Aurelio Valerio Massimiano Erculio), Massenzio e, probabilmente, Costanzo I e Severo II. La datazione proposta si aggira, pertanto, intorno agli anni della tetrarchia (293-313 d.C.). Sul verso di alcuni esemplari sono presenti varie raffigurazioni allegoriche tradizionali, tra cui quella dell'Abbondanza.
La sostanziale integrità delle monete ha suggerito che fossero state appena coniate e accantonate in questo luogo, forse per pagare gli stipendi dei soldati o dei funzionari imperiali. Rinvenute a circa un metro di profondità nel terreno e ricoperte con mattoni e frammenti di terracotta, le ipotesi sulla loro presenza in quel punto specifico sono ancora molteplici e necessitano di ulteriori ricerche per essere consolidate.
Forse le monete sono state seppellite per metterle al riparo in un momento di instabilità politica o, forse, nel luogo in cui sono state rinvenute vi era una sorta di deposito di sicurezza all'interno di un edificio militare.
Le prime legioni romane sbarcarono nella penisola iberica a partire da 218 a.C., dando il via ad un periodo di conquista e dominio che durerà sino al V secolo d.C., quando i Visigoti invaderanno la zona. E' difficile, al momento, attribuire un valore economico al materiale rinvenute, ma certamente si tratta di un tesoro di diversi milioni di euro.

Fonti:
liberamente adattato da "Archeo" - giugno 2016
lastampa.it

Che fine ha fatto la Menorah?

La Menorah come appare raffigurata sull'Arco di Tito
(Foto: Wikipedia)
Nel 70 d.C. Tito conquistò Gerusalemme e fece radere al suoli il tempio fatto costruire da Erode il Grande. I tesori che il tempio conteneva furono trasportati a Roma. Nel bottino vi era anche la Menorah, come si può vedere da un rilievo dell'arco trionfale situato a pochi passi dal Colosseo.
L'ultimo "domicilio" conosciuto era nel Tempio della Pace a Roma, edificato nel 75 d.C.. La Menorah era il candelabro ebraico a sette braccia, tutto d'oro, l'oggetto più sacro, per gli Ebrei, dopo le Tavole della Legge, il simbolo più antico. Per il dolore legato alla conquista di Gerusalemme, alla distruzione del Tempio e alla rapina del suo tesoro, gli Ebrei romani si rifiutarono sempre di passare sotto l'arco che raffigurava la Menorah, il cosiddetto Arco di Tito.
Ricostruzione del Tempio della Pace (Foto: Capitolium)
Il Tempio della Pace andò a fuoco nel 192 d.C. e sebbene fosse immediatamente ricostruito, perse ogni sua valenza di tempio con funzione pubblica. Nel IV secolo d.C. finì per essere destinato ad ospitare attività produttive. Il candelabro, però, era stato già trafugato durante le due settimane di spoliazione dei Vandali di Genserico, nel 455. Venne portato in Africa, poi in trionfo a Costantinopoli, nel 534, quando Belisario conquistò Cartagine. Invano gli Ebrei ne chiesero la restituzione. Ma esistono mille e più leggende sulla sparizione della favolosa Menorah.
La Menorah appare nelle catacombe giudaiche dei primi secoli dell'era cristiana, come a Beth She'arim, in Israele, o in mosaici pavimentali come a Sardi, in Turchia, e in Siria, a Dura Europos (databile al 244-245 d.C., con rappresentazione di figure umane, cortei e scene della Bibbia ammesse dalla legge rabbinica). La Menorah compare anche nelle prime sepolture in Italia. A Venosa su un arcosolio con altri simboli tipici (corno, palma, cedro, anfora), nell'unica tomba rivestita in marmo del IV-V secolo. Ad Ostia si trova sull'architrave dell'arca della Torah, nella sinagoga scoperta nel 1961, sorta in due tempi, nel I e nel IV secolo.
Flavio Giuseppe (Foto: Wikipedia)
La Menorah scomparsa da Roma non è quella del Primo Tempio di Gerusalemme, quello voluto da Salomone con 3.000 tonnellate d'oro e 30.000 d'argento. Nel 515 a.C. sorge il Secondo Tempio, rifatto sotto Erode e concluso nel 64 d.C., anche se questo Secondo Tempio dura poco, visto che i Romani lo distrussero nel 70 d.C.. Di questa struttura sopravvive solo il muro occidentale, detto "muro del pianto".
Del candelabro del Primo Tempio abbiamo notizie da Ben Matityahu, singolare figura di politico e militare romano di origine ebraica, che non si convertì ed è meglio conosciuto come Giuseppe Flavio, storico nonché annalista. Scrive Flavio Giuseppe che la Menorah era "d'oro fuso, vuoto all'interno, del peso di cento mine, che gli ebrei chiamano kikkar; tradotto in lingua greca, vale un talento" (cioè 34,27 chilogrammi). Il primo candelabro non è mai tornato da Babilonia.
Fino al 2009 la raffigurazione più antica della Menorah era proprio quella sull'Arco di Tito. Ma proprio nel 2009 a Magdala, in Galilea, durante la costruzione di un centro culturale dei Legionari di Cristo, affiorarono i resti di una sinagoga del I secolo, anteriore alla distruzione del Secondo Tempio. Inciso a rilievo su una pietra, il candelabro.
Per alcuni la Menorah è la stilizzazione del roveto ardente di Mosè per altri è il sabato con i giorni della creazione. Il sette, i bracci della Menorah, sono un numero biblico: in sette anni Salomone costruisce il tempio, nel settimo mese dell'anno lo dedica, e lo si festeggia per sette giorni. Una tradizione ebraica vuole che il candelabro sottratto dai Vandali di Genserico sia solo una copia: quello autentico non avrebbe mai lasciato Gerusalemme.
Alcuni pensano che l'originale della Menorah sia rimasto nelle fondazioni del Tempio distrutto, nascosto dai sacerdoti. Per altri l'avrebbe occultato perfino il profeta Geremia, in attesa del Messia. Molte sono le ipotesi e le fantasie sulle fortune della Menorah: alcuni dicono che giaccia in fondo al Tevere; altri danno per certo che sia nascosta in Vaticano; Edward Gibbon, autore del "Declino e caduta dell'impero romano" pensa che sia naufragata con i vascelli dei Vandali.
Nel 1996 Shimon Shetree, allora ministro israeliano per gli affari religiosi, durante una visita ufficiale, pare abbia chiesto a Giovanni Paolo II se fosse vero che la preziosa memoria si trovasse in Vaticano, non ottenendo risposta. C'è chi addirittura afferma che Pio XII Pacelli abbia mostrato la Menorah a rabbi Herzog nel 1946, nella visita ufficiale che questi effettivamente gli rese il 10 marzo, ma per parlare del destino degli Ebrei rimasti orfani in Europa.
L'indizio più rilevante che la Menorah possa trovarsi ancora a Roma è nel museo ebraico, al centro della sala più vasta. Il museo è stato riaperto nel 2005 da Daniela di Castro, sotto il Tempio Maggiore, inaugurato nel 1904. La domina una lapide triangolare: è la pietra sepolcrale dei fratelli ebrei Nataniel, Ammon ed Eliau. Su un lato della pietra, i corredi del tempio di Gerusalemme e, al centro, al Menorah, sopra l'Arca Santa. Sull'altro lato un'iscrizione. Si tratta di otto righe in ebraico e in latino che narrano che i fratelli avrebbero rintracciato questi oggetti nel Tevere, 550 metri a sud dell'isola Tiberina, vicino allo sbocco della Cloaca Massima, senza però recuperarli. Nell'iscrizione si afferma che i fratelli vennero uccisi sotto Onorio (395-423 d.C.).
Questa lapide venne trovata nel 2002 in un mucchio di marmi nei giardini della sinagoga. In realtà essa non risale all'epoca di Onorio. Daniela Di Castro ha scoperto che, nell'angolo sinistro, è stata mutilata apposta e in tempi assai recenti. L'iscrizione menziona l'Arca, che però non è mai arrivata a Roma, e che quindi non poteva essere stata vista nel fiume. Le analisi chimiche datano la lapide tra la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Insomma l'unico indizio è un falso
A tutt'oggi nulla più si sa del destino dell'antico e prezioso reperto.

mercoledì 12 aprile 2017

Il mitreo di Vulci

Il mitreo di Vulci (Foto: italiaparchi.it)
Una delle più importanti scopertae di Vulci, è stata determinata da uno sterro clandestino avviato nel 1975 e tempestivamente fermato dai militari. Il successivo scavo, svolto dall'allora Soprintendenza Archeologica per l'Etruria Meridionale, mise in luce, sul pianoro occupato dalla città antica, nei pressi della Domus del Criptoportico, il caratteristico ambiente ipogeo costituito da un vestibolo affacciato sul lungo corridoio centrale, ai cui lati corrono i banconi riservati agli adepti durante le cerimonie.
Il ritrovamento venne presentato per la prima volta sul finire degli anni '90, presso il comune di Montalto di Castro e successivi interventi di scavo hanno meglio precisato le caratteristiche del monumento.
Già nel II millennio a.C., molto prima di divenire protagonista del suo culto misterico in età romana, la figura di Mitra aveva un ruolo importante in India, all'interno del pantheon vedico, nel quale incarnava il principio del rispetto dei patti e delle alleanze. La figura, in seguito, migrò nell'Iran achemenide, dove venne inquadrata nel sistema religioso zoroastriano, quale messaggero di Ahura Mazda e protettore prima del Gran Re e, dopo la conquista macedone dell'Asia, dei sovrani ellenistici d'Anatolia. Il dio persiano venne, infine, a contatto con il mondo latino.
Il castello di Vulci (Foto: lacollinadimontecchio.it)
Il culto di Mitra era articolato in diverse congreghe di iniziati, non legate tra loro da nessuna sovrastruttura, che avevano il proprio fulcro all'interno di ambienti, spesso ipogei, in cui si praticavano banchetti sacri e cerimonie religiose. Al centro del tempio mitraico dominava la raffigurazione del dio sotto forma di gruppo scultoreo o di rilievo votivo, che ritraeva sempre la stessa scena: Mitra, nelle vesti di un giovane abbigliato in abiti persiani e affiancato da due aiutanti, Cautes e Cautopates, che uccide il toro primordiale. Si tratta di un atto che simboleggia la creazione del cosmo.
Vi era, all'interno del culto mitraico, una rigida gerarchizzazione dei ruoli, ripartiti in sette ranghi ascendenti e corrispondenti i diversi ruoli rivestiti all'interno della comunità: Corax (corvo), Nymphus (sposo), Miles (soldato), Leo (leone), Perses (persiano), Heliodromos (portatore del sole), Pater (padre). Per questo i misteri mitraici si prestarono bene a rivestire una funzione di garanzia dell'ordine sociale costituito, divenendo oggetto di particolare devozione da parte di funzionari statali e membri dell'amministrazione imperiale.
Parco archeologico di Vulci (Foto: anticopresente.it)
Il mitreo di Vulci è uno dei rinvenimenti di maggiore prestigio e interesse scientifico nel più ampio panorama dell'Etruria. Ai confini della Regio VII si contano, oggi, cinque luoghi di culto identificati (Vulci, Tarquinia, Sutri, Cosa, Livorno) e tredici raffigurazioni della tauroctonia mitraica, otto sotto forma di rilievi e cinque di gruppi scultorei. Queste attestazioni sono più fitte nella fascia meridionale che in quella settentrionale dell'Etruria e sono particolarmente presenti lungo i maggiori assi viari dell'Etruria, in particolare le consolari Aurelia e Cassia.
La planimetria del mitreo di Vulci non presenta, a prima vista, alcuna differenza rispetto al modello canonico di questi edifici: un ambiente allungato, composto da un vestibolo d'ingresso e da un corridoio centrale delimitato da due lunghi banconi (podia), la cui funzione era quella di ospitare gli iniziati durante i banchetti sacri ed i riti iniziatici. I podia sono sostenuti da sei piccoli archi a tutto sesto che si aprono sul lato del corridoio e, probabilmente, rappresentano le prime sei sfere celesti e gli altrettanti livelli dell'iniziazione mitraica. L'ultimo livello, il Pater, doveva essere rappresentato dall'abside che accoglieva la statua tauroctona del dio Mitra, nota come Gruppo Maggiore. Accanto a quest'ultima si trovavano numerose altre sculture, tra cui una seconda tauroctonia (Gruppo Minore), la scultura di Cautes ed elementi architettonici e di corredo in marmo.
Vulci, la Domus del Criptoportico (Foto: etruschi.name)
Sono venuti alla luce, inoltre, un tesoretto monetale composto da emissioni databili tra il II e gli inizi del V secolo d.C. ed una notevole quantità di materiale ceramico, fra cui due splendidi vasi liturgici, un'olla e un cratere, probabilmente utilizzati durante le cerimonie e decorati con motivi serpentiformi e taurini.
Il sacello mitraico di Veio riutilizzò alcuni ambienti di servizio in disuso della Domus del Criptoportico, caratterizzata da una continuità di vita che perdura fino all'età traianea, agli inizi del II secolo d.C. A nordest della struttura sono venute, inoltre, alla luce alcuni ambienti residenziali mosaicati e intonacati, probabilmente pertinenti a una seconda domus, i cui piani pavimentali sembrerebbero essere in fase con il sacello. Se così fosse, il mitreo potrebbe essere stato edificato contestualmente a questa seconda villa e avrebbe fatto parte della domus di un ricco e facoltoso personaggio, come suggerito dall'opulenza dell'apparato scultoreo.
La rilevanza del santuario vulcente è data anche dalla conservazione degli strati di abbandono della struttura. Le sculture risultavano molto danneggiate e giacevano rovesciate nel corridoio centrale; i depositi monetali e i resti ceramici sembravano aver subito una sorte analoga nel vestibolo, sigillati al di sotto di uno strato di cenere che ricopriva i livelli di abbandono. Si tratta di tracce di una distruzione violenta seguita da un incendio doloso, azioni attribuibili ai cristiani che, nel corso del IV e V secolo, si abbandonarono a gesti del genere. I danni più vistosi sono quelli subiti dalle due tauroctonie. Al momento della scoperta il Gruppo Maggiore appariva spezzato in due parti e, in entrambi i gruppi, la testa del dio era assente.
L'asportazione e il mancato rinvenimento del capo delle due statue, che ritraevano lo stesso soggetto testimonia l'accanimento contro la statua di Mitra, un destino comune a quello di decine di altri arredi mitraici, tra cui due tauroctonie rinvenute in Etruria, un rilievo da Soriano nel Cimino e una statua da Cavriglia). Il tesoro monetale non venne depredato al momento dell'assalto, ma, piuttosto, sparso disordinatamente nel vestibolo, il che indica che l'atto distruttivo non era una semplice razzia, ma rispondeva ad una precisa missione di carattere divino.

Fonte:
Liberamente adattato da "Archeo" - agosto 2016

Trieste, tornano alla luce le antiche mura romane

Il tratto delle mura antiche scoperte a Trieste (Foto: ilpiccolo.gelocal.it)
Gli archeologi non hanno dubbi, la struttura muraria trovata recentemente a Trieste sarebbe parte delle mura di fondazione della Tergeste romana. Anche il materiali di cui è composto, un unico blocco di pietra arenaria, tipica del colle di San Giusto e del Carso, lo rende molto simile al tratto di mura venuto alla luce negli anni '80 nella vicina via del Seminario e già catalogato dagli archeologi come la prima cinta difensiva della Trieste romana, risalente al 32-33 a.C. e voluto da Ottaviano prima che diventasse imperatore.
C'è un altro elemento che fa di questa scoperta una svolta nella difficile ricostruzione archeologica dell'antica Trieste: la posizione. Il tratto di muro appena scoperto, infatti, è stato individuato in via della Cattedrale, all'altezza del civico 11, poco al di sotto di piazzetta San Cipriano. Si trova, dunque, proprio nella zona prospiciente a via San Michele, che divide il colle di San Giusto da quello di San Vito. Proprio in linea con il cordone lungo il quale venne costruita la prima cinta difensiva di Trieste, per salvaguardare il colle di San Giusto da ogni attacco nemico.
"Questa scoperta dimostra come a Trieste ci sia ancora molto da scoprire, soprattutto nell'ambito di Cittavecchia", commenta Paola Ventura, archeologa della Soprintendenza competente nella zona di Trieste. "Un tratto di mura come questo è un pezzo di storia della città che ci permette di approfondire quanto già emerso, lasciando ampio spazio a nuove interpretazioni".
La ristrettezza della superficie indagata, rimarcano sempre dalla Soprintendenza, non permette di avanzare ipotesi certe di interpretazione, ma i dati acquisiti, integrati alla forma del territorio indagato, consentono perlomeno di alimentare la suggestione che possa trattarsi di strutture riferibili alla prima cinta fortificata di Tergeste.
Dotato di un contrafforte e composto da due gradoni, a mò di scalinata, il reperto conservava al suo interno abbondante materiale ceramico e vitreo di epoca romana e tardoromana, con un'enorme quantità di frammenti di anfora e di terre sigillate rinvenuto negli strati di appoggio. Si pensa, pertanto, a un successivo riutilizzo della struttura come discarica di materiali, effettuata all'interno di uno spazio chiuso. Di qui l'ipotesi, ancora non definita, che potesse trattarsi di una torre difensiva.
E' anche ipotizzabile che in epoca ottocentesca venisse sfruttata come pozzetto, riempito con la cenere proveniente dalle cucine delle monache di San Cipriano, a testimonianza di un suo lungo utilizzo. Ma l'ipotesi che sia un tratto della cinta voluta dal primo imperatore romano non è l'unica avanzata.
Gli archeologi pensano, in seconda battuta, che possa trattarsi di una struttura monumentale. Anticamente, infatti, via della Cattedrale conduceva all'Acropoli situata in cima al colle di San Giusto nei pressi della basilica. Potrebbe dunque trattarsi di un monumento come quello che gli archeologi stanno ristrutturando nella vicina via dei Capitelli.
 
Fonte:
ilpiccolo.gelocal.it


Aquileia: nuove importanti scoperte

Il pavimento musivo riportato alla luce ad Aquileia
(Foto: ilfiruli.it)
Aquileia, gli scavi in via delle Vigne Vecchie hanno portato alla luce una costruzione con sette vani e un pavimento musivo.
Una trincea, lunga una trentina di metri, per una larghezza di circa due, corrispondente all'ampiezza della striscia di terreno tra il campo arato di proprietà Ritter e la strada all'incrocio con via Julia Augusta, ha riportato alla luce, a soli 20 centimetri di profondità, parte di sette vani affiancati uno all'altro: sei conservano la pavimentazione in mosaico più o meno danneggiata, uno presenta, invece, una superficie in cubetti di terracotta.
Lo scavo archeologico preventivo, effettuato dalla Ditta Archeotest su incarico della Soprintendenza e sotto la Direzione scientifica del Funzionario archeologo Paola Ventura, in occasione della realizzazione di uno spaccio agricolo, di servizio al campo, nonché di un posteggio e di una canalizzazione, si è reso indispensabile in quanto la zona è ad alto rischio archeologico.
L'area, già sottoposta, infatti, a vincolo nel 1931, costituisce la naturale prosecuzione del complesso noto come "Casa delle Bestie Ferite" che non risultava completo nella sua struttura. Per il momento si sta cercando, quindi di ricontestualizzare il nuovo complesso proprio in relazione all'importante domus scavata dall'Università di Padova fin dal 2007 e della quale il recente rinvenimento costituisce l'articolazione settentrionale più prossima al decumano.
La stratigrafia, relativa all'edificio ha consentito di attestare almeno quattro fasi che vanno dall'epoca tardo-repubblicana, fine I secolo d.C., tra l'altro raramente documentata ad Aquileia, al IV secolo d.C.. Durante i lavori di rilievo archeologico è stato possibile documentare anche delle suspensurae che sostenevano una superficie più alta andata perduta, indice della presenza di un vano riscaldato. Di grande rilievo i mosaici pavimentali, in tessere bianche e nere, con decori vegetali a crocette che caratterizzano la pavimentazione dei vani.

Fonte:
ilfriuli.it

martedì 11 aprile 2017

Il "Gladiatore" e i suoi compagni...

Il sepolcro di Marco Nonio Macrino (Foto: Corsera)
Nuove, sensazionali, scoperte nell'area archeologica al V miglio della via Flaminia, la consolare che collegava Roma con l'Adriatico, giungendo fino ad Ariminum (Rimini). Qui, nel 2008, in località Due Ponti, era tornato alla luce il mausoleo di Marco Nonio Macrino, senatore bresciano nonché generale sotto Marco Aurelio (161-180 d.C.) nelle guerre contro Marcomanni, Quadi e Sarmati Iazigi.
Si ritiene che la figura di Macrino abbia ispirato il regista Ridley Scott quando ha girato il film "Il Gladiatore". Le indagini che la Soprintendenza speciale per il Colosseo e l'Area archeologica centrale di Roma sta conducendo dal 2012 hanno portato al rinvenimento di una vera e propria necropoli a carattere militare. Le nuove ricerche, oltre a chiarire l'aspetto delle strutture già emerse, hanno restituito altri monumenti funerari, uno dei quali, in età tardoantica, venne sfruttato per l'impianto di una fullonica.
Sono state rinvenute anche diverse stele di pretoriani, che portano a pensare che qui ci fosse un'area sepolcrale a loro strettamente riservata. Dopo la scoperta della tomba di Macrino e di due sepolcri monumentali, di cui uno attribuibile ad un console vissuto in età adrianea (117-138 d.C.), con gli ultimi scavi sono emersi i resti marmorei di un sepolcro ad altare. Il primo è appartenuto, con tutta probabilità, ad un personaggio di rango equestre, dal momento che presso l'entrata del sepolcro è stata trovata la sepoltura di un cavallo, vissuto nel I secolo d.C.
Gli archeologi ora si stanno concentrando sull'edificio funerario al quale si sovrappose la fullonica, databile alla seconda metà del II secolo d.C.. Questo monumento si trova a lato del sepolcro di Marco Nonio Macrino, orientato nella stessa direzione. Probabilmente, dunque, i due monumenti erano collegati, inglobati in un unico progetto, con il monumento funebre sotto la fullonica destinato alle sepolture della famiglia del senatore bresciano, oppure deputato al culto funerario dello stesso.

Fonte:
Adattato da "Archeologia Viva" - novembe/dicembre 2016

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