mercoledì 30 maggio 2012

Primi ebrei in Portogallo

La lastra ritrovata dagli archeologi tedeschi
Gli archeologi dell'Università Friedrich Schiller di Jena (Germania), hanno trovato alcune tra le più antiche testimonianze archeologiche finora conosciute della cultura ebraica nella penisola iberica. Il ritrovamento è avvenuto nel sud del Portogallo, vicino alla città di Silves, nell'Algarve.
Su una lastra di marmo di 40 x 60 centimetri si possono leggere chiaramente delle lettere ebraiche la cui sequenza non è stata, però, ancora decifrata. Gli archeologi pensano che la lastra possa appartenere ad una sepoltura e stanno cercando di datare il tutto attraverso il materiale trovato nei pressi. Si pensa che, orientativamente, la tomba possa risalire al 390 d.C.
Finora la più antica testimonianza della presenza di ebrei in Portogallo è stata una lastra tombale con iscrizione latina, recante l'immagine della menorah, il candelabro a sette braccia, risalente al 482 d.C.

Capitani coraggiosi...

I resti delle imbarcazioni ritrovate in Grecia
Due relitti di epoca romana sono stati ritrovati al largo della Grecia, dimostrando che gli antichi capitani erano capaci di sfidare il mare aperto, contrariamente a quel che si pensava finora.
Il Ministero della Cultura greco ha stimato che le due imbarcazioni risalgano al II secolo d.C. e si trovano dove dovrebbe essere posta la tubazione di un gasdotto tra la Grecia e l'Italia, tra le isole di Corfù e Paxos.

Una tomba intatta ritrovata nell'Alto Egitto

Corredo in alabastro della tomba di Deir el-Barsha
Gli archeologi hanno scoperto, nell'Alto Egitto, una tomba antica di 4000 anni, contenente un sarcofago inscritto con i testi di un antico rituale ed oggetti legati ai riti funebri. Da molto tempo non si trovavano sepolture così ben conservate.
La tomba risale al Primo Periodo Intermedio (2181-2055 a.C.) ed è veramente eccezionale perché pochissime testimonianze di quel periodo sono giunte sino a noi.
Grazie alla lettura dei testi sul sarcofago si è risaliti al nome del proprietario della tomba: Djehuty-Nakht, figlio di Aha-Nakht e governatore del XV nomo dell'Alto Egitto.
Gli oggetti rituali ritrovati nella tomba sono costituiti da oggetti di rame, di alabastro, terracotta ed altro materiale. La sepoltura si trova a Deir el-Barsha, una località archeologica nella provincia di el-Minya, 245 chilometri a sud del Cairo. A fare l'importantissima scoperta sono stati gli archeologi Belgi dell'Università Cattolica di Lovanio.
Durante il Medio Regno Deir el-Barsha fu il principale cimitero dei governatori del XV nomo dell'Alto Egitto. Risale alla XI e XII Dinastia. La tomba più spettacolare che è stata ritrovata in questo luogo è quella del Gran Signore del Nomos Hare, Djehutihotep, che visse durante i regni di Amenemhat II, Sesostri II e Sesostri III.

Nuove scoperte a Chalcatzingo

Il sito di Chalcatzingo
Nel sito di Chalcatzingo, in Messico, sono stati rinvenuti un altare ed una stele risalenti all'800 a.C.. L'altare è rettangolare ed è coperto di iscrizioni che rappresentano la pioggia. A pochi metri dall'altare vi era una stele incompiuta di 1,70 metri di altezza.
Gli archeologi pensano che entrambi i ritrovamenti risalgano ad un periodo compreso tra l'800 ed il 500 a.C., come un rilievo raffigurante tre gatti trovato nello stesso luogo meno di un anno fa. Le ultime scoperte sono state effettuate in un quartiere residenziale di quella che era un'antica città olmeca. La differenza di datazione tra i due reperti è stata spiegata con l'usanza degli Olmechi di riporre, anziché distruggere, gli elementi architettonici che non erano più utilizzati. L'altare e la stele sarebbero stati seppelliti all'interno di alcuni edifici per spogliarli definitivamente del loro significato sociale e religioso.
Chalcatzingo è un sito archeologico precolombiano situato nella valle di Morelos. Venne fondato nel 1500 a.C. e gli abitanti iniziarono a produrre oggetti in stile olmeco intorno al 900 a.C.. All'apice del suo sviluppo, Chalcatzingo contava una popolazione di 500-1000 membri (700-500 a.C.).
Il villaggio possedeva un'area centrale dove vivevano i personaggi di spicco della società. La maggior parte delle sepolture erano situate sotto i pavimenti delle case.

martedì 29 maggio 2012

Rudiae dai due anfiteatri

Lecce, anfiteatro romano
La città messapica di Rudiae, nota per aver dato i natali al poeta latino Quinto Ennio, è uno dei tesori archeologici più importanti del Mediterraneo. Il comune di Lecce ha acquisito la zona indicata come anfiteatro. In questo modo sono potuti iniziare gli scavi degli edifici e si sono potuti raccogliere i primi risultati: nella dolina naturale al centro dell'abitato vi era l'anfiteatro della città, il secondo dopo quello di piazza S. Oronzo. Questo ritrovamento accomuna Lecce a Roma, anche quest'ultima dotata di due anfiteatri. L'anfiteatro di Rudiae haveva i sedili in legno poggiati su un terrapieno; i sedili dell'anfiteatro di S. Oronzo poggiavano su costruzioni sotterranee con volte a botte.
Dopo la conquista del Salento, alla metà del III secolo a.C., i Romani crearono a Rudiae il centro più importante della regione e lo dotarono di edifici pubblici di una certa importanza. Con Augusto fu Lecce a guadagnare importanza, anche se l'anfiteatro di Rudiae è un esempio importante tra i dieci edifici di età repubblicana attestati in Italia, tra Lazio e Campania. Quello di Rudiae, ha affermato il professor Francesco D'Andria, direttore della Scuola di Specializzazione in Archeologia dell'Università del Salento, è un unicum a sud di Paestum e si distingue anche per le dimensioni ragguardevoli.
Rudiae messapica gravitava nell'area di influenza della colonia dorica di Taranto e sorgeva nei pressi dell'attuale comune di San Pietro in Lama, presso Lecce. In epoca normanna si fa cenno a Rudiae come collocata presso Lupiae, l'antica Lecce. Alcuni studiosi ritengono che Rudiae sia stata considerata, per lungo tempo, un sobborgo dell'antica Lupiae.
I materiali ritrovati consentono di datare la prima presenza umana già tra il IX e l'VIII secolo a.C.. L'insediamento vero e proprio acquisì importanza tra il VI e il III secolo a.C.. Le leggende locali sostengono che a fondare la città sia stato un personaggio favoloso, Malennio, re dei Salentini e discendente di Minosse. Suo figlio si chiamava Daunio e sua figlia Euippa. Costei andò sposa a Idomeneo, re di Creta.
L'imperatore Adriano costruì la via che congiungeva Brindisi a Lecce e quest'ultima al mare. Ad undici chilometri da Lecce si possono ancora ammirare i resti del porto Adriano dove, secondo gli storici, sarebbe sbarcato Ottaviano, reduce da Apollonia e diretto a Roma dove sarebbe stato incoronato imperatore.

domenica 27 maggio 2012

Studenti fanno riemergere un magnifico mosaico

Il mosaico tornato alla luce ad Oratorio delle Muriccia
Alcuni studenti di archeologia dell'Università di Pisa, guidati dal docente professor Federico Cantini, hanno scoperto un mosaico durante lo scavo nei resti di una villa romana in località Oratorio delle Muriccia.
Il mosaico è perfettamente conservato e risale al IV secolo d.C., quando la villa fu, probabilmente, rimaneggiata. Il complesso, a giudicare da una lapide rinvenuta in situ, sarebbe appartenuto alla nobile famiglia romana dei Vettii, il cui esponente più conosciuto è Vettio Agorio Pretestato, governatore, all'epoca a cui appartiene il mosaico, della Tuscia e dell'Umbria.
Il mosaico è stato messo in sicurezza e sarà visibile ai turisti il 30 maggio. L'opera misura 5 x 4,30 metri e probabilmente manca di una parte che si estenderebbe sotto l'area dell'attuale scavo. Vi è raffigurata una scena di caccia con un uomo armato di lancia che trafigge un cinghiale. Nel mezzo sono presenti figure geometriche.
I temi del mosaico sono esclusivamente pagani, in quanto i Vettii si opponevano decisamente al diffondersi del cristianesimo. Dopo i saggi di scavo condotti negli anni '80 del secolo scorso, alle Muriccia (toponimo che indica la presenza di resti di mura nei dintorni) si sta compiendo uno scavo che vede la collaborazione tra l'Università di Pisa e la Soprintendenza.
La villa a cui appartiene lo straordinario reperto tornato in luce, fu costruita, nel IV secolo d.C., su edifici preesistenti. Il mosaico, per la fattura e le scene raffigurate, è un indizio che la decadenza di cui tanto si parla per quel periodo storico è ben lontana: è in tessere policrome e curato in ogni particolare. I tasselli hanno una grandezza compresa tra i 7 ed i 10 millimetri, fatti in calcare, aspro e terracotta su sfondi di marmo bianco.
Con il mosaico sono tornati alla luce frammenti di anfore, molti dei quali erano stati già raccolti trent'anni fa, nei primi saggi di scavo. La località nota come Oratorio si ricollega con un Romitorio annoverato, fin dal 1576 tra i possedimenti della Pieve di Limite. All'epoca non era visibile nulla dell'insediamento di età romana. Nel 1765 alla Castellina, che comprende, oltre all'Oratorio, l'area del castello di San Biagio, fu ritrovato un pavimento a mosaico accanto al quale emersero varie condutture di piombo con dei bolli che vennero ricondotti non alla villa dei Vettii, ma ad un'altra villa romana che si trovava nell'insediamento etrusco in località Campi Bagni, a breve distanza da Oratorio delle Muriccia, ma collegato con il sito etrusco di Montereggi.
I reperti rinvenuti nella campagna di scavo del 1983, sono esposti al Museo Archeologico di Montelupo Fiorentino. Gli scavi attuali, iniziati nel 2010, sono i primi dopo vent'anni di abbandono del sito.

sabato 26 maggio 2012

Una sepoltura medioevale nella metro di Napoli

Napoli, lo scheletro emerso durante i lavori della metro
A Napoli, a piazza Municipio, dove sono in corso da anni i lavori di costruzione della stazione della metro, è affiorato uno scheletro risalente al medioevo. Il reperto si trovava ad una profondità di circa otto metri, dove si sta realizzando la scala d'accesso per la stazione.
L'archeologa Daniela Giampaolo, della Soprintendenza, lo ha datato ad un periodo compreso tra il VII e l'VIII secolo a.C.. Lo scheletro era sepolto in una tomba a fossa, scavata nel terreno, una delle tante sparse nella zona. Sulle prime sembrava presentare tracce di sangue che avevano fatto pensare ad una morte più recente.
Dal giugno 1999, quando si sono aperti i cantieri per la costruzione della metropolitana, i ritrovamenti archeologici sono stati numerosi, a conferma della stratificazione del sottosuolo napoletano. Nel gennaio del 2004 è affiorato persino il porto romano, a tre metri e mezzo sotto il livello del mare, tredici metri dall'attuale piano di calpestio. Il porto, spiegano gli archeologi, sarebbe stato attivo fino al 400 d.C., quando la zona si impaludò. Poi, nel VII secolo d.C., fu completamente occultato da una strada. Durante gli scavi sono emersi oltre 200 reperti: una barca da carico di nove metri, anfore, monete corinzie, bottiglie di vetro contenenti unguenti, ceramiche, ancore di epoca romana. Tutto intatto.

L'ombra di Micene

Micene, la cosiddetta maschera di Agamennone
Agamennone, figlio di Atreo, re di Micene e suo fratello Menelao, vuole la leggenda, si recarono a Sparta dove Agamennone prese in sposa Clitennestra, figlia di Tindareo, re della città, dalla quale ebbe quattro figli: Ifigenia, Crisotemi, Elettra e Oreste. Omero vuole che Agamennone sia succeduto, in modo del tutto pacifico, a Tieste sul trono di Micene. Proprio per questo, quando Elena, moglie di Menelao, venne rapita, fu Agamennone a comandare i Greci a Troia. Questi sono, nell'immaginario collettivo, i reali di Micene, antica città ancora confinata nel mito.
L'antica e suggestiva città di Micene sorge in cima a una collina nella piana dell'Argolide. Omero la chiamò "la ricca d'oro", una terra intrisa di miti e leggende per lo più tragiche che riguardarono i suoi regnanti di un tempo. La scoperta della città è dovuta a Heinrich Schliemann (1822-1890), il quale aveva a sua guida i versi di Omero e le descrizioni di Pausania. L'archeologo dilettante mise in luce, tra il 1874 e il 1876, un circolo di tombe dove i defunti erano stati inumati con corredi favolosi, testimonianza di una civiltà opulenta.
Micene, la Porta dei Leoni
La leggenda vuole che la città di Micene sia stata fondata da Perseo, re di Tirinto, figlio di Zeus e Danae, che ordinò ai Ciclopi di costruire mura imponenti per proteggerla. Dopo la morte dell'ultimo discendente di Perseo, venne scelto come re Atreo, figlio di Pelope ed Ippodamia, capostipite di una nuova dinastia le cui tragiche vicende personali sono state descritte in molte delle tragedie greche, prime tra tutte le tragedie della trilogia di Eschilo l'Orestea. La serie di disgraziate vicende ebbe inizio quando Atreo diede da mangiare al fratello Tieste i suoi stessi figli, attirando, in tal mondo, la maledizione degli dèi. Maledizione che si sarebbe estesa a tutta la discendenza di Atreo. Agamennone, suo figlio, fu assassinato al ritorno dalla guerra di Troia dalla moglie Clitennestra e dall'amante Egisto. Oreste, figlio di Agamennone, per vendicare il padre uccise la propria madre e il di lei amante e venne perseguitato dalle Erinni fino a quando sarà liberato dal giudizio dell'Areopago di Atene presieduto da Athena stessa.
La civiltà che espresse Micene nacque nella seconda metà del XVII secolo a.C. da culture locali della media Età del Bronzo. Intorno al 1600 a.C. l'eruzione devastante del vulcano di Thera cambiò la fisionomia politica dell'Egeo. La flotta minoica scomparve del tutto e i Micenei approfittarono del collasso di quella civiltà per invadere l'isola di Creta e distruggere i palazzi che la punteggiavano. Poi stabilirono a Cnosso la loro residenza.
Micene, dromos di accesso alla cosiddetta
Tomba di Agamennone
Gran parte di quello che si conosce della civiltà micenea è dovuto a quanto è stato trovato nelle tombe di Micene. Gli esponenti di questa cultura controllavano il flusso di una serie di metalli strategici quali il rame, lo stagno e l'oro. Nel XVI secolo a.C. essi iniziarono a costruire tombe sempre più impressionanti, in pietra, con una cupola chiamata tholos e un corridoio monumentale di accesso. Erano tombe collettive, destinate ad ospitare i membri delle grandi famiglie aristocratiche che governavano Micene. Lungo i pendii della collina dove sorge Micene sono state ritrovate la cosiddetta Tomba di Egisto (1500 a.C.), la Tomba del Leone (1350 a.C.), la Tomba detta di Clitennestra (1220 a.C.) e, infine, quella di Atreo (1200 a.C.).
Il culmine questa civiltà lo raggiunse tra il 1400 e il 1150 a.C., quando furono edificate vaste regge provviste di magazzini e sofisticati sistemi idraulici, legate a porti sulla costa.
La scrittura di Micene è stata battezzata dagli studiosi "Lineare B" ed era utilizzata per trascrivere note contabili su tavolette di argilla cruda. Se ne sono trovate diverse in tutta la Grecia peninsulare, a Micene, Pilo, Tirinto, Tebe ed anche a Creta. La scrittura, e conseguentemente anche le tavolette, fu decifrata negli anni '50 del secolo scorso da Michael Ventris (1922-1956).
Atene, Museo Nazionale, il tesoro delle tombe di Micene
Micene, fortificata sin dal IV millennio a.C., era posta in corrispondenza di un importante nodo strategico. Qui passavano piste di terra e rotte del Mediterraneo Orientale. Il palazzo reale era stato edificato tra il XIV e il XIII secolo a.C. su terrazze artificiali e naturali, a più piani sovrapposti, con le pareti composte da intelaiature ortogonali di pali che bloccavano la pietra e l'argilla. L'esterno era rivestito da blocchi di calcare, mentre l'interno era intonacato e rivestito di affreschi. Di questa reggia resta, oggi, solo il nucleo centrale, il megaron, la sala del trono con un grande focolare al centro attorniato da quattro colonne. Qui si riuniva il consiglio, qui il re dava udienza, qui si svolgevano le riunioni familiari. Nel palazzo si trovavano anche gli archivi e i laboratori artigianali, i magazzini e piccoli ambienti di culto.
Attorno al palazzo di Micene si trovavano le abitazioni dei funzionari, degli artigiani e di parte del clero. Le possenti mura delimitano un triangolo che si estende per 900 metri e circonda una superficie di 3000 metri quadrati. Sono composte da enormi blocchi grezzi che, nei punti critici, sono sostituiti da pietre squadrate e lisciate. La prima cinta muraria venne costruita nel 1350 a.C. e lasciava fuori il circolo sepolcrale aristocratico, che fu incluso in una seconda cerchia di mura, edificata nel 1250 a.C.
Micene, il megaron
Al vertice di Micene vi era il wa-na-ka (l'anax della futura tradizione greca), assistito dal ra-wa-ge-ta (il duce del popolo, forse il comandante dell'esercito). A scalare nella gerarchia di palazzo si trovavano il te-re-ta, una specie di sacerdote che aveva il compito di distribuire le terre, il qa-si-re-u (che, in seguito, diventerà il basileus, il re, il capo) e l'e-qe-ta, il cavaliere. Il clero, ovviamente, godeva di un grandissimo prestigio ed era considerato una classe a se stante.
I cittadini liberi coltivavano la terra e allevavano il bestiame. Tutti insieme formavano il da-mo (demos in greco, popolo). La schiavitù era piuttosto diffusa. La terra coltivabile era divisa tra possedimenti del palazzo e terra comune, a disposizione del da-mo. Si coltivavano orzo e grano, l'olivo e la vite, il fico e il sesamo. Dalle pecore si otteneva la lana.
Furono altre popolazioni, i Dori o i cosiddetti Popoli del Mare, a determinare la fine di Micene. Le stesse popolazioni che si installarono provvisoriamente sulle sue rovine, costruendovi sopra ma non riuscendo a restituire alla città il passato prestigio. In età romana Micene era ridotta ad un piccolo borgo spopolato, perlomeno così la descrive Pausania. Nel V secolo d.C. la città era ridotta a poche capanne e subì un devastante incendio che la distrusse. Venne ricostruita come borgata agricola su un'altura poco distante.
Schliemann, che scoprì la necropoli reale di Micene, era convinto di aver riportato alla luce i tesori e i ricordi dei re omerici. In realtà i gioielli che aveva trovato nella necropoli di Micene furono successivamente datati ai secoli XVI e XII a.C.. Oltre ai gioielli furono ritrovati sigilli, ceramiche e tavolette inscritte.
Micene, circolo delle tombe reali
Oltre al megaron, dell'antica, potente Micene rimane la monumentale Porta dei Leoni, preceduta da un bastione che permetteva di colpire gli eventuali nemici in avvicinamento dal lato del braccio armato non protetto dallo scudo. La Porta prende il nome dal massiccio architrave sormontato da una grande lastra triangolare con due leoni o leonesse affiancate. Lo stesso motivo si ritrova in alcuni sigilli. Una composizione che ricorda da vicino alcuni aspetti dell'arte ittita.
Della metà del XIII secolo a.C. è il cosiddetto Tesoro di Atreo o Tomba di Agamennone, che ospitava i resti di un sovrano che, probabilmente, portò a compimento la rocca. La tomba è simile ad altre tholoi del Mediterraneo orientale ed ha un aspetto monumentale. E' alta 13 metri con un diametro di 14,50. Il dromos di accesso è lungo 36 metri ed ha le pareti rivestite di pietra. Il portale che immetteva nella sepoltura era decorato con semicolonne in calcare verde con motivi a zig-zag sul fusto, un fregio con rosette sull'architrave della porta e una decorazione a fasce con spirali sulla lastra di marmo rosso che chiudeva l'apertura triangolare sull'architrave.
In un altro circolo funerario, chiamato Circolo B, più antico, sono state ritrovate 24 tombe a fossa, delle quali almeno 14 erano tombe reali. Ogni tomba all'esterno era contrassegnata da un piccolo recinto di pietre e da una stele a motivi geometrici e figurati.
E' tutto quel che rimane dell'antica, potente, città di Agamennone.

Hierapolis e la tomba di Filippo

Hierapolis, necropoli
Anticamente la valle del fiume Lykos - che ora si chiama Curuksu - affluente di un altro fiume famoso, il Meandro, era attraversata dalla Strada Reale Persiana, uno degli assi stradali più famosi dell'antichità, che collegava Persepoli con la costa dell'Egeo e con il Mediterraneo. Proprio lungo quest'asse viario, per controllare il territorio, era stata costruita la città di Colosse, nella quale risiedeva il satrapo. Ben poche testimonianze rimangono di questo periodo. Più numerose e ben conservate sono le testimonianze, invece, di epoca ellenistica.
La pianura del Lykos è anche attraversata da una faglia sismica ed i terremoti, nel corso dei secoli, hanno modificato e plasmato la geografia di questo luogo. Innanzitutto le fratture della faglia hanno permesso alle acque calde delle profondità della terra di emergere al suolo, ricche di carbonato di calcio, a formare delle spettacolari cascate di travertino che caratterizzano l'importante sito archeologico di Hierapolis, chiamato dai turchi Pamukkale, castello di cotone, proprio per il bianco abbacinante di queste cascate di pietra.
Hierapolis, il complesso di San Filippo
Nel III secolo a.C., in piena età ellenistica, questa località era densamente popolata. Furono, in particolare, fondate qui due città a poca distanza l'una dall'altra: Laodicea e Hierapolis. In quest'ultima già scaturivano le sorgenti termali dalle profonde lesioni nel banco di travertino e si aprivano varie grotte dalle quali, oltre a vapori utili e piacevoli, ne scaturivano altri venefici, anidride carbonica ed altri gas che potevano causare stordimento ed anche morte in chi li inalava. I latini chiamavano queste fessure ferali spiraculum Ditis, Apuleio le ribattezzò Ploutonion, vale a dire ingresso agli inferi.
Ben presto Hierapolis passò sotto il controllo di Roma che sfruttò la capacità delle sue acque termali di fissare i pigmenti ai filati di lana, colorati di rosso grazie alle radici della robbia. I tessuti così colorati venivano esportati in tutto il Mediterraneo perché somigliavano ai tessuti tinti di porpora ma erano più accessibili di questi ultimi.
Hierapolis, la tomba di Filippo
Augusto e Tiberio monumentalizzarono la cittadina ellenistica, costruendovi, tra le altre cose, la plateia, una lunga via lastricata che attraversava Hierapolis da nord a sud. Un'altra fase di grande sviluppo si ebbe all'epoca di Antonino Pio (138-161 d.C.), quando l'agorà nord fu dotata di diversi monumenti annessi. In seguito fu modificato anche il preesistente teatro, i sedili in travertino della cavea vennero sostituiti da sedili di marmo e pure di marmo fu dotata la frontescena, con tre ordini architettonici straordinariamente decorati con la raffigurazione dei culti di Apollo ed Artemide. Due grandi fontane accompagnarono la plateia: quella dei tritoni, lunga 70 metri, all'ingresso dell'area urbana e il ninfeo del tempio di Apollo, celebre per il suo oracolo, nel cuore di Hierapolis.
Dopo un violento terremoto verificatosi nel IV secolo d.C., la città non fu in grado di ricostruire molti dei monumenti di cui era un tempo dotata. La situazione economica era molto mutata dall'epoca delle munificenze imperiali ma, soprattutto, una nuova religione andava facendosi largo in tutto l'impero: il cristianesimo. Hierapolis si riorganizzò in un'area di circa 65 ettari protetta da possenti fortificazioni. Il complesso sorto in età antonina intorno all'agorà nord  sopravvisse soltanto nella parte termale, trasformata in chiesa. Il resto divenne una sorta di cava a cielo aperto di materiale a costo zero che, il più delle volte, veniva trasformato in calce.
Roma, la tomba di Filippo e Giacomo
A partire dall'età di Teodosio (347-395 d.C.) la città andò riorganizzandosi all'interno delle sue fortificazioni: gli antichi santuari pagani vennero smantellati e si cominciarono a costruire chiese sempre più ricche e complesse. Non lontano dall'antico santuario di Apollo venne costruita una straordinaria chiesa sostenuta da grandi pilastri in travertino. Da questa chiesa proviene un'iscrizione che menziona il patriarca Gennadios. Un'altra chiesa domina la conca del teatro da una collina dove, un tempo, sorgeva il Dodekatheon, l'altare dei Dodici dei.
Le testimonianze più importanti dell'età protobizantina, però, sono costituite dal complesso monumentale sulla collina orientale, conosciuto come il santuario di Filippo, uno degli apostoli, la cui presenza a Hierapolis è testimoniata in numerose fonti. A Hierapolis Filippo morì e fu sepolto.
Il santuario di Filippo è stato scavato, nel 1957, da una missione italiana, capeggiata dall'archeologo Paolo Verzone che concentrò lo scavo su una chiesa a pianta ottagonale che aveva identificato come il Martyrion di Filippo. Ad indirizzarlo in questa direzione era stata anche la simbologia legata ai numeri: gli otto lati del corpo centrale si riferiscono all'Aion, il tempio senza fine, l'Aeternitas; il quadrato che ingloba la chiesa richiama i quattro Evangelisti; i cortili triangolari alludono alla Trinità; le cappelle a sette lati ricordano la sacralità del numero sette, risalente alla tradizione giudaica e alle sette chiese menzionate nell'Apocalisse.
Hierapolis, il santuario di Filippo visto dall'alto
Nei primi anni della missione la tomba di Filippo venne cercata, senza risultato, all'interno della chiesa ottagonale. Nel 2000, grazie anche a mezzi più moderni, l'equipe guidata dal ricercatore Giuseppe Scardozzi riuscì ad identificare altri ambienti che circondavano il Martyrion. Si trattava, dunque, non di una singola chiesa quanto, piuttosto, di un complesso raggiungibile attraverso una lunga strada processionale che partiva dalla porta di ingresso a Hierapolis. Ai piedi della collina è stato identificato, inoltre, un secondo ottagono risalente anch'esso al V secolo d.C. e che era un luogo di sosta dove i pellegrini si purificavano prima di ascendere alla collina. Gli scavi hanno evidenziato la presenza di terme, all'interno della forma ottagonale, composte da piccole vasche accuratamente rivestite di marmo. Vicino sono stati rinvenuti piccoli recipienti in terracotta segnati da croci e altre immagini di santi, che dovevano contenere l'olio delle lampade che ardevano sui luoghi sacri della cristianità.
Un'altra sosta per la purificazione era prevista presso una fontana tuttora visibile dove campeggiava una gran massa di pietrame che, è stato appurato recentemente, altro non era che la copertura di un importante edificio mai indagato in precedenza. Ad attirare l'attenzione degli studiosi era la parte sommitale di una tomba a sacello di età romana, appena visibile al di sopra dei crolli. Questa tomba aveva una particolarità singolare: tutta la sua facciata era interessata da fori, alcuni dei quali conservavano ancora i chiodi di ferro. La cornice della porta, poi, appariva molto levigata.
Sigillo per il pane di Filippo
La struttura è stata scavata nel 2011 dall'archeologo Francesco D'Andria, ed ha rivelato una chiesa protobizantina a tre navate con abside centrale. Una chiesa che sembrava essere sorta attorno alla tomba romana di I secolo d.C.. I fori esterni non erano di epoca romana, ma denotavano la presenza, in antico, di un rivestimento di metallo, forse una porta in bronzo o in argento. Dal vestibolo interno una scala di marmo permetteva ai pellegrini di raggiungere una piattaforma sulla tomba stessa, dove, con tutta probabilità, ardevano le lampade votive alle quali i fedeli attingevano l'olio santo da portare al loro ritorno.
Nella navata centrale di questa chiesa, proprio accanto alla tomba, gli scavi hanno riportato alla luce due profonde piscine rettangolari rivestite di marmo, collegate a due vasche più piccole per le immersioni individuali. Questi ritrovamenti hanno fatto pensare agli archeologi ed agli storici che il culto di Filippo fosse anche collegato a pratiche di guarigione attraverso l'acqua. Quest'ultima era portata dalle sorgenti dell'altopiano sopra la città.
Lo scavo è proseguito nella zona absidale, dove è stato intercettato un recinto con colonne di marmo che aveva la funzione di dividere i fedeli dalla zona in cui si svolgeva il culto. Qui è stato ritrovato l'altare martiriale. Sopra una lastra di marmo poggiavano le quattro colonnine che sostenevano la mensa eucaristica. Sotto la lastra è stata trovata una camera funeraria delle stesse dimensioni dell'altare che doveva, forse, contenere le reliquie del santo che si onorava. Il piano dell'altare era collegato con il vano sottostante attraverso una tubatura in terracotta, utilizzata per versare l'olio profumato (myron) e per introdurre i brandea, sottili strisce di tessuto che diventavano reliquie al momento del contatto con la tomba del santo.
Hierapolis, edificio oracolare di Apollo
La conferma che attesta che la costruzione è veramente la tomba di Filippo è arrivata da un piccolo oggetto custodito nel museo di Richmond, negli Stati Uniti. Su quest'oggetto ci sono delle immagini che prima di questi ultimi scavi a Hierapolis non si riusciva a decifrare. Si tratta di un sigillo in bronzo di circa 10 centimetri di diametro che serviva per autenticare il pane di San Filippo da distribuire ai pellegrini. Sono state trovate delle icone che raffigurano proprio l'apostolo con in mano un grosso pane. Il sigillo serviva a distinguerlo dal pane comune, cosicché i pellegrini sapessero che si trattava di un pane speciale da custodire con cura. Sul sigillo custodito a Richmond vi è la figura di un santo con un mantello da pellegrino e la scritta "San Filippo". Sul bordo del sigillo un'antica frase di lode a Dio: "Santo Dio, Santo forte, Santo immortale, abbi pietà di noi". Gli studiosi hanno sempre affermato che il sigillo proveniva da Hierapolis. La figura di Filippo è rappresentata tra due edifici, alla sinistra un edificio coperto da una cupola, il Martyrion ottagonale, l'edificio a destra ha un tetto a due spioventi come l'edificio appena ritrovato dalla missione italiana. Entrambi recano sulla sommità una scalinata
Il professor D'Andria
Le reliquie di Filippo, però, non giacciono più a Hierapolis da molto tempo: nel VI secolo d.C. furono trasferite in parte a Costantinopoli ed in parte a Roma, dove fu costruita un'apposito edificio religioso per ospitarle. Edificio religioso del quale non rimane quasi nulla, perché fu rifatto per intero in epoca rinascimentale ed oggi è la chiesa dei Santi Apostoli, non lontana da piazza Venezia. Qui, nel 1869, degli scavi hanno individuato, sotto l'altare, una struttura martiriale dotata di marmi molto preziosi. Un foro rotondo collega l'altare al sottostante loculo dove fu rinvenuto un cofanetto in argento con alcune ossa all'interno. Che siano queste le ossa di Filippo, un tempo custodite a Hierapolis?
Notizie storiche su Filippo non ce ne sono molte. Era originario di Betsaida, sul lago di Genezaret e, molto probabilmente, apparteneva ad una famiglia di pescatori. Entrò nel gruppo degli apostoli di Gesù fin dall'inizio ed era presente, secondo gli Atti degli Apostoli, al momento dell'Ascensione al cielo di Gesù e nel giorno della Pentecoste. Fin qui le notizie dei Vangeli. La tradizione vuole che Filippo abbia predicato in Scizia, in Lidia e, in prossimità della sua morte, a Hierapolis, in Frigia.
Una lettera di Policrate, vescovo di Efeso alla fine del II secolo d.C., a papa Vittore I menziona Filippo, affermando che morì a Hierapolis e che aveva delle figlie, una delle quali fu sepolta ad Efeso. La lettera è ritenuta attendibile, dagli studiosi, e risale a circa cento anni dopo la morte dell'apostolo. Nella stessa lettera Policrate afferma che Filippo trascorse a Hierapolis gli ultimi anni della sua vita con due delle sue tre figlie.
Sulla morte dell'apostolo, gli antichi documenti affermano che avvenne per martirio, all'età di 85 anni. Nella necropoli di Hierapolis è stata ritrovata un'iscrizione che accenna ad una chiesa dedicata a Filippo.

venerdì 25 maggio 2012

La Piscina mirabilis
Un'indagine archeologica preventiva nel territorio del Serino, in provincia di Avellino, ha portato all'intercettazione di un tratto dispecus dell'acquedotto romano riferibile al Fontis Augustei Aquaeductus, realizzato alla metà del I secolo d.C. per risolvere il problema dell'approvvigionamento idrico della città di Napoli. Il percorso dell'acquedotto partiva dalla sorgente del Serino, sull'altopiano irpino, per giungere fino alla Piscina mirabilis, aMiseno, per un totale di 96 chilometri. L'acquedotto, inoltre, tramite una galleria di sei chilometri sottopassa Contrada e la collina di Bufoni
L'acquedotto captava l'acqua dalle sorgenti Acquaro-Pelosi di Serino; la struttura fu restaurata agli inizi del IV secolo d.C. a spese dell'imperatore Antonino Pio e dei suoi figli Crispo e Costantino. Il condotto sotterraneo scoperto è lungo 5 metri e si trova ad unaprofondità massima di 1,70 metri. Lo specus è composto da due piedritti in muratura, entrambi appoggiati sulla struttura muraria di fondazione, realizzata sul fondo del cavo di una trincea in cui è stato allestito l'intero condotto.
Al momento della scoperta lo specus era riempito di depositi di terra e di materiale di risulta composto da frantumi di laterizi, pietre di calcare bianco di varia grandezza, frammenti di malta e di cocciopesto. Non è stato possibile datare la dismissione del condotto, anche se si pensa che il suo utilizzo sia terminato in età tardo antica.
Recentemente è stata scoperta un'iscrizione che reca la data dell'inaugurazione dell'acquedotto: il 30 dicembre del 10 d.C.. Quest'iscrizione si trovava all'interno di una galleria romana in località Scalandrone, a Bacoli e conserva anche il nome di Decimo Satrio Ragoniano, il più antico soprintendente delle acque pubbliche finora conosciuto.

Al-Hira, città cristiana in terra d'Islam

Miniatura persiana che ricorda
l'edificazione di al Hawarnaq
Nel sito di al-Hira, importante centro urbano preislamico, vi è un'antica città cristiana a due passi dal più sacro e venerato luogo di culto dell'Islam sciita, Najaf, città santa nel centro-sud dell'Iraq, l'antica Mesopotamia. Qui la dinastia araba dei Lakhmidi, nel IV secolo d.C., stabilì la capitale del suo regno, costruendo chiese e palazzi come il leggendario al Hawarnaq nel quale, vuole la tradizione, il re Nu'man si convertì al cristianesimo. Questo palazzo sembra derivare il nome dal vocabolo persiano huvama, "dallo splendido tetto" o da khawarnar, "luogo di festeggiamenti, ma vi è anche chi lo fa risalire alla radice araba khirniq. La magnificenza di quest'edificio era tale che molti poeti preislamici lo menzionarono come una delle 30 meraviglie del mondo. Il palazzo fu costruito dall'architetto greco Sinimmar, su ordine del sovrano lakhmide Nu'man (418 a.C.) in onore della sua sposa persiana. Conobbe diversi rifacimenti ed ampliamenti nel corso dei secoli successivi.
Al-Hira fu cristiana o fortemente influenzata dal cristianesimo. Nel 542 Khosrau I di Persia bloccò il generale bizantino Belisario a Callinicum, a sud di Edessa (nell'attuale Turchia) con l'aiuto di al-Hira. Il regno di al-Hira fu spesso in competizione con il regno arabo siro-palestinese dei Ghassanidi, alleato dell'impero bizantino.
Malgrado tutto il suo carico di storia, il sito di al-Hira non ha mai ricevuto adeguate attenzioni. Le indagini archeologiche sono sempre state condotte in modo superficiale e sporadico. Le prime missioni si sono svolte tra gli anni '30 e '50 del secolo scorso per poi interrompersi bruscamente e riprendere solo nel 2007, a seguito dell'ampliamento dell'aeroporto di Najaf.
Gli ultimi scavi hanno riportato alla luce le fondazioni di numerosi edifici in mattoni e circa 2.100 reperti, tra i quali iscrizioni, monete e frammenti ceramici risalenti al V-VII secolo d.C.. Dal 2010, però, a causa della mancanza di finanziamenti, i lavori sono stati interrotti e al-Hira rischia di sparire per sempre.

Ur, gloria dell'antico Iraq

Iraq, la ziqqurat di Nanna ad Ur
Ur, l'antica Urim sumera, si trova a 16 chilometri da Nassiriya, sulla riva destra del fiume Eufrate. Era la casa del dio Nanna, divinità della luna che, ad Ur, dimorava l'Ekishnugal, la casa di alabastro, della luce fluorescente. Il santuario era collocato nell'angolo nord-occidentale della ziqqurat di re Ur-Nammu, del XXI secolo a.C.
Ur era la città sumera più meridionale e controllava l'accesso al mare di tutta la Mesopotamia. Fu uno dei primi insediamenti abitati della bassa Mesopotamia e si trasformò in città vera e propria nel 2600 a.C., durante la Dinastia III. Le sue rovine mostrano ancora quale doveva essere la sua grandezza. L'estensione dell'area sacra è di 1200 x 800 metri. La città era abitata fin dal 5000 a.C. e continuò ad esserlo fino al IV secolo a.C., l'epoca di Alessandro Magno. Già nel III millennio a.C. Ur vantava templi, palazzi, porti e una popolazione di 100.000-200.000 persone.
Lo stendardo di Ur
All'epoca Ur era protetta da una cinta muraria ovale, fatta in mattoni crudi e paramenti in cotto, con mura spesse fino a 20 metri. I principali accessi erano due porti fluviali con banchine in mattone cotto. La Bibbia afferma che Abramo, Nacor ed Haran, figlio di Terach, vivevano ad Ur e facevano i pastori. Proprio nella città sumera Abramo conobbe e sposò Sarai, sua sorellastra. Abramo vuol dire "padre delle moltitudini" ed è riconosciuto sia come capostipite della nazione ebraica che come profeta e perfetto musulmano dall'Islam. A lui fanno capo le tre religioni monoteistiche.
La III Dinastia, quella alla quale apparteneva Ur Nammu, salì al potere dal 2112 al 2094 a.C. e fu quella che costruì templi, mura e la ziqqurat, che migliorò l'agricoltura introducendo l'uso di impianti di irrigazione. Il codice di leggi di Ur-Nammu, un frammento del quale è stato identificato a Istanbul nel 1952, è uno dei più vecchi documenti conosciuti, anteriore persino al codice di Hammurabi. Alla sua morte questo re rimase nella leggenda e fu deificato con suo figlio Shulgi.
Ur subì numerose devastazioni e ricostruzioni, l'ultima delle quali nel VI secolo a.C., da parte di Nabucodonosor II di Babiblonia, che diede anche impulso alla ricostruzione edilizia cittadina. Nel 550 a.C. circa, la caduta dell'impero babilonese per opera dei Persiani, decretò il declino anche di Ur: la città non venne più abitata, probabilmente a causa di una sempre maggiore siccità, del cambiamento di corso dell'Eufrate e dell'interramento del Golfo Persico.
Stele di Ur-Nammu
Già nella prima metà del XVIII secolo il luogo dove sorgeva Ur fu visitato da Pietro della Valle, il quale registrò la presenza di mattoni antichi timbrati in una lingua sconosciuta e cementati insieme a bitume. La città fu identificata nel 1854 dal vice console britannico a Bassora John Edward Taylor, che trovò cilindri di terracotta con iscrizioni in caratteri cuneiformi ai quattro angoli sulla sommità della ziqqurat. Il sito, dopo alcune, sommarie, indagini, fu scavato dal 1922 al 1934 dall'archeologo inglese Charles Leonard Woolley, su incarico del British Museum di Londra e dell'University Museum della Pennsylvania. I fondi erogati, però, si esaurirono presto e Woolley fu costretto ad abbandonare al loro destino le fragili costruzioni in mattoni.
Negli anni, al degrado ambientale andò a sommarsi quello inevitabilmente prodotto dai due conflitti iracheni, dal momento che le rovine dell'antichissima città erano state inglobate in una base militare irachena prima e statunitense poi. Il risvolto positivo fu che, almeno per un certo periodo di tempo, il sito fu salvaguardato dagli scavi clandestini.
Tra i resti ancora visibili dell'antica città rimane la maestosa mole dello ziqqurat, dedicata al dio della luna, protettore di Ur. Fu il figlio e successore di Ur-Nammu a completarla. La ziqqurat si presenta come una torre a piani sovrapposti, dei quali rimangono solamente il primo e parte del secondo. E' alta più di venti metri, con una base di 62,50 x 43 metri ed era parte di un vasto complesso cerimoniale.
Testa di leone dal cimitero reale di Ur
L'Enunmah, a lungo ritenuto un edificio templare, era il Tesoro Reale dei re di Ur. Fu costruito da Amar Sin (2046-2038 a.C.) nell'area sacra di Nanna, dio della luna, e racchiudeva, al suo interno, un edificio minore composto da quattro vani lunghi, di cui due più corti, che precedevano una cella longitudinale.
Il Giparu comprendeva i templi minori di Nanna e della sua paredra Ningal, insieme alla residenza delle addette al culto della divinità. Il complesso fu distrutto nel 2004 a.C., durante il saccheggio degli Elamiti e ricostruito in seguito.
Nella necropoli reale, in uso tra il 2650 e il 2050 a.C. furono rinvenute 1850 sepolture singole e multiple, di cui 16 erano deposizioni di personaggi di rango riferibili alla I ed alla III Dinastia di Ur (2600-2450 a.C. e 2112-2006 a.C.), accompagnati non solo da straordinari corredi ma anche da individui sacrificati appositamente. Questi ultimi erano disposti in file e gruppi, con corpi accostati alla bara o in pozzi collaterali. I corredi reali includevano migliaia di preziose perle in cornalina, in gran parte provenienti dalla valle dell'Indo o forgiate ad Ur da artigiani indiani, e notevoli quantità di lapislazzulo, giunto dall'attuale Afghanistan. E poi ancora arpe di rame, d'argento e di legno prezioso intarsiato; barchette in argento, cosmetici, vasi d'oro e d'argento, uova di struzzo finemente lavorate, contenitori ricavati da grandi conchiglie del Golfo Persico e carri e slitte che avevano trasportato i reali occupanti nel loro ultimo viaggio fino alla regale sepoltura.
Il gioco reale di Ur
Del cimitero reale non si conosce ancora l'esatta cronologia, molti dei sovrani che vi sono sepolti sono del tutto ignoti. Alcuni studiosi ritengono che piuttosto che re e regine, in questo cimitero siano seppelliti sacerdoti e sacerdotesse, sacrificati in riti complessi che simulavano i matrimoni tra le divinità e i sovrani della città. Sono circa 300 coloro che accompagnarono i signori nel loro ultimo viaggio.
Da Ur proviene anche uno dei più antichi reperti completi di un gioco da tavolo che sia mai stato scoperto, si tratta del gioco reale di Ur (il più antico è stato ritrovato nel 2004 nel sito di Shahr-i Sokhta, alcune tavole da gioco del 3000 a.C.). Si tratta di cinque tavole da gioco trovate proprio nelle tombe reali da Woolley e, come il Senet, sembra essere il predecessore del moderno backgammon. La più semplice delle tavole è in ardesia decorata con motivi geometrici in madreperla, mentre le altre tavole sono decorate anche con inserti in lapislazzuli. Solo due delle cinque tavole sono state ritrovate complete.
Corona femminile dal cimitero reale di Ur
Un trattato sul gioco reale di Ur (di cui non si conoscevano le regole prima), fu trovato agli inizi degli anni '80 del secolo scorso da Irving Finkel, curatore del British Museum ed esperto in incisioni cuneiformi. Si tratta di una tavoletta cuneiforme in possesso dell museo londinese che, sul retro, recava inciso una sorta di trattato, copiato nel 177 a.C. da uno scriba babilonese da un documento ancora più antico.
Da Ur proviene anche un mosaico, chiamato lo Stendardo di Ur, risalente a 5000 anni fa, una sorta di libro storico illustrato. Si tratta di un pannello rettangolare del quale non si conosce l'esatta funzione. Su questo pannello sono stati incastonati, su di uno strato di catrame, lapislazzuli, conchiglie, pietre di calcare rosso e madreperle bianche a comporre su di un lato le vicende relative ad una guerra vinta dai Sumeri e sull'altro la pace riconquistata.

Il parco e la città dell'antica Vulci

Vulci, il castello e il ponte della Badia
Il Parco Naturalistico Archeologico di Vulci, nella Maremma tosco-laziale, istituito nel 1999, è una delle mete turistiche più "gettonate" del viterbese. Qui i resti monumentali dell'antica cittadina etrusca e il Castello della Badia, dove è allestito il Museo Nazionale Archeologico, con il suo ponte, sono una realtà sempre più apprezzata.
Il pianoro che ospitava la città etrusca è attraversato attualmente da tre sentieri: un breve percorso naturalistico e due itinerari archeologici, che consentono di addentrarsi nel cuore dell'antico abitato (il primo di questi due percorsi è di 2,5 chilometri, l'altro di 4).
Bisogna ricordare che la vita di Vulci comincia ben prima dello splendore etrusco, durante l'Età del Bronzo e, soprattutto, nel periodo villanoviano. La ricchezza della città comincia dopo un periodo di stagnazione nel VII secolo a.C. e la ripresa è ben documentata, negli affreschi sepolcrali, dalla saga di Mastarna e dei fratelli Aulo e Celio Vibenna, guerrieri vulcenti che, secondo la leggenda, presero parte ad un episodio bellico nei confronti della nascente Roma dominata dai Tarquini.
Vulci, tratto di decumano massimo
La cinta muraria di Vulci comprendeva cinque porte ed era realizzata in blocchi squadrati di tufo e rinforzi di nenfro. Oltrepassato quanto rimane dell'antico acquedotto che, in epoca etrusca, alimentava Vulci, si entra nello spazio urbano attraverso la Porta Ovest, esempio di architettura militare preromana, rafforzata prima della conquista della città nel 280 a.C.. Si percorre il decumano massimo, la strada principale costruita dopo la conquista da parte di Roma, e ci si addentra nell'impianto cittadino fino al nucleo monumentale di Vulci, nel quale sono dislocati i monumenti e gli edifici pubblici e privati più importanti della città: il Tempio Grande in blocchi di tufo e laterizio, risalente al IV secolo a.C., costruito sui resti di un edificio religioso più antico; l'Edificio in laterizi e l'Edificio absidato, entrambi testimonianza della vitalità della cittadina di epoca tardo imperiale.
Vulci, interno del museo ospitato nel Castello della Badia
Percorrendo il decumano si incontra, a destra, una costruzione piuttosto alta, a pianta rettangolare, risalente al II secolo d.C. e impostata su preesistenti strutture di tufo. Alcuni studiosi vi hanno visto un'aula delle terme del foro, localizzate proprio in questa parte della città, almeno secondo la cartografia ottocentesca. Più avanti vi è una piccola costruzione rettangolare absidata (il cosiddetto Edificio absidato), che fa pensare ad una piccola basilica tardo antica oppure ad una chiesa altomedioevale. Il Tempio Grande, protagonista del centro monumentale cittadino, ha un basamento imponente: 36,5 x 24,5 metri di lato, con sei file di blocchi squadrati di tufo e una parte del rivestimento in nenfro che foderava la struttura antica. Il Tempio era, con tutta probabilità, a cella unica con un colonnato continuo su tutti i lati, raddoppiato, sulla fronte, da ulteriori quattro colonne. Il Tempio mostra almeno due fasi costruttive: la prima, la più antica, del IV secolo a.C., a cui appartengono numerose terrecotte e, forse, anche dei rocchi di colonne ed alcuni capitelli ionici a volute lisce. L'edificio subì un rifacimento in tarda età imperiale, con la sostituzione degli elementi lignei con strutture in travertino ed opera cementizia.
Vulci, il mitreo
Vi sono anche, non distanti dal centro cittadino, i resti di residenze aristocratiche, come la Domus del Criptoportico. Questo ricco edificio fu costruito immediatamente dopo la conquista romana ed era articolato su più livelli. La costruzione è preceduta da una serie di piccoli vani rettangolari, forse tabernae, prospicienti la strada principale. Proprio tra queste tabernae si aprono i due ingressi della Domus. Oggi è conservato solamente il piano terra della casa, che comprende moltissime stanze che si dispongono intorno ad un vasto atrio ed un ampio peristilio. Si riconoscono stanze da letto (cubicula) e da banchetto (triclinia) mentre un secondo ingresso immette in un cortile con al centro una fontana, ottenuto il tutto dalla trasformazione di un originario piccolo atrio. Nell'angolo nord-est del peristilio è riconoscibile la scala che dava accesso ai piani superiori. Un grande ambiente mette in comunicazione il peristilio con uno spazioso vano rettangolare con tracce di basi di colonne e un ricco mosaico pavimentale che risale al primo impianto della Domus.
Il criptoportico, da cui la Domus prende il nome, è accessibile tramite un corridoio ad est del peristilio coperto. L'ambiente era areato e prendeva luce per mezzo di 18 piccole finestre a livello del soprastante giardino. Qui si ammassavano prodotti che, come il vino e l'olio, avevano bisogno di una adeguata conservazione.
Vulci, il criptoportico della Domus
La Domus possedeva anche un piccolo ma raffinatissimo impianto termale, un viridarium con vasca centrale e la corte rustica con latrine e cucina. L'edificio, dal punto di vista costruttivo, nella sua fase più antica risale ad un periodo compreso tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C.. Nel tempo subì, però, importanti interventi di ristrutturazioni ed ulteriori modifiche furono effettuate tra il periodo flavio e il periodo adrianeo. Con la caduta dell'impero romano, dopo un breve periodo di riutilizzo parziale, la Domus venne prevalentemente adibita a sepoltura con tombe a fossa.
A nord della Domus del Criptoportico, è visibile un mitreo, il cui ingresso originario era posto sul lato corto orientale, forse in corrispondenza di una strada secondaria. L'edificio comprende un'anticamera e una stanza rettangolare lungo le cui pareti corrono due banconi sostenuti da archetti, sui quali dovevano sedere gli iniziati. Al centro della stanza vi è un altare in nenfro e sulla parete di fondo vi è la cavità per la statua di culto. Qui, durante lo scavo, furono rinvenuti due gruppi marmorei di diverse proporzioni, raffiguranti il dio Mitra nell'atto di uccidere il toro, risalenti entrambi al III secolo d.C.. Lo scavo ha anche evidenziato i segni di una distruzione violenta del mitreo, probabilmente coincidente con l'emanazione dell'Editto di Teodosio (380 d.C.).
Vulci, edificio absidato (chiesa altomedioevale?)
Di una domus in gran parte inesplorata, situata nel punto in cui il decumano incrocia un altro asse viario, è visibile un atrio con impluvium con soglie di accesso ad ambienti ancora in parte interrati. Dalla parte opposta sono visibili le strutture della cosiddetta casa del pescatore, dal ritrovamento, in situ, di pesi per le reti. La casa appare essere stata più volte riutilizzata.
Giungendo alla Porta Est, in grandi blocchi di tufo, e proseguendo per un breve tratto, si incrocia una struttura semiellittica, in opera quadrata di tufo e travertino: forse una vasca con funzione sacra, dal momento che è stato trovato un gran numero di ex voto anatomici nelle sue vicinanze. Oltre la Porta Est vi è la valle lambita dal fiume Fiora, dove gli scavi hanno riportato alla luce, negli anni scorsi, resti appartenenti al porto fluviale (mura in opus quadrata) ed ai magazzini di quest'ultimo.
Sicuramente quel che attira maggiormente l'attenzione a Vulci, come in ogni città etrusca, è la necropoli. Le tombe sono visitabili con guida. La Necropoli Orientale, posta sulla sponda sinistra del Fiora, presenta le più preziose ed interessanti testimonianze dell'arte funeraria etrusca. Innanzitutto la principesca Cuccumella che, con i suoi 75 metri di diametro, è il più grande tumulo dell'Etruria Meridionale, costruita alla fine del VII secolo a.C. ha il sottosuolo percorso da un intricato e misterioso dedalo di cunicoli. Poi la Tomba delle Iscrizioni, utilizzata dal IV secolo a.C. e, infine, la più celebre e celebrata di tutte: la Tomba François, del IV secolo a.C..

Le sepolture in chiesa di Gonesse

A circa 15 chilometri da Parigi, nella cittadina di Gonesse, gli archeologi si sono interessati alla locale chiesa, intitolata ai santi Pietro e Paolo. Si tratta di una basilica costruita tra il XII ed il XIII secolo sul sito di una più antica costruzione romanica, e poi rimaneggiata nel XV secolo. Le indagini sono state avviate in concomitanza con il progetto di rifacimento dell'impianto di riscaldamento dell'edificio religioso, passante sotto il pavimento della chiesa.
Proprio questi lavori hanno rivelato come fosse comune, all'epoca, seppellire all'interno delle chiese e dei luoghi sacri. Aggirando i divieti emanati a più riprese dalla Chiesa, gli spazi sotterranei della chiesa dei santi Pietro e Paolo sono un vero cimitero: le indagini hanno sinora riportato alla luce 79 tombe risalenti ad un periodo compreso tra il VI e il XV secolo, dall'epoca dei sovrani Merovingi fino ai Valois.
Le tombe sono distribuite su cinque livelli e presentano modalità di sepoltura diverse tra loro: in cassa di legno, in sarcofago, nella nuda terra. L'elemento comune a tutte è la povertà dei corredi funebri. Le salme sono variamente conservate ed in alcuni casi è stato possibile rintracciare anche qualche lacerto di tessuto, soprattutto nelle sepolture del XIII e XIV secolo.

giovedì 24 maggio 2012

Le tavolette di Aradmu

Una delle tavolette ritrovate in Iraq
Uno studioso di Harvard ha conservato e tradotto ben 4000 antiche tavolette di argilla, dopo averle salvate da un moderno disastro. E così ci ha restituito uno scorcio di vita quotidiana nell'antica Mesopotamia.
Queste tavolette erano conservate nel seminterrato di una casa doganale nel World Trade Center, quando l'edificio venne fatto segno degli attacchi aerei dell'11 settembre 2001. Erano in tutto 302 ed erano state ritrovate nel sud dell'Iraq, qualche anno prima che si compissero gli attacchi. Sono state, in seguito, confiscate dalla dogana degli Stati Uniti mentre si tentava di contrabbandarle.
Le tavolette sono state sottoposte ad uno speciale processo di restauro ideato da Dennis e Jane Drake Piechota. Il processo combina la lenta cottura in un forno ad un bagno d'acqua per estrarre i sali al fine di indurire ulteriormente le tavolette e di prolungarne la vita.
Oggi gli studiosi possono dire che queste tavolette si trovavano, un tempo, in un archivio di Nippur, la capitale di Sumer, e 145 di esse sono una sorta di registro di un ufficiale di rango piuttosto elevato di nome Aradmu. Si tratta di un resoconto dettagliato di alcune operazioni comuni in una società agraria, comprese le ricevute per  gli oggetti agricoli e per gli animali quali asini e buoi, nonché prestiti di grano.
Lavorando contro il tempo, Studevent-Hickman si è cimentato nella traduzione delle 145 tavolette di Aradmu prima che venissero rimpatriate in Iraq nel 2010

Una grande sepoltura collettiva in Perù

Lo scavo della tomba collettiva di Pachacamac
Gli archeologi dell'Università Libera di Bruxelles hanno scoperto, in Perù, una tomba spettacolare con i resti di ottanta persone di età differente. Questa scoperta, che è stata provvisoriamente datata a 1000 anni fa, è stata fatta nel sito di Pachacamac, attualmente sottoposto all'attenzione dell'Unesco al fine della sua proclamazione a "patrimonio dell'umanità".
Pachacamac si trova a circa 30 chilometri da Lima ed è una delle più grandi località preispaniche in Sudamerica. Il professor Peter Eeckhout vi sta effettuando indagini da circa venti anni. Di fronte al tempio di Pachacamac ha scoperto un'enorme camera destinata ad una sepoltura collettiva. L'ambiente è lungo 20 metri ed è rimasto miracolosamente immune da saccheggi. La sepoltura è di forma a grandi linee ovali, scavata nella terra e coperta da un tetto di canne sostenuto da tronchi d'albero scolpiti e sagomati. All'interno sono stati rinvenuti i resti di una dozzina di neonati e bambini distribuiti lungo il perimetro della stanza, con la testa orientata verso la tomba principale. Quest'ultima è divisa in due sezioni separate da un muro di mattoni di fango che servivano da base per altre sepolture.
All'interno delle camere gli archeologi hanno rinvenuto i resti di più di 70 scheletri ed anche mummie, molte delle quali conservavano i loro involucri, disposti tutti in posizione fetale. I defunti appartenevano ad entrambi i sessi e le età ed erano accompagnati da offerte consistenti in recipienti di ceramica, animali, rame e manufatti in lega d'oro, oltre a maschere (o false teste) in legno dipinto. Questo manufatti attualmente sono in fase di restauro e di analisi.
Una squadra di antropologi fisici, diretti dal dottor Lawrence Owens, dell'Università di Londra, hanno postulato la possibilità che molti degli individui fossero in relazione tra di loro, sulla base di alcuni caratteri morfologici riscontrati sugli scheletri. Alcuni di questi ultimi hanno riportato ferite mortali, traumi fisici o presentano tracce di malattie gravi. Uno studio precedente ha rivelato la presenza di una forma morbosa, nella comunità di Pachacamac, della quale gli scheletri attualmente scoperti sembrano recare tracce. Si è ipotizzato, pertanto, che alcune delle persone defunte si siano recate nella cittadina incaica per cercare sollievo e cura per le loro malattie.
I reperti ritrovati nella tomba sono stati datati al 1000 d.C., anche se deve ancora esserci la conferma definitiva dalla parte delle analisi radiometriche. 

Il sigillo di Betlemme

Il sigillo con inciso il nome di Betlemme
Gli archeologi israeliani hanno scoperto un sigillo di 2700 anni che reca inscritto il nome di Betlemme. Si tratterebbe del più antico artefatto con il nome della città dove nacque Gesù.
Quindi Betlemme non era solo un nome "di fantasia" inventato da un anonimo cronista biblico, ma una vera e propria cittadina, in cui scambi e commerci erano piuttosto vivaci. Eli Shukron, direttore dell'Israel Antiquities Autorithy ha affermato che si tratta di un ritrovamento significativo, perché è la prima volta che il nome di Betlemme compare al di fuori di un contesto biblico.
Il sigillo ha un diametro di 1,5 centimetri e risale all'epoca del Primo Tempio ebraico, tra l'VIII e il VII secolo a.C., in un momento storico nel quale un re ebreo governava sull'antico regno di Giuda e 700 anni prima che nascesse Gesù Cristo. Il sigillo è scritto in lingua ebraica antica. Accanto ad esso sono state trovate ceramiche risalenti allo stesso periodo.
Il sigillo, noto anche come bulla fiscale, è stata utilizzata probabilmente per sigillare un documento amministrativo inviato da Betlemme a Gerusalemme, sede del potere ebraico. Sono stati ritrovati almeno 40 sigilli di questo tipo, ma nessuno, prima di questo, menzionava la città natale di Gesù.

mercoledì 23 maggio 2012

Inchiostro preistorico

L'inchiostro fossile
Sono stati ritrovati resti fossili d'inchiostro risalenti a 160 milioni di anni fa. Si tratta di resti straordinariamente simili al liquido secreto dall'attuale seppia. Gli scienziati hanno confermato che il pigmento è inchiostro fossile ricavato da un animale.
L'inchiostro è di un color nero-bruno, un tipo di melanina chiamata eumelanina, molto diffuso nel regno animale, per esempio sulle penne degli uccelli oltre che nei capelli e sulla pelle degli esseri umani. Tra le altre funzioni svolte dalla sostanza vi è quella di proteggere dal sole e di aiutare gli animali a mimetizzarsi. Finora l'eumelanina era stata ritrovata solo in forma indiretta.
John Simon, della University of Virginia di Charlottesville, ed i suoi colleghi hanno utilizzato una serie di tecniche analitiche dirette, tra le quali il microscopio a scansione elettronico e la spettrometria di massa, per identificare la presenza di eumelanina nelle sacche fossili.
Le sacche di inchiostro giurassiche sono state scoperte recentemente sul fondo di un antico mare estinto in Gran Bretagna.

Lo strumento musicale più antico del mondo?

Il flauto di Divje Babe, in Slovenia
Un osso, ritrovato a Divje Babe, in Slovenia, è il femore di un giovane orso delle caverne ed ha fatto discutere gli studiosi a causa di alcuni fori che taluni vogliono essere i morsi di un altro carnivoro, mentre altri ritengono, piuttosto, che siano dei fori fatti appositamente per ricavarne uno strumento musicale.
Un'analisi ai raggi X condotta a Trieste potrebbe aver risolto il mistero. L'indagine è stata portata avanti dal professor Claudio Tuniz ed i primi risultati confermano che l'osso fu trasformato appositamente dall'uomo per ricavarne un flauto. La scoperta, se effettivamente riconosciuta e confermata, farebbe dell'oggetto, esposto al Museo Nazionale di Lubiana, il più antico strumento musicale che si conosca.
L'analisi ha richiesto l'impiego del sincrotrone, una delle applicazioni più sorprendenti delle tecniche a raggi X basate sulla luce che può essere utilizzata in svariati campi, anche se, in questi giorni, l'attenzione è ovviamente concentrata sulla paleontologia. Tra gli esempi di indagine più curiosi in cui è stato utilizzato il sincrotrone, vi è quella fatta su un piccolo cranio di un dinosauro ritrovato in Friuli Venezia Giulia.
Divje Babe è il sito archeologico da cui provengono i più antichi reperti della Slovenia. Si tratta di una delle numerosissime grotte sparse sull'altopiano carsico delle Alpi Dinariche. La grotta si estende per 45 metri pianeggianti e, nei punti più ampi, è larga 15 metri. Qui sono stati recuperati ben 600 reperti archeologici distribuiti su una decina di livelli stratigrafici: 20 focolari umani e più di 67.000 residui scheletrici di orso delle caverne.
Nel 1995, nel contesto di un focolare musteriano, l'archeologo Ivan Turk ritrovò un pezzo di femore sinistro di un orso delle caverne dell'età, al massimo, di due anni. L'osso è spezzato da entrambe le estremità e presenta, sul lato posteriore, due fori completi ed altri due incompleti. Il reperto è lungo 11,36 centimetri e lo strato in cui è stato rinvenuto è stato datato al radiocarbonio ad approssimativamente 43.100 anni fa.

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