lunedì 28 marzo 2016

I misteri dell'omicidio di Ramses III

La mummia di Ramses III (1182-1151 a.C.) custodita al Museo del Cairo
(Foto: Getty Images)
Il regno di Ramses III, secondo faraone della XX Dinastia, non fu certamente uno dei più stabili della storia del Paese. Vi furono guerre continue con i popoli del mare, che finirono per esaurire le ricchezze del paese; vi furono avversi fenomeni atmosferici che influirono pesantemente sull'agricoltura e che, unitamente alle guerre, provocarono non pochi disordini politici.
Tutte queste cause furono alla base di un complotto che doveva portare all'omicidio di Ramses III nel 1155 a.C.. Le nuove analisi sulla mummia del faraone gettano nuova luce sulla fine di questo sovrano. Nel 2012 Zahi Hawass e il radiologo Sahar Saleem, dell'Università del Cairo, hanno sottoposto la mummia di Ramses III ad una scansione che ha rivelato che il faraone venne ucciso con un taglio che gli attraversò l'esofago e la trachea. Nuove indagini, però, rivelano che il faraone venne probabilmente ucciso da più aggressori.
Le ultime analisi della mummia dimostrano che a Ramses III venne reciso di netto un alluce e che la ferita non ebbe tempo di ricomporsi, il che significa che il faraone la subì contemporaneamente alle ferite alla gola. Probabilmente, mentre Ramses III veniva affrontato da un assassino che lo accoltellava alla gola, un altro aggressore lo aggrediva alla schiena. Gli assassini non sono mai stati identificati. Un antico documento, il Papiro di Torino, contiene dettagli del complotto ordito per assassinare Ramses III. Una moglie secondaria del faraone, Tiye, e suo figlio Pentawere cospirarono con altri personaggi di corte per uccidere il faraone, che aveva scelto come successore un figlio avuto da un'altra moglie. La "cospirazione dell'harem" ebbe successo: Ramses III venne ucciso e il suo erede, Ramses IV, sopravvisse ad ogni attentato alla sua vita. Una volta salito al trono, Ramses IV processò Tiye, Pentawere e gli altri partecipanti al complotto.
Coloro che imbalsamarono Ramses III cercarono di occultare le ferite subite dal faraone e operarono un piccolo intervento di chirurgia estetica post-mortem, creando una sorta di alluce artificiale, avvolgendo il dito in pesanti strati di resina. Il trucco non venne scoperto finquando la mummia non venne sottoposta a TAC.

Londra, frammento ceramico con simbolo cristiano

Il frammento ceramico con il simbolo cristiano trovato a Londra
(Foto: Adam Corsini - Museum of London)
Una ceramica del IV secolo d.C., trascurato durante gli scavi del 1970 a Londra, reca un raro simbolo cristiano, forse il primo della Britannia romana. Si tratta di un monogramma, le prime due lettere dell'alfabeto greco per Khristos (ChiRo) incise sul frammento ceramico.
Il frammento è stato scoperto fra centinaia simili provenienti dagli scavi di Brentford High Street, uno dei tanti effettuati nel corso di un programma di ricostruzione di 50 anni fa, quando gli archeologi scoprirono il tracciato della strada romana tra Londra e la Bretagna occidentale.
Simboli cristiani di epoca romana sono molto rari, soprattutto a Londra e nell'hinterland. I cristiani erano storicamente presenti, in Inghilterra, a partire dal IV secolo d.C.. A Brentford sono state trovate anche 100 monete, 12 spille, gioielli e parte di una ciotola in bronzo a forma di cane.

Gli antichi abitanti di Abu Dhabi

Abdulla Al Kaabi che ha scoperto i resti dell'abitazione, al lavoro sul
sito di Marawah (Foto: Abu Dhabi TCA)
A Marawah Island, nei pressi di Abu Dhabi, è stato scoperto lo scheletro di uno dei primi abitanti in quella che gli archeologi ritengono sia una "casa per i morti".
Uno scavo archeologico in una località a circa 100 chilometri ad ovest di Abu Dhabi ha rivelato la prima architettura in pietra del Golfo Arabico, risalente a 7500 anni fa. Lo scheletro si trovava in una delle stanze semi crollate della casa. Le ossa sono state trattate con molta cura, con un consolidante speciale, per evitare che si polverizzassero. Lo scheletro giaceva in posizione fetale, su un fianco, con la testa rivolta ad est.
Gli archeologi sostengono che il clima, all'epoca in cui venne costruita la casa, era migliore dell'attuale. C'erano più giorni piovosi, il paesaggio era più verde e c'erano molti alberi, laghi di acqua dolce e molta cacciagione. Gli strumenti più interessanti trovati nello scavo comprendono una grande lancia in selce, utilizzata per la caccia. Nell'abitazione sono state trovate conchiglie e perline in pietra oltre a strumenti sempre in pietra e più di 200 punte di freccia in selce.

sabato 26 marzo 2016

I segreti dell'inchiostro dei papiri di Ercolano

Uno dei rotoli di papiro di Ercolano (Foto: Brent Seales - Lexington
Herald-Leader/MTC via Getty)
Un gruppo internazionale di scienziati ha scoperto la presenza di metallo nell'inchiostro presente su due frammenti di papiro provenienti da Ercolano. La scoperta dimostra che il metallo veniva utilizzato nell'inchiostro molti secoli prima di quanto si sia sempre pensato.
I ricercatori hanno utilizzato tecniche modernissime per studiare i due frammenti di papiro. Agli inizi del 2015 sono riusciti anche a decifrare le parole scritte e a ricostruire qualche frase sui resti carbonizzati dei papiri, danneggiati dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. Questa scoperta modifica profondamente la conoscenza della scrittura greca e latina nell'antichità.
I papiri di Ercolano sono stati scoperti tra il 1752 e il 1754. Costituiscono l'unica libreria antica mai scoperta e contengono esempi unici di testi filosofici sconosciuti. Finora si è pensato che l'inchiostro utilizzato per i manoscritti greci e romani si basasse sul carbonio e che il metallo fosse stato introdotto solo nel IV secolo d.C.. Nella sua "Storia Naturale" Plinio il Vecchio descrive l'inchiostro a base di carbonio, ottenuto dal legno bruciato in forni, senza alcuna deliberata aggiunta di metallo. L'unica testimonianza scritta dell'utilizzo di inchiostro contenente metallo prima di questo periodo, risale a dei messaggi segreti risalenti al II secolo a.C.. A partire dal 420 d.C. una miscela metallica a base di ferro venne elaborata ed adottata per l'inchiostro utilizzato sulle pergamene.
Quest'importantissima indagine apre nuovi percorsi che possono portare alla scoperta del contenuto dei rotoli di papiro di Ercolano e degli altri reperti archeologici.

Interessanti scoperte nella necropoli di Phaleron

Parte del cimitero del Phaleron (Foto: Stavros Niarchos Foundation
Cultural Center)
Gli archeologi della Fondazione Stavros Niarchos stanno scavando una grande necropoli in Grecia, nell'Attica. Si tratta del luogo di sepoltura di persone comuni. Hanno già rinvenuto oggetti deposti nella tomba come donativi ai defunti. La necropoli risale ad un periodo compreso tra l'VIII e il V secolo a.C.. Finora sono stati scoperti 1.500 scheletri, 358 dei quali appartengono a bambini che furono deposti in anfore.
Phaleron, il luogo in cui si trova la necropoli, si trova a circa 6,5 chilometri a sud di Atene. Le sepolture scavate appartengono al periodo arcaico ed appartenevano a persone provenienti da piccoli villaggi e insediamenti. Tra gli scheletri è stato trovato quello di un uomo legato con una sorta di catena di ferro.
Esempio di sepoltura inusuale con il corpo sepolto a faccia in giù
(Foto: The American School of Classical Studies at Athens)
Il Dottor Drakaki ha affermato che i ricercatori cercheranno una relazione tra lo scheletro dell'uomo e gli eventi storici e sociali dell'epoca. Il sito è stato scavato, per la prima volta, circa un secolo fa e già allora vennero rinvenuti degli scheletri incatenati. Ma è stato solo nel 2012 che la necropoli è stata indagata e studiata sistematicamente. Essa comprende molte sepolture di bambini e i resti di pire funerarie.
E' stata anche trovata una bara ricavata da un tronco d'albero e in condizioni piuttosto buone, conservata tra strati di sabbia ed argilla. Alcune delle anfore che accompagnavano i defunti nel loro ultimo viaggio erano decorate con cavalli ed uccelli. Il cavallo era simbolo di nobiltà, all'epoca (VIII secolo a.C.). L'analisi delle ossa di chi è stato sepolto nella necropoli del Phaleron ha dato come risultato prove di stress soprattutto agli arti superiori e alla colonna vertebrale, testimonianza di un duro lavoro e dell'appartenenza dei defunti agli strati sociali più bassi della popolazione. Altra prova della povertà di questa gente sono le tracce evidenti di malnutrizione cronica sulle ossa di adulti e di bambini, aggiunte alla marcata carenza di vitamine.
I ricercatori hanno sinora scavato solo una piccola parte della necropoli ed hanno già, comunque, raccolto molto materiale da studiare. Sperano di ricavare ulteriori informazioni sullo stile di vita della gente che viveva, all'epoca, nell'Attica.

Toscana, terra di pievi e di antiche memorie

Ambienti termali della villa romana di Santa Marta, in provincia di Grosseto
(Foto: meteoweb.eu)
Ricerche archeologiche nel sito di Santa Marta, in provincia di Grosseto, stanno rivelando interessanti aspetti della vicenda storica di Colle Massari, posto tra la Valle dell'Ombrone e la Val d'Orcia, insediamento, un tempo, di una villa romana.
Sul terreno hanno operato i ricercatori del Laboratorio di Archeologia dei Paesaggi e Telerilevamento dell'Università di Siena. Quel che rimane dell'antica villa, indagato a far tempo dal 2007, è stato analizzato con le apparecchiature più moderne, al fine di approfondire la conoscenza del luogo nelle sue varie stratificazioni storiche e archeologiche. Proprio queste indagini approfondite hanno permesso di individuare non solo le stratificazioni di origine romana, ma anche un'area cimiteriale annessa ad un edificio religioso. Si è, così, individuato un lasso temporale di popolamento del territorio che va dall'epoca romana repubblicana (II-I secolo a.C.) fino al XVII secolo d.C.
Pieve di Sant'Ippolito a Martura (Foto: mapio.net)
Gli scavi nelle zone che si ritenevano potessero restituire materiali di maggiore interesse sono iniziati nel 2012. L'insediamento di Santa Marta era sicuramente legato alla viabilità del luogo. La villa aveva pavimenti di pregio ed ambienti destinati al ricevimento. L'area è stata abbandonata in età imperiale per costruirvi un impianto termale con balnea dotati di pavimenti a mosaico e ipocausto.
Nel V secolo d.C. i balnea vengono sostanzialmente abbandonati e i resti vengono spogliati del materiale edilizio, operazione che si concluse nel VII secolo d.C.. Malgrado la decadenza dell'insediamento romano, il sito si trasformò in breve tempo in un insediamento ecclesiastico dipendente dalla pieve di Sant'Ippolito a Martura, che si sta rivelando al di sotto del successivo impianto romanico. La prima attestazione della pieve è del 1188 ma gli scavi hanno rivelato una fase precedente, quando la chiesa era sicuramente di maggiori dimensioni e fornita di un ricco corredo decorativo. In quanto pieve di Sant'Ippolito a Martura, la chiesa restò in funzione fino al 1500, quando venne costruita una cappella gentilizia dedicata a Santa Marta nel vicino castello di Colle Massari.
Gli archeologi stanno scavando l'antica pieve e, nel contempo, le strutture della residenza romana, compresi i balnea, nell'area sud del complesso, accessibili tramite un cortile e un monumentale ingresso porticato. I balnea avevano uno spogliatoio, il frigidarium, il tepidarium (fornito di abside) e il calidarium riscaldato da un sistema di intercapedini poste sotto al pavimento, sorretto da colonnette. Sia il tepidarium che lo spogliatoio avevano pavimenti in mosaico.
I balnea, due in tutto, erano collegati da un corridoio ed erano forniti di un doppio accesso con soglie a mosaico. Un'abside chiudeva l'ambiente del frigidarium. I due balnea non furono realizzati nello stesso periodo, ma coesistettero per un certo tempo, forse uno con destinazione privato ed uno con destinazione pubblica; oppure uno destinato a clienti di sesso maschile e l'altro a quelli di sesso femminile.
Nel V secolo d.C. i balnea vennero spogliati degli ornamenti a mosaico e di parte delle murature per riutilizzarle come materiale di costruzione. Le fistulae in piombo vennero anch'esse fuse per ricavarne metallo per utensili. La fase di spoliazione terminò apparentemente nel VI secolo d.C.. La vita della domus romana continuò utilizzando il pavimento in terra battuta almeno fino al VII secolo, quando l'area venne completamente abbandonata.
Il 1188 è la prima data storica in cui è menzionata la pieve di Sant'Ippolito a Martura. Nel Duecento essa fu contesa tra la diocesi di Grosseto e il monastero di Sant'Ambrogio a Montecelso, presso Monteriggioni (in provincia di Siena). La pieve di Sant'Ippolito, però, riuscì a rimanere indipendente e venne dedicato, alla fine del XIII secolo a Santa Maria e, successivamente, a Santa Marta. La pieve, dunque, rimase attiva fino al '500, quando cessarono le funzioni religiose malgrado vi si continuasse a seppellire. L'uso cimiteriale sembra essersi concentrato tra il XV e il XVII secolo all'interno e all'esterno della chiesa.

mercoledì 23 marzo 2016

Il perduto castello di Partick

Gli scavi del castello di Partick (Foto: Guard Archaeology Ltd)
I resti di un castello del XII secolo sono stati scoperti durante i lavori per l'impianto delle acque reflue nella zona del borgo medioevale di Partick, Glasgow (Scozia). Le rovine erano state occultate dalla costruzione della linea ferroviaria di epoca vittoriana.
Per decenni gli archeologi hanno creduto che il castello fosse stato costruito sulle rive del fiume Kelvin da re Strathclyde. L'insediamento, in realtà, esisteva dal VII secolo d.C. ed era un casino di caccia. Il castello, invece, quando venne edificato, era strettamente connesso alla chiesa medioevale di Govan, dedicata a San Costantino, al di là di un guado sul fiume Clyde. In epoca medioevale il castello era  la dimora di campagna dei potenti vescovi di Glasgow.
Hugh McBrien del Servizio Archeologico della Scozia Occidentale, ha affermato che nessuno sapeva dell'esistenza di questo casello del XII secolo. Vi erano, sì, prove documentali che i vescovi di Glasgow trascorrevano del tempo a Patrick e vi erano, altresì, dei riferimenti storici a documenti firmati in questo luogo, ma questo è tutto quel che si sapeva, oltre all'esistenza di una casa-torre risalente al XVII secolo. La scoperta dei resti del castello medioevale, pertanto, è stata veramente una sorpresa per i ricercatori.
Frammenti sopravvissuti a secoli di popolamento della zona del castello
(Foto: Guard Archaeology Ltd)
Nel 1880 il castello era talmente in rovina che le autorità locali decisero di sgomberare l'area per costruirvi la stazione ferroviaria. Quest'ultima venne chiusa definitivamente nel 1964 ed al suo posto si installò un cantiere per le demolizioni. Nel 1912, intanto, Partick divenne un sobborgo di Glasgow ed iniziarono i lavori per la costruzione di alloggi per gli studenti. Proprio in occasione di questi lavori sono state intercettate le tracce del castello medioevale.
Il villaggio di Partick era, un tempo, conosciuto con il nome di Perdyc, ed era stato fondato durante il regno di re David I di Scozia, il quale concesse parti della zona denominata "terre di Perdyc" al vescovo John Achaius, nel 1136 d.C.. Localmente la lingua era molto simile al dialetto cymro-celtico che influenzò fortemente la moderna lingua gallese. Il villaggio di Partick divenne presto proprietà vescovile e fu un importante centro religioso durante il XIII e gli inizi del XIV secolo. Di questa epoca, però, non si hanno prove archeologiche.
Il castello di Partick venne ricostruito per l'ultima volta nel 1611 a cura di George Hutcheson, un ricco mercante e benefattore di Glasgow, che fu tra i fondatori dell'ospedale e della scuola che, a Glasgow, portano il suo nome.

domenica 20 marzo 2016

Satala, nuove speranze di indagini archeologiche

Uno degli archi dell'acquedotto di Satala, in Turchia
(Foto: AA)
E' stata fatta richiesta, al Ministero della Cultura e del Turismo turco, da parte di docenti in materie archeologiche di diverse università turche, di effettuare un sondaggio di superficie per indagare l'antica città di Satala (odierna Sadak) che fungeva da quartier generale per le truppe romane stanziate nel Paese. Satala si trova nella provincia settentrionale di Gumushane, in Turchia.
Secondo la documentazione storica, la città divenne sede della XV Legio Apollinaris e servì come un quartier generale ma anche come crocevia di percorsi militari che attraversavano l'Anatolia e la Cappadocia. La città di Satala era stata, in precedenza, controllata dagli Assiri, dai Macedoni. Dopo i Romani subentrarono i Bizantini.
Satala era attraversata da un acquedotto con 47 arcate, delle quali rimangono pochi resti. Si pensa che la città fosse estesa su un'ampia superficie e finora sono stati scoperti anelli, armi, vasi, monete che sono custoditi nel Museo Archeologico di Istanbul mentre un busto di bronzo di Afrodite si trova al British Museum di Londra. Il sindaco di Kelkit, nel cui distretto si trova Satala, ha affermato che l'antica città è considerata un sito archeologico di notevole importanza ed è stata esaminata da docenti universitari che hanno redatto un rapporto consegnato al Governatore di Gumushane. Conseguenza di questo rapporto è stata la richiesta di condurre un sondaggio di superficie.
Finora non erano stati condotti lavori archeologici importanti, nel sito. Ora si spera che queste prospezioni mettano fine alle lungaggini burocratiche e alle difficoltà di operare sul campo per mancanza di autorizzazioni e di linee direttive.
L'imperatore Tiberio annesse la provincia di Cappadocia e pose, lungo il fiume Eufrate, alcuni forti militari che dovevano presidiare il limes settentrionale. Al termine della prima guerra giudaica qui furono inviate la Legio XII Fulminata e la XVI Flavia Firma, quest'ultima dislocata proprio a Satala per proteggere il confine sull'Eufrate. Alla Legio XVI subentrò la Legio XV Apollinaris, che rimase attiva fino al V secolo d.C.. Questo corpo militare si presuppone sia stato formato da Ottaviano per combattere Sesto Pompeo.

Ancora misteri sulle stanze nascoste della tomba di Tutankhamon

Collocazione delle stanze "segrete" della tomba di Tutankhamon
(Ricostruzione: Djedmedu.wordpress.com)
L'analisi, per mezzo del radar, della sepoltura del faraone fanciullo Tutankhamon ha rivelato l'esistenza di due stanze nascoste. Alcuni studiosi pensano che possa trattarsi della mai trovata tomba della regina Nefertiti.
Il Ministro per le Antichità egiziane Mamdouh el-Damaty ha, per il momento, rifiutato di rilasciare dichiarazioni in merito al contenuto delle due stanze individuate. La maggior parte dei ricercatori ritengono che anche se si trattasse di un'altra tomba, è piuttosto difficile che possa custodire tesori e la mummia di Nefertiti, la regina Sposa Reale di Akhenaton conosciuta fino ai nostri giorni per la sua straordinaria bellezza. Probabilmente le stanze contengono altri oggetti funerari relativi alla sepoltura di Tutankhamon, quali statuette di divinità, per esempio.
Indubbiamente la scoperta di questi nuovi aditi nella tomba di Tutankhamon contribuisce a rinnovare l'attenzione e la curiosità nei confronti dell'Egitto e potrebbe essere un ottimo incentivo per il turismo, duramente colpito, negli ultimi anni, dalla situazione politica che ha attraversato il Paese a far tempo dal 2013. Il ritrovamento delle due stanze potrà, anche, gettare luce su uno dei periodi più turbolenti dell'Antico Egitto.
L'egittologo britannico Nicholas Reeves ipotizza che Tutankhamon, morto intorno ai 19 anni di età, possa essere stato sepolto in una camera esterna a quella che, in origine, era una sepoltura destinata alla regina Nefertiti. El-Damaty ha affermato che è ancora troppo presto per dire cosa sia contenuto nelle due stanze, celate da una parete coperta di geroglifici.
Il muro nord della camera sepolcrale di Tutankhamon presenta, ad un'analisi approfondita, uno spazio vuoto al centro che è stato esplorato, con apparecchiature sofisticate, dal ricercatore giapponese Hirokatsu Watanabe l'anno scorso. Le scansioni radar hanno rivelato che gli spazi non sono tutti cavi, ma vi è la presenza di materiale di diversa natura. Il governo egiziano procede con molta cautela, l'operazione di apertura di un foro per il passaggio di una microtelecamera danneggerebbe le decorazioni che ricoprono il perimetro della tomba.
Nefertiti, Grande Sposa Reale di Akhenaton, seguì il marito nell'avventura amarniana, ripudiando il culto della divinità di stato Amon ed abbracciando quello del disco solare Aton. Morì a 28 anni, nel 1339 a.C. circa, lasciando sei figli e molti misteri. Non vi è certezza che Tutankhamon fosse figlio suo.

Danimarca, trovata un'eccezionale fibbia in una sepoltura vichinga

La fibbia bronzea trovata in una sepoltura vichinga in Danimarca
(Foto: Ernst Stidsing)
Una sepoltura vichinga rinvenuta in Danimarca conteneva ornamenti che possono essere originari dell'Irlanda o della Scozia. Una spilla di circa 6 centimetri di diametro sta provocando, in particolare, molto scalpore tra gli archeologi.
La piccola fibbia in bronzo dorato era destinata a trattenere, un tempo, i lembi di un abito e venne sepolta tra il 900 e il 1000 d.C. con la sua proprietaria, in una tomba che si trova nel sud della Danimarca. Si tratta di un ritrovamento raro in questo Paese, poiché il reperto sembrerebbe di origine irlandese o scozzese. Gli studiosi, finora, non avevano avuto modo di vedere nulla del genere ed hanno pensato ad un collegamento con un santuario che doveva trovarsi su una delle isole britanniche.
Esperti stranieri hanno convenuto che la fibbia bronzea era un ornamento posto su una scatola riservata a scopi religiosi, prima di diventare fibbia destinata ad un capo di abbigliamento. Probabilmente era frutto di un furto da un monastero o da una chiesa o da un luogo non necessariamente cristiano. Tali oggetti non erano solitamente frutto di scambi regolari, i Vichinghi non ne entravano in possesso con mezzi onesti. La sepoltura in cui è stata trovata l'eccezionale fibbia è stata datata al 900 d.C., mentre l'ornamento è stato datato all'800 d.C.
Fibbie simili a quella trovata in Danimarca, rinvenute in
Norvegia (Foto: Ernst Stidsing)
Jens Ulriksen, archeologo e curatore del Museo del sud della Danimarca, ha confermato che la fibbia è un ritrovamento unico e di non aver visto un ornamento del genere, finora. Trovarlo in una sepoltura, ha continuato, è davvero un evento insolito. Gli studiosi hanno ipotizzato che la fibbia possa essere giunta in Danimarca attraverso la Norvegia, portata da una donna norvegese che ha vissuto parte della sua vita, fino alla morte, in Danimarca. Ora i ricercatori attendono gli esami dei denti della defunta per ricavare notizie utili sulla sua origine.
Sarebbe interessante, affermano i ricercatori, scoprire indicazioni sulle origini slave della donna, si sa che i re danesi usavano sposare principesse slave nel 900 d.C.. Una conferma delle origini norvegesi della donna potrebbe fornire ulteriori tasselli per ricomporre la trama delle parentele dinastiche in questa parte del nord Europa.

La mummia Tuli, rarissimo esempio di mummia del sud Africa

Immagine tridimensionale della mummia trovata in Botswana
(Foto: SA Journal of Science)
I resti umani giacevano, solitari, in una fossa poco profonda, alla base di una scogliera. Erano lì da diverse centinaia di anni quando alcuni uomini che erano di pattuglia, nel 2008, si imbatterono in quella che è considerata la prima mummia del Botswana, in Africa. Ora un team di scienziati del Botswana, del Sudafrica e della Svizzera hanno utilizzato la tomografia computerizzata a scansione e l'analisi del Dna per carpire alla mummia Tuli, come sono stati battezzati i resti, i suoi segreti.
La mummia Tuli è unica nel suo genere e la pratica della mummificazione non era comune nel Botswana ma potrebbe essere stata una pratica utilizzata in altri luoghi del Sudafrica, come per la mummia di Koga. La letteratura etnografica, particolarmente quella riguardante lo Zimbabwe, fa cenno ad alcuni rituali riguardanti i capi tribù defunti, per i quali il corpo non veniva immediatamente sepolto ma, probabilmente, disidratato con l'aiuto del fuoco, avvolto in un panno o nella pelle di un toro e poi sepolto.
La mummia Tuli come è stata trovata, coperta con una pelle
animale (Foto: SA Journal of Science)
La mummia Tuli ha subito un processo di mummificazione naturale, non intenzionale. Le condizioni del luogo e il clima asciutto hanno contribuito all'essiccazione dei resti e alla conservazione di alcuni tessuti molli come la pelle e i tendini. La mummia è stata trovata rannicchiata in posizione fetale, cosa che ha reso ancora più difficile "maneggiare" il reperto e che ha richiesto la tomografia a scansione, assolutamente non invasiva.
Inizialmente i ricercatori hanno fissato l'età dell'uomo ad un range tra i 40 e i 55 anni, ma le informazioni raccolte con le analisi successive suggeriscono che la mummia Tuli era di un uomo di più di 50 anni di età, vissuto durante l'Età del Ferro, che ha sofferto di malattie degenerative riguardanti soprattutto la colonna vertebrale e di una severa degenerazione delle articolazioni. La scansione tomografica ha rivelato che nessuno degli organi interni si è conservato, il che può far pensare che siano andati perduti per cause naturali o siano stati rimossi prima della sepoltura, anche se quest'ultima ipotesi appare piuttosto improbabile, non essendo una pratica usuale nella regione.
Anche l'estrazione del Dna è stata piuttosto difficile, si tratta della prima volta in cui viene estratto e analizzato del Dna da una mummia trovata nell'Africa del sud. L'analisi ha rivelato che la mummia Tuli è quella di un individuo legato alle culture Sotho-Tswana e Khoesan.

Dexippo e l'invasione dei Goti, riscoperto un antico frammento

Dettagli del manoscritto ritrovato nella Biblioteca Austriaca analizzato
con tecniche particolari (Foto: Austrian National Library, Vienna)
Dettagli drammatici dell'invasione dell'impero romano da parte dei Goti sono emersi da un antico testo che sembrava essere perso e che è stato infine trovato e tradotto in inglese. Frammenti di un antica storia di Dexippo, del III secolo d.C., che narra dell'invasione dei Goti, è stata copiata in un manoscritto dell'XI secolo che si trovava nella Biblioteca Nazionale Austriaca. Publio Erennio Dexippo è uno storico ateniese della seconda metà del III secolo d.C., appartenente ad un'antica e nobile famiglia del demo attico di Ermo. Rivestì le principali cariche pubbliche cittadine e durante un'irruzione degli Eruli in Grecia (267 a.C. circa), riuscì a resistette agli invasori riuscendo a respingerli con l'aiuto dei Romani.
Due storici, Christopher Mallan dell'Università di Oxford e Caillan Davenport dell'Università del Queensland in Australia, hanno utilizzato tecniche avanzate per migliorare la visibilità degli antichi frammenti di testo del manoscritto dell'XI secolo.
Nel III secolo d.C. i Goti stavano avanzando verso i possedimenti dell'impero romano quando furono respinti a Tessalonica. Il testo ritrovato racconta l'assedio di Tessalonica (ora Salonicco), con i difensori che respingevano gli attacchi dalle mura della città. Vista l'impossibilità di conquistare la città, i Goti si rivolsero ad Atene, allora facente parte dell'impero romano, contando sulle ricchezze dei donativi d'oro e d'argento contenute nei tanti santuari greci, di cui erano a conoscenza. Un'avanguardia greca intercettò i Goti nei pressi delle Termopili, il noto passo montano posto nel nord della Grecia, a circa 136 chilometri da Atene.
Il passo delle Termopili
Dexippo narra che alcuni soldati Greci avevano piccole lance, altri erano armati di sassi, altri ancora di picche di legno con punte di ferro. I Greci fortificarono in fretta la loro posizione e il comandante Marianus fece appello al coraggio delle sue truppe ricordando la famosa battaglia delle Termopili (V secolo a.C.) nella quale gli Spartani consentirono ai Greci di prendere tempo e sbaragliare, in seguito, l'esercito persiano. Il frammento dell'antico testo ritrovato si interrompe prima della conclusione del discorso di Marianus e dell'esito della battaglia. Gli storici ritengono, però, che questo discorso sia tutta un'invenzione di Deuxippo.
L'imperatore Decio, ritratto custodito nei
Musei Capitolini a Roma
Altri due ricercatori, Jana Gruskova dell'Università di Berna e Gunther Martin dell'Università Comenius di Bratislava, hanno pubblicato i frammenti relativi alla battaglia che si svolse alle Termopili tra Greci e Goti. Un frammento riporta un discorso attribuito all'imperatore Gaio Messio Quinto Traiano Decio, probabilmente anche questo invenzione di Deuxippo, in cui Decio chiama le truppe alla vittoria sui Goti. Quest'ultimo tentò di fermare i Goti e di tenere unito l'impero, ma perse sia le truppe che il territorio e infine anche la vita.
I Goti erano già penetrati nell'attuale Ungheria dove, nel 238 d.C., avevano conquistato la città di Histia. Nel 251 d.C., Decio e suo figlio Erennio Etrusco vennero uccisi in battaglia e il loro esercito venne sbaragliato ad Abrittus. In seguito molti Goti si inserirono nel sistema sociale romano e vennero arruolati nello stesso esercito. Più tardi i Goti che provenivano dal nord Europa e che avevano subito una dura repressione rispetto a quelli della loro gente che erano penetrati dal sud Europa, misero insieme le loro forze e presero la stessa città di Roma con Alarico, nel 410 d.C.
Il clima di decadenza in cui Dexippo compose le sue opere è significativo per giudicarne i contenuti. Dexippo drammatizzò i singoli avvenimenti, soprattutto se contemporanei, utilizzando ampi discorsi. Compose tre opere conosciute: "Storia dei successori di Alessandro", in quattro libri; "Cronografia", in dodici libri; "Scitica", che narra delle irruzioni dei Germani dalla Russia meridionale (Scitia) nell'impero romano dal 238 al 270 d.C. circa. Di tutte queste opere restano solo frammenti, alcuni anche piuttosto lunghi.

venerdì 18 marzo 2016

Egitto, nuova vita per Memphis

Particolare del Grande Tempio di Ptah (Foto: Bassem Ezzat)
Un team di archeologi dell'Università di York sta giocando un ruolo fondamentale nel grande progetto di dare nuova vita alle rovine di Memphis, capitale dell'antico Egitto. Con loro collabora il Ministero Egiziano delle Antichità e il Dottor David Jeffreys, direttore della Survey of Memphis.
Memphis è stata dichiarata patrimonio mondiale dell'Unesco, ma ultimamente i suoi monumenti sono stati sempre più minacciati dall'espansione urbanistica. Il progetto archeologico ideato dall'Università di York si propone di creare un circuito prevalentemente pedonale che sarà parte di un programma di riqualificazione del patrimonio attraverso la sensibilizzazione di turisti e locali.
Il "Circuito Memphis", come viene chiamato, collegherà tra loro otto siti chiave, tra i quali la porta occidentale, la sala ipostila del Grande Tempio di Ptah, scavato nel XIX secolo, e la Cappella dalle Bianche Mura, un monumento unico che ospita un gruppo di tre statue assise: il dio Ptah affiancato da due divinità femminili identificate come Tjesmet e Menefer.
L'obiettivo che si prefiggono gli studiosi è quello di coinvolgere anche la popolazione locale nella salvaguardia e nella fruibilità del sito, in modo che diminuiscano i furti e lo scarico di rifiuti nel luogo.
Memphis è stata da tempo indicata come He-Ka-Ptah, (il tempio del Ka di Ptah) che i Greci pronunciavano Aigyptos e che diede il suo nome attuale al Paese.

Torino, il Kouros Milani si mostra al pubblico

Il Kouros (o Apollo) Milani
(Foto: Museo Archeologico di Firenze)
Dal 5 marzo al 4 settembre 2016, nell'ambito della mostra "Il Nilo a Pompei. Visioni d'Egitto nel mondo Romano", allestita presso il Museo Egizio di Torino, sarà possibile ammirare il Kouros Milani.
L'intento della mostra torinese è quello di avvicinare il grande pubblico alla diffusione della cultura egizia nelle civiltà del Mediterraneo, partendo dal Delta del Nilo ed arrivando in Campania, in particolare a Pozzuoli, Ercolano e Pompei. Proprio nella prima sezione, riguardante l'incontro della cultura egizia con il mondo greco, è collocato il Kouros.
Questa statua, conosciuta anche come Apollo Milani, è stata datata al VI secolo a.C. (età greca arcaica) e proviene da una località nel comune di Osimo, in provincia di Ancona. Fu proprio nelle Marche che Luigi Adriano Milani, primo direttore del Regio Museo Archeologico di Firenze, acquistò questo Kouros unitamente ad un altro esposto anch'esso a Torino, nel 1902.
Il Kouros Milani è un giovane nudo, di altezza di poco superiore al reale, del quale non si conservano polpacci e piedi. Nel volto sono riconoscibilissimi i tratti della scultura greca arcaica, vale a dire gli occhi grandi, allungati, le pupille incise, le labbra appena tese nel famoso "sorriso arcaico". Le spalle sono larghe ma la vita è piuttosto stretta e questa è una caratteristica molto comune nelle statue maschili di età arcaica. Venne, con tutta probabilità, realizzata da uno scultore attico intorno al 550 a.C.
I kouroi rappresentavano, in origine, giovani offerenti alle divinità.

Danimarca, trovato un antico crocifisso d'oro

Il crocefisso d'oro trovato in Danimarca (Foto: Viking Museum Ladby)
Un raro esempio di ciondolo a forma di crocifisso, di matrice vichinga, è stato trovato in un campo in Danimarca da due cercatori di tesoro armati di metal detector. L'oggetto è in oro e raffigura un uomo con le braccia tese - il simbolo del Cristo crocifisso - e si pensa possa essere il più antico crocifisso danese.
Il ciondolo risale alla prima metà del X secolo d.C. e può essere utile per far luce sulla diffusione del cristianesimo in Danimarca. Attualmente è custodito nel Museo Vichingo di Ladby. I ricercatori stimano che il crocefisso sia più antico delle pietre runiche di Jelling, che hanno incisa una croce e che servivano a commemorare la conversione al cristianesimo di re Harald Bluetooth. La datazione di queste pietre è stata fissata al 965 d.C. e finora si era creduto fossero la più antica raffigurazione del Cristo crocifisso esistente in Danimarca.
Il ciondolo appena ritrovato potrebbe avvalorare la tesi secondo la quale i danesi hanno abbracciato la religione cristiana prima di quanto si pensasse finora. La superficie posteriore del ciondolo è liscia mentre la parte anteriore è fatta di fili d'oro finemente articolati e di piccoli granuli in filigrana. La croce è molto simile ad un analogo oggetto in argento dorato trovato, nel 1879, a Birka, vicino Stoccolma, in Svezia, in una tomba femminile vichinga. Probabilmente anche il crocifisso d'oro è stato indossato da una donna, ma al momento non se ne ha certezza.

giovedì 17 marzo 2016

Antico cimitero trovato nello Yorkshire

Nel sito di Pocklington, nello East Yorkshire, in Inghilterra, sono stati rinvenuti 150 scheletri con i loro oggetti personali. Il cimitero conteneva i resti di persone vissute nella media Età del Ferro, appartenenti alla cultura di Arras. Alcuni dei 75 tumuli di forma quadrata contenevano oggetti personali quali gioielli ed armi, uno scheletro recava con sé uno scudo.
Oltre ai gioielli, alle lance e alle spade, sono state trovate anche 360 perle d'ambra e di vetro, spille e vasi.
Braccialetto in bronzo con decorazione di coralli, trovato nello Yorkshire (Foto: MAP Archaeology)

Rarissima moneta d'oro romana trovata in Israele

La moneta d'oro trovata in Israele (Foto: Samuel Magal, Israel
Antiquities Authority)
Laurie Rimon, una residente del Kibbutz Kfar Blum, nel nord di Israele, mentre stava riposando dopo un'escursione nei pressi di un sito archeologico ha trovato una rara moneta d'oro, risalente al 107 d.C., raffigurante l'imperatore Augusto. Solo un'altra moneta somiglia a questa appena trovata e fa parte della collezione del British Museum.
Poco tempo fa un ragazzo ha fatto una scoperta altrettanto eccezionale nel sito di Beit She'an Valley: una statuetta cananea di 3400 anni fa. La moneta con l'effige di Augusto, secondo il "Jerusalem Post", è stata coniata da Traiano come parte di una serie di monete che l'imperatore volle dedicare a chi lo aveva preceduto.
Parlando della rarità della moneta appena rinvenuta, Donald T. Ariel, curatore capo del Dipartimento della Moneta al salone di Francoforte ha affermato che mentre le monete d'argento e di bronzo di Traiano sono piuttosto comuni e sono state trovate spesso in Israele, le monete d'oro di questo imperatore sono estremamente rare. Finora ne sono state trovate solo altre due, una vicino Gerusalemme, l'altra nella regione di Kiryat Gat. Sul retro della moneta compaiono i simboli delle legioni romane accanto all'immagine dell'imperatore Augusto, un'altra rarità, dal momento che solitamente era raffigurato l'imperatore sotto il quale la moneta era stata coniata.
La moneta è anche importante per attestare la presenza dell'esercito romano in Israele circa 2000 anni fa, forse impegnato in un'azione militare contro i sostenitori di Bar Kochba in Galilea. Quest'ultimo aveva capeggiato una rivolta contro i Romani nel 132-136 d.C.. I soldati Romani che combattevano in Israele erano ben pagati: ricevevano uno stipendio giornaliero di tre monete d'oro, equivalenti a 75 monete d'argento. Erano, così, in grado di acquistare beni di un certo valore sul mercato.

Trovate statue di Sekhmet e di Amenhotep III in Egitto

Una delle statue di Sekhmet nel luogo in cui è stata trovata
(Foto: Egypt Antiquities Ministry)
Nel tempio di Amenhotep III a Kom el-Hettan, sulla riva occidentale del Nilo, sono state scoperte otto statue raffiguranti la dea Sekhmet. Le statue sono in granito nero e sono emerse durante gli scavi che hanno interessato, in parte, i Colossi di Memnone, raffiguranti il faraone Amenhotep III. Direttore degli scavi è l'egittologo armeno Hourig Sourouzian.
La dea Sekhmet è raffigurata con una parrucca tripartita ed una tunica lunga ed aderente. La più alta delle sculture è di 1,90 metri. Sekhmet era una divinità solare ed una dea guerriera molto popolare soprattutto nel Nuovo Regno. Il Ministero egiziano per le antichità ha dichiarato che le statue trovate possono essere raggruppate in due categorie: la prima comprende sei statue che mostrano la dea con la testa leonina seduta sul trono e con il simbolo della vita (ankh) nella mano destra, tre delle statue sono quasi integre, di una è rimasta solo la parte superiore, di due solo la parte inferiore; il secondo gruppo scultoreo comprende due tronchi acefali e senza parti inferiori nei quali è, tuttavia, riconoscibile la divinità raffigurata con uno scettro di papiro nella mano sinistra e il simbolo della vita nella mano destra.
Testa e torso di una delle statue di Sekhmet
(Foto: Egypt Antiquities Ministry)
Accanto alle statue di Sekhmet gli archeologi hanno scoperto anche una statua raffigurante Amenhotep III con un mantello giubilare, scolpita nello stesso granito nero nel quale sono state scolpite le immagini della dea. Un tempo tutte queste statue circondavano un grande peristilio e la sala ipostila del grande tempio di Amenhotep III, che era il più grande dei templi funerari della zona di Tebe, quando venne costruito. Ricopriva, infatti, un'area di 350.000 metri quadrati circa e, pensano gli archeologi, potrebbe essere stato anche il tempio funerario più costoso della storia del Paese del Nilo.
Il team tedesco-armeno guidato da Hourig Sourouzian non è nuovo a scoperte importanti in Egitto. Nel 2014 ha portato alla luce due colossali statue di Amenhotep III molto simili ai famosi Colossi di Memnone. Anche questi colossi raffigurano il faraone seduto in trono e sono alte 11,5 metri per 250 tonnellate di peso. Originariamente le statue raggiungevano l'altezza di 13,5 metri, ma è andata perduta la doppia corona che decorava la testa del faraone.
Sekhmet era la dea-leonessa "onnipotente e dominatrice" ed era particolarmente adorata a Leopolis, nel secondo distretto del Basso Egitto. Fu, in seguito, introdotta nella Triade Menfita in qualità di sposa di Ptah. Figlio della coppia era Nefertem, il dio-loto.
La dea aveva una duplice natura: benefica e malefica. Rappresentava il calore mortale di Ra ed il dio la inviò a distruggere il genere umane, missione che Sekhmet, però, non portò a termine. Era assimilata anche a Mut, sposa di Amon a Tebe, ed era patrona di medici ed infermieri.
Il nome della dea potrebbe derivare dallo scettro sekhem, "forte e potente". Sekhmet è l'occhio di Ra, per cui assume spesso la forma di serpente e si pone sulla fronte di Ra per soffiare fuoco contro i nemici del dio con il nome di Mehenyt, da un verbo che vuol dire "avvolgere". Sekhmet è anche la signora della fiamma vendicatrice.

domenica 13 marzo 2016

Oman, trovati armi miniaturistiche in bronzo

A sinistra due faretre in bronzo, a destra archi in scala ridotta, anch'essi in
bronzo, dal sito di Mudhmar East, in Oman (Foto: Guillaume Gernez -
Mission archéologiue française en Oman central)
In un edificio di 3000 anni, nella regione di Adam, nell'odierno Sultanato dell'Oman, è stato trovato una sorta di ripostiglio che custodiva pugnali ornamentali, asce, archi e frecce, probabilmente un'offerta votiva al dio della guerra. Le armi sono, infatti, di dimensioni ridotte, non adatte ad essere utilizzate sul campo di battaglia e sono state datate ad un periodo compreso tra il 900 e il 600 a.C.
Alle armi in miniatura si aggiungono anche piccoli serpenti in bronzo e frammenti di incensieri, trovati tra le armi e associati anch'essi a pratiche religiose. La popolazione di quello che attualmente è l'Oman, iniziarono a costruire armi probabilmente all'inizio della produzione dei metalli i quali ultimi segnarono una maggiore diversificazione della società umana. Questa complessità finì per riflettersi nella proliferazione di fortezze e monumenti nella regione.
Gli archeologi sono intenzionati a perfezionare gli scavi e l'esplorazione del sito, importante per ricostruire gli albori della storia nella penisola arabica. La regione di Adam si trova tra le oasi e il deserto dell'Oman e finora non era mai stata esplorata. La missione archeologica francese vi opera dal 2007 ed è guidata, dal 2011, da Guillaume Gernez.
Archi, frecce ed asce trovate nel "ripostiglio" di Mudhmar East, in Oman
(Foto: Guillaume Gernez - Mission archéologique française en Oman central)
Le armi e i frammenti di incensieri sono stati rinvenuti in un luogo chiamato Mudhmar East, consistente in due edifici principali e numerose strutture minori ai piedi del Jabal Mudhmar, nei pressi di una grande valle crocevia di numerose rotte commerciali. Le armi erano state deposte in uno spazio tagliato nell'arenaria di un edificio di mattoni posto sul pendio della montagna e risalgono al periodo del Ferro II.
Gli archeologi pensano che le armi siano cadute da una mensola o da mobili o che fossero appese alle pareti di una stanza che sono, in seguito, crollate. Tra le armi due piccole faretre interamente in bronzo contenenti ciascuna sei frecce. Tutti questi reperti sono in scala ridotta ed imitano gli originali, realizzati in materiale deperibile che, solitamente, non vengono rinvenuti negli scavi. Il fatto che le faretre siano di metallo sta a significare che non erano state fabbricate per essere realmente utilizzate. Faretre di questo tipo non sono state mai trovate finora nella penisola arabica e sono estremamente rare anche altrove.
Le altre armi, anch'esse di misure ridotte e sicuramente create per fini diversi dall'utilizzo nella vita di tutti i giorni, sono cinque asce da guerra, cinque pugnali con pomelli a forma di mezzaluna, una cinquantina di punte di freccia e cinque archi completi. Questi ultimi sono costituiti da una curva d'arco le cui estremità sono collegate ad un laccio di bronzo. 

In mostra gli ori di Oplontis

Alcuni dei ritrovamenti esposti nella mostra a Torre Annunziata (Foto: Ansa)
(Fonte: Ansa) - La statua dell'Efebo e le due preziosissime Centaure, meraviglie riportate alla luce quarant'anni fa dagli scavi della Villa di Poppea e da allora chissà perché rimaste nei depositi. Il tenerissimo Puttino con l'oca e la Venere, esposti al pubblico solo una volta. I vetri delicati delle ampolle, un tempo ricche di oli e profumi. E poi gli ori strepitosi, dalle fastose collane agli orecchini, i pendenti, i bracciali, le fibule.
Rimasto per decenni nel chiuso di magazzini e depositi, torna alla luce, protagonista di una piccola mostra gioiello a Torre Annunziata, il tesoro di Oplontis. Con oltre 40 pezzi di enorme valore, in gran parte mai visti, esposti nelle Sale di Palazzo Criscuolo, sede del Comune. E insieme arriva, per la terra di Giancarlo Siani, il progetto di un museo archeologico che possa permettere un'esposizione permanente dei tesori riemersi in decenni di scavi. Ma anche regalare un'occasione di rilancio a un territorio troppo a lungo devastato da criminalità e degrado. Dedicata alla memoria di Khaled al Assad, il direttore degli scavi di Palmira trucidato ad agosto (dello scorso anno) dall'Isis, fortemente voluta dal sindaco Giosuè Starita e dall'assessore alla cultura Antonio Irlando, che anche simbolicamente hanno voluto allestire il percorso nelle sale del comune, compresa l'aula del consiglio intitolata a Siani, la mostra raccoglie le statue che ornavano la grandiosa Villa attribuita a Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone.
Portico della Villa di Poppea a Oplontis (Foto: pompeiisites.org)
Un'abitazione maestosa e sconfinata che duemila anni fa con i suoi terrazzamenti si affacciava sul mare, principesca per la magnificenza dei mosaici e degli affreschi che ne arricchivano gli ambienti, anche se al momento dell'eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C., era vuota di arredi e disabitata per lavori in corso. Da quelle stanze raffinate e lussuose, così come dai portici e dai giardini lussureggianti dove brillavano le acque della grande Natatio, arrivano appunto opere come l'Efebo, il Puttino con l'oca, la Venere e le due Centaure, straordinariamente preziose perché uniche, secondo gli studiosi, in tutto l'Ecumene romano. I gioielli e i vetri, invece, di solito custoditi nel Museo Archeologico di Napoli ma non sono esposti al pubblico, provengono da un'altra importante villa romana della zona di Torre Annunziata, quella intitolata a Crasso. Di fatto un grande complesso, con imponenti colonnati riportato alla luce a partire dal 1974 e da allora ancora mai aperto al pubblico.
Alcuni degli affreschi della Villa di Poppea ad Oplontis
(Foto: amicidipompei.com)
Qui, in grandi ambienti che forse fungevano da magazzini (questa seconda villa doveva essere in realtà una vera e propria azienda agricola) vennero sorprese dall'eruzione oltre 50 persone in fuga. Molti avevano indosso gioielli, alcuni stringevano tra le mani sacchetti con i loro preziosi. Qualcuno, forse i ricchi proprietari della villa, aveva stipato le sue cose più preziose in una cassa, riportata alla luce dagli archeologi nel 1984 in un altro locale della casa. Al suo interno ben 170 monete d'oro e tanti gioielli in oro e argento. E poi unguentari, stecche in osso, piastrine di vetro per il trucco. Un vero e proprio tesoro che ora si racconta alla città. E che nei prossimi mesi, si augura Irlando, potrebbe trovare una sua sede definitiva nel nuovo museo che dovrebbe sorgere nell'ex Real fabbrica d'armi, un edificio borbonico che sorge a un passo dalla villa di Poppea: "Prendere un bene dismesso per metterci dentro beni nascosti per troppo tempo agli occhi del mondo mi sembra naturale", dice Irlando. Per Torre Annunziata un sogno che si avvicina. La svolta, Irlando ne è convinto, "può arrivare solo dalla cultura".

sabato 12 marzo 2016

Trovato un altro frammento della Forma Urbis

Il frammento della Forma Urbis trovato nel 2014
(Foto: Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali)
Secondo la Soprintendenza di Roma, è stato individuato un altro frammento della più antica e grande mappa dell'antichità, risalente a 2200 anni fa, la Forma Urbis. Il nuovo frammento si collega ad uno più grande, scoperto nel 1562, e reca delle lettere che completano la parola "Circo Flaminio". La Forma Urbis venne scolpita sul marmo tra il 203 e il 211 d.C.
La maggior parte dei frammenti dell'antica mappa sono custoditi nei Musei Capitolini. Si tratta di appena il 10 per cento dell'intera superficie della mappa che, un tempo, era esposta sulle pareti del Tempio della Pace, un muro del quale è ancora visibile in un edificio vicino la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, con i fori e le fascette di bronzo che reggevano la mappa ancora visibili.
Il nuovo frammento è stato scoperto nel 2014, durante i lavori a Palazzo Maffei Marescotti, un edificio di proprietà del Vaticano. Il frammento fa riferimento ad una zona di Roma che attualmente si trova al di sotto del Ghetto e che, un tempo, era dominata dal Circo Flaminio, costruito nel 220 a.C.

domenica 6 marzo 2016

Micenei di Macedonia

Una delle sepolture micenee scavata a Elati
(Foto: G. Karamitrou-Mentesidi)
Nel sito di Loggas, vicino Elati, a Kozani, in Macedonia, a breve distanza dall'antica Aiani, è stato portata alla luce una vasta necropoli micenea con 31 sepolture intatte contenenti diversi oggetti preziosi e vasi in ceramica, tra le quali 12 coppe potorie micenee (kylikes).
La presenza micenea in Alta Macedonia è, oramai, ben documentata da diversi siti rinvenuti in tutta la regione. Il sito di Elati si estende per 45 ettari, dei quali, al momento, sono stati scavati appena due. La necropoli si trova lungo le rive del fiume Aliakmon ed occupa circa 5 ettari di terreno, scavato in minima parte. Le 31 sepolture sembrano risalire all'Età del Bronzo (1600-1100 a.C.), anche se gli archeologi sono del parere che potrebbero risalire anche ad un periodo antecedente.
Le sepolture sono rivestite di lastre di pietra e contenevano anelli di bronzo e perle d'ambra unitamente a ceramiche come ciotole, brocche, tazze potorie ed anfore per un totale, al momento, di 47 oggetti di uso quotidiano. In 7 delle sepolture sono stati rinvenuti 12 calici micenei (kylikes), già conosciuti per essere stati trovati in altri siti macedoni. La forma di quelli trovati ad Elati si rifa a esemplari rinvenuti in Epiro e ad esempi della Grecia occidentale (Cefalonia, Itaca).
Kylikes micenee da Elati (Foto: G. Karamitrou-Mentesidi)
Le coppe di Elati recano una ricca decorazione con motivi diversi, tra i quali la spirale, i cerchi concentrici, le spine di pesce e zig zag orizzontali. Le kylikes ed altri vasi micenei erano prodotti in piccoli laboratori locali ed erano considerati non solo un oggetto indispensabile nelle abitazioni ma ideali per accompagnare il defunto nel suo viaggio nell'aldilà.
Kozani è capoluogo del dipartimento omonimo della Macedonia occidentale. Aiani (o Aianè), secondo il mito tramandato da Stefano di Bisanzio, venne fondata da Aiano, figlio di Elimo re dei Tirreni, che si era trasferito in Macedonia.
Sulla collina di Megali Rachi, a nord del corso del fiume Aliakmon, gli scavi hanno avuto inizio nel 1983. Si è accertato che i terrazzamenti presenti sono occupati da avanzi architettonici che rimandano a diversi periodi di vita del sito, dall'Età del Bronzo fino al I secolo a.C., data del suo abbandono. L'insediamento di Aiani aveva rapporti commerciali diretti con il resto del mondo greco ma aveva propri laboratori per la lavorazione dei metalli e della ceramica.

Chihuahua, trovata la sepoltura di una bambina di 3200 anni fa

Alcune delle 370 punte di freccia trovate vicino al fiume
Santa Maria, in Messico (Foto: E. Gallaga)
Gli archeologi che stanno operando nelle zone di confine a nord del Messico hanno scoperto una località utilizzata dai cacciatori di 10500 anni fa, a nord di Chihuahua, vicino il fiume Santa Maria. Sono stati portati alla luce più di 18.000 reperti, tra i quali migliaia di scaglie di pietra, martelli, 370 punte di freccia e una dozzina di forni in pietra.
Il ritrovamento più importante, però, è stato senz'altro la sepoltura di una giovane donna, deposta tra le rocce, sola senza oggetti di corredo, 3200 anni fa. I suoi resti potrebbero contribuire a comprendere e meglio delineare la storia e le vicissitudini dei gruppi umani che introdussero l'agricoltura in questa regione arida, praticamente i primi coltivatori di mais nel deserto di Chihuahua. A dirigere gli scavi è il Dottor Emiliano Gallaga.
Questo sito venne utilizzato come una sorta di campo base, costituito da diverse aree separate di lavoro, ciascuna area contenente pietrisco e strumenti. Gli archeologi hanno repertato prove risalenti all'8000 a.C.. Le 370 punte di freccia raccolte presentano ben 30 stili diversi che vanno dal Paleoindiano al periodo Arcaico.
Il cranio della giovane donna è stato trovato ad appena 20 centimetri sotto la superficie di un pendio fortemente eroso. La ragazza è morta intorno ai 12-15 anni di età, ma non sono ancora chiare le cause della sua morte, le sue ossa non mostrano tracce evidenti di traumi o di malattie. L'adolescente venne sepolta in posizione flessa. L'analisi con il radiocarbonio su tre dei suoi denti ha restituito una datazione risalente al 1360 a.C. circa.
Non lontano dal luogo dove è stata fatta questa incredibile scoperta sorge un insediamento collinare noto come Cerro Juanaquena, il sito più importante del suo genere a nord di Chihuahua. Alla fine del 1990 gli archeologi hanno studiato il sito di Cerro Juanaquena trovandovi più di 400 terrazze di basalto costruite sulle colline, alcune delle quali erano state utilizzate a fini agricoli. Oltre alle terrazze furono trovati anche 100 cerchi in pietra che costituivano, con tutta probabilità, le fondamenta delle abitazioni. Qui gli archeologi hanno trovato resti di mais risalenti al 1150 a.C., la prima prova dell'esistenza di questa coltura nel Chihuahua. A Cerro Juanaquena non sono, però, emersi resti umani. Se, però, l'adolescente i cui resti sono stati trovati recentemente era un membro della stessa comunità che diede vita a Cerro Juanaquena, gli archeologi avrebbero a disposizione una notevole mole di dati da studiare in merito ai primi coltivatori di mais del Chihuahua.
Al momento sono ancora in corso le analisi del Dna sulle ossa dell'adolescente per avere un'idea più precisa sul collocamento di questa sepoltura nella regione. Altre ricerche si stanno concentrando sugli isotopi di stronzio presenti nei denti della giovane, così come sulla sua dieta. Si vuole capire se si nutrì di mais, che potrebbe essere un buon indicatore del suo collegamento con la cultura di Cerro Juanaquena.

Gerusalemme, pressa per il vino e balneus romani

L'archeologo Alex Wiegmann accanto al luogo dove era
situata una pressa per il vino nel complesso Schneller
a Gerusalemme (Foto: Israeli Antiquities Authority)
Al di sotto dell'orfanotrofio Schneller, a Gerusalemme, che fu in uso dal 1860 fino alla fine della seconda guerra mondiale, gli archeologi hanno trovato i resti di una cantina e di un balneus romani, risalenti al 1600 anni fa. Si trattava, probabilmente, di spazi appartenenti ad una sorta di fattoria romana che produceva anche vino ed era anche un punto di stazionamento per i componenti della X Legio romana.
Gli archeologi hanno ritrovato un pavimento in mosaico bianco ed un pozzo nel quale una pressa a vite estraeva la massima quantità di mosto dalle uve che vi erano gettate. Attorno alla pressa sono state trovate otto celle che si pensa siano state utilizzate per collocarvi i grappoli d'uva prima della spremitura oppure per mescolare il vino con profumi ed aromi durante la fermentazione.
Mattoni con impresso il simbolo della X Legio romana
(Foto: Israeli Antiquities Authority)
Il balneus è stato trovato accanto alla cantina. Sono visibili i tubi di terracotta che dovevano riscaldarlo e diversi mattoni in argilla. Sia la cantina che il balneus, secondo le autorità, erano parte di uno stesso complesso che comprendeva anche una tenuta agricola. E' interessante notare che questi ritrovamenti fanno altresì pensare ad un'antica dottrina medica praticata da un gruppo di medici romani conosciuti come Metodisti, che usavano prescrivere, per la cura del dolore e di altri disturbi, vino e bagni rilassanti. Questo non impediva loro di servirsi anche di altre metodologie di trattamento del dolore più in linea con quelle praticate all'epoca.
Gli edifici che sono stati intercettati nel complesso Schneller sono di epoca tardo-romana e bizantina. Alcuni mattoni trovati in situ recano impresso il sigillo della X Legio e sembrano suggerire che questo complesso fosse presidiato da militari che, con tutta probabilità, hanno costruito altri ambienti del complesso. La X Legio faceva parte di un gruppo di quattro legioni inviate nella regione per porre sotto assedio Gerusalemme (distrutta dai Romani nel 70 d.C.). Fu presente a Gerusalemme anche durante la rivolta di Bar Kokhba, nel 132-136 d.C.. Alcune unità della legione rimasero a presidiare Gerusalemme, pare, fino al 300 d.C.
I ricercatori pensano che questo complesso dotato di cantina, pressa e balneus fosse un insediamento secondario, simile a quello trovato a Binyanei Ha-Uma, poco distante dallo scavo attuale, anch'esso legato alla X Legio romana.

I Nubiani, più Egiziani degli Egiziani...

Faraoni nubiani della XXV Dinastia
Intorno al 1500 a.C., l'Egitto conquistò quella che un tempo si chiamava Nubia superiore, attualmente corrispondente al Sudan. La prova delle mescolanze culturali sono state rinvenute in una tomba recentemente scoperta nella necropoli di Tombos, ad est del Nilo, appartenente ad una donna sepolta secondo le usante nubiane ma con amuleti egiziani che dovevano proteggerla e guidarla nell'oltretomba.
Gli archeologi hanno dichiarato che sepolture come questa segnano un contatto ed uno scambio tra due culture, che finiscono per influenzarsi l'una con l'altra. La sepoltura femminile (si tratta di una donna morta in tarda età) che è stata studiata in Sudan si chiamava Weret. Giaceva su una sorta di letto in posizione flessa, che riflette lo stile nubiano, attorno a lei ed al suo collo, però, vi erano amuleti del dio egizio Bes. Weret venne sepolta con lo scarabeo egiziano del cuore, a dimostrare che aveva un'alto rango nella società nubiana.
I ricercatori stanno effettuando studi sul cranio e sullo scheletro della defunta per determinare le relazioni biologiche tra Egiziani e Nubiani sepolti nella necropoli di Tombos e per far luce sull'intreccio culturale verificatosi dopo la conquista dell'Egitto da parte della Nubia (XXV Dinastia), tra il 750 e il 650 a.C.. I primi risultati mostrano come i Nubiani si presentassero culturalmente più egiziani dei governanti che avevano rovesciato. Gli storici stanno ora studiando la possibilità che i faraoni nubiani, proprio grazie alla lunga e profonda influenza dovuta alla dominazione egizia, possano essersi presentati nel ruolo di restauratori dell'antico ordine delle cose.
Nella sepoltura di Weret è stata trovata anche una ciotola piena di bacche di ginepro, posta accanto al suo sarcofago. Si pensa che fossero utilizzate, anticamente, come spezia per i cibi oppure come profumo. Bacche di ginepro furono rinvenute anche nelle sepolture dell'architetto reale Kha e del faraone Tutankamon
Veduta della necropoli di Tombos, Alta Nubia (Foto: Tombos.org)

Trovata antichissima necropoli in Palestina

L'ingresso ad una delle sepolture di Khalet al-Jam'a, vicino la città di
Betlemme (Foto: Rosapaj, Università "La Sapienza" di Roma)
Nella primavera del 2013 è stato scoperto un antico cimitero, vicino Betlemme, che sta fornendo nuove informazioni su una civiltà vissuta 4000 anni fa. In quell'anno si stava costruendo un parco industriale proprio nei pressi della città di Betlemme e durante i lavori è stata fatta questa scoperta interessantissima.
Il terreno destinato ad edificazione industriare era, anticamente, destinato ad ospitare una necropoli. Quest'ultima, al momento, ha restituito 100 sepolture. La necropoli, secondo gli archeologi, si estenderebbe su una superficie di circa 3 ettari, sul fianco di una collina ed era collegata ad un insediamento a tutt'oggi sconosciuto. Nel 2014 i ricercatori del Ministero del Turismo e delle Antichità della Palestina hanno iniziato gli scavi in quella che è stata chiamata Khalet al-Jam'a, riportando alla luce le prime sepolture. L'anno successivo una missione archeologica congiunta italo-palestinese ha effettuato nuovi sondaggi a Khalet al-Jam'a per pianificare le future esplorazioni, obiettivo delle quali è quello di preservare l'importante necropoli.
Amuleti a forma di scarabeo, mutuati da modelli egiziani, trovati a
Khalet al-Jam'a (Foto: Rosapaj, Università "La Sapienza" di Roma)
Il sito risale all'Età del Medio Bronzo e del Ferro ed ha avuto un utilizzo esteso nel tempo: si parla di oltre un millennio e mezzo. Secondo il Professor Lorenzo Nigro, dell'Università "La Sapienza" di Roma, la necropoli era situata lungo antiche rotte commerciali e rifletteva il relativo benessere della società che la utilizzava, benessere che traspare dai corredi funerari rinvenuti: lampade a beccucci, vasi di diverse dimensioni, ciotole con orlo estroflesso, pugnali di bronzo e punte di lancia.
Collocazione della necropoli di Khalet al-Jam'a
(livescience.com)
Anche se la necropoli è stata in parte distrutta dai saccheggiatori e dall'edilizia selvaggia, gli archeologi sono riusciti comunque a trarne utili informazioni. Il luogo è caratterizzato principalmente da tombe a pozzetto, le cui camere sono scavate nella roccia con deposizioni multiple o singole. In una tomba sono stati rinvenuti i resti di un uomo, una donna e un bambino, sepolti con due pugnali di bronzo ed una serie di ceramiche tra cui anche vasi gemelli forgiati attaccati l'uno all'altro. Un'altra sepoltura conteneva i resti di un individuo di sesso maschile, sepolto con una lampada in ceramica; questa sepoltura, secondo i ricercatori, risalirebbe ad un periodo antecedente l'Età del Bronzo.
Lorenzo Nigro ha avanzato l'ipotesi che la città alla quale la necropoli era collegata possa aver subito una crisi profonda intorno al 650 a.C. circa, crisi che ha determinato la cessazione delle sepolture a Khalet al-Jam'a. La natura di questa crisi non è ancora ben chiara, malgrado si sappia che gli imperi assiro e babilonese puntavano, proprio in quegli anni, alla conquista di questo territorio.
Una delle sepolture conteneva degli scarabei risalenti alla XIII Dinastia egizia (1802 - 1640 a.C. circa). Gli Egizi erano molto attivi, all'epoca, in questa regione, nella quale stavano espandendo i loro contatti commerciali. Tuttavia gli archeologi ritengono che gli scarabei che hanno ritrovati siano stati prodotti in loco. Lo scarabeo era un simbolo molto importante, nell'antico Egitto. In alcuni casi venivano posti, al collo dei defunti, ciondoli a forma di scarabeo per garantir loro un viaggio sereno nell'aldilà. Uno degli scarabei trovati a Khalet al-Jam'a era inciso con disegni di spirali e geroglifici.

sabato 5 marzo 2016

La cisterna delle Terme dei Gladiatori di Commodo

(Foto: roma.repubblica.it)
(Fonte: Repubblica) - Il tesoro è nascosto sottoterra, come molte delle sorprese che il parco archeologico dell'Appia antica ancora può riservare. Ma il patrimonio scoperto sotto il manto erboso del complesso di Santa Maria Nova, accanto alla villa dei Quintili, non è fatto di forzieri, monete, gioielli. Nemmeno di sculture antiche. Eppure di qualcosa di altrettanto prezioso. E, in quanto opera di ingegneria, di tipicamente romano: un criptoportico di età adrianea, trasformato sotto Commodo in cisterna per rifornire d'acqua le terme dei suoi pretoriani e costruito con semplici mattoni che recano però impressi i segni di una straordinaria, umile storia: i marchi della fabbrica che li costruì e il nome dei consoli del 123 d.C. che regnavano in quel tempo, ma anche la sigla, anonima e commovente, delle operaie che li impastarono, perfino l'impronta degli animali che camminarono sopra i conci quando erano freschi, stesi ad asciugare.
A studiare e a ragionare sulle storie nascoste in queste decine di forme, di punti e di segni, sono gli archeologi della Soprintendenza guidati da Rita Paris, responsabile per lo Stato dell'Appia antica. Ma a giugno arriveranno, dalla Scuola di specializzazione in restauro, gli studenti del cantiere-scuola che, diretto da Maria Grazia Filetici e da Anna Maria Pandolfi, farà scendere per il secondo anno sul campo erboso di Santa Maria Nova giovani architetti, archeologi e storici dell'arte. Che dovranno subito prendersi cura del pavimento di mosaici, a tessere nere con croci bianche, che rivestiva la parte superiore della cisterna interrata, quando si costruì il camminamento che dagli alloggi delle guardie imperiali di Commodo portava alle loro terme. E che secoli di lavori agricoli hanno frantumato e ricoperto. "Sotto il manto erboso, ci potrebbero però ancora essere tratti integri di tappeto musivo", spiega l'archeologo Riccardo Frontoni scoprendo il frammento venuto alla luce e ora da restaurare.
Ma scendiamo i pochi gradini che portano al criptoportico-cisterna, l'aula di circa 45 metri per 6, ma ancora da misurare, liberato dalle tonnellate di detriti e carcasse di animali lasciati dal pastore che, fino al 2008, occupava illegalmente questo angolo di paradiso a pochi metri dal tracciato dell'Appia antica. Le 12 "finestre" originarie, strette e scavate apposta a 30 gradi, sono state riaperte e, come d'incanto, con l'ingresso del sole, l'umidità e l'acqua sono scomparse dai muri e dal pavimento. Usato nel medioevo e nel rinascimento dai frati olivetani che avevano costruito a pochi metri Santa Maria Nova, forse su una cisterna romana mai entrata in funzione, il deposito d'acqua per le terme con i mosaici dei gladiatori cari a Commodo, era entrato in funzione alla fine del II secolo d.C. al posto del criptoportico costruito circa trent'anni prima come deposito di derrate alimentari, ma anche della neve per fare i sorbetti. Una delle ipotesi è che questa "cantina" servisse uno degli "alberghi" o stazioni di posta costruiti lungo la Regina Viarum (in quel tratto sorgeva anche l'ustrinum, il luogo delle cremazioni). Certo è che poi, rinforzato da un muro laterale, il criptoportico fu trasformato in cisterna: rifornita prima dall'Acquedotto dei Quintili e, poi, distrutta la rete idrica dell'impero, dall'acqua piovana e dalle fonti sorgive lì indirizzate ancora nell'Ottocento per irrigare campi ed orti.
Chiusi i rubinetti e tolta adesso la massa dei detriti, la cisterna è tornata a mostrare le forme semplici e perfette dell'ingegneria idraulica romana. I furti avvenuti nel medioevo l'hanno privata dei conci più grandi, i bipedali e i bessali. Ed ecco ora apparire la trama più interna e segreta dei mattoni con il marchio dei consoli Petino e Aproniano (123 d.C.). I bolli di fabbrica. E quei puntini ravvicinati, come un alfabeto Morse, attraverso cui operai, operaie e schiavi "firmavano" i mattoni che costruirono i templi, i palazzi ma anche le cisterne della Roma dei re.

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