lunedì 7 dicembre 2009

Il trionfo secondo i Romani



Giuridicamente lo ius triumphandi regolava il trionfo nell'antica Roma. Solo i magistrati rivestiti di un imperium (cioè giuridicamente messi in grado di comandare un esercito nonchè di reclutarlo) potevano aspirare ad un trionfo.
Prima della battaglia il magistrato doveva prendere gli auspicia, praticamente doveva presiedere ai rituali propiziatori. La guerra che egli andava ad affrontare doveva, poi, essere un bellum iustum, una guerra dichiarata secondo il rituale tradizionale e la vittoria doveva essere ottenuta con una battaglia cruenta e schiacciante. I nemici uccisi dovedvano superare il numero di 5000, l'esercito doveva ritornare in patria e doveva essere dimostrato di aver ampliato, con la guerra, i confini dello stato.
Una volta soddisfatte queste "condizioni", il trionfatore poteva iniziare l'iter burocratico che non era così scontato come poteva apparire. Si iniziava cercando di ottenere l'acclamazione ad imperator, cioè generale, da parte delle truppe. Una volta ottenuta, il candidato inviava al Senato una lettera, la littera laureata, in quanto decorata con alloro (in riferimento alla corona trionfale), con la quale si informava il supremo organo dello stato dell'accaduto e si inoltrava la postulatio, la richiesta ufficiale di trionfo.
Tornato in patria, il trionfatore non poteva varcare i confini del pomerium, il confine sacralizzato della città di Roma. Doveva attendere fuori Roma il giorno della celebrazione. Se i magistrati tornavano a Roma dopo la scadenza del mandato, l'iter si complicava, perchè bisognava attendere l'approvazione, da parte del Senato, di un'apposita legge che doveva prorogare, per il solo giorno del trionfo, la pienezza dei diritti magistratuali (l'imperium).
Il Senato si riuniva nel tempio di Bellona, dea della guerra, immediatamente fuori al pomerio, per approvare o meno la concessione del trionfo. Si ascoltava la relazione del candidato che egli stesso, o un altro magistrato, leggeva. Poi si prendeva la postulatio e si discuteva in merito alla concessione del trionfo. Molti videro negarsi, dal Senato, il trionfo, malgrado avessero condotto campagne militari vittoriose. M. Claudio Marcello, conquistatore di Siracusa nel 212 a.C., dovette, per esempio, contentarsi dell'ovatio, versione sottotono del trionfo, in quanto non aveva riportato in patria l'esercito. Scipione l'Africano, invece, si vide negare il trionfo per le vittorie in Spagna da un cavillo legale.
Una volta superati tutti gli ostacoli burocratici, il trionfatore poteva godersi il suo giorno di gloria e poteva organizzare un evento "inventato" anche per stupire le masse e rendere immortale il nome del protagonista. Il trionfo, iconograficamente, è paradossalmente assai poco rappresentato ed è difficile, anche per i cambiamenti apportati alla cerimonia nel corso di otto secoli, ricostruirlo. Il periodo in cui le testimonianze sono più copiose è certamente l'età tardorepubblicana (I secolo a.C.), perchè fu il secolo d'oro del trionfo, come scrive Polibio.
La processione trionfale si apriva con il trasporto del bottino. La plebe, radunatasi per l'evento, poteva così stupirsi di fronte alle ricchezze ed ai tesori che sfilavano dinnanzi ai suoi occhi. Indimenticabile dovette, per esempio, essere la vista dei fercula, le portantine colme d'oro e di oltre 70 milioni di monete d'argento, prese da Pompeo a Mitridate VI Eupatore, re del Ponto, che il generale romano fece sfilare nel suo trionfo del 61 a.C..
Al bottino seguivano le immagini che raffiguravano, con il corredo di iscrizioni, le città, i monti ed i fiumi che avevano fatto da sfondo agli eventi bellici. Alcuni erano modellini tridimensionali, come quelli esposti da Cesare durante il trionfo del 46 a.C. o quelli realizzati in legno per il più modesto trionfo dei suoi generali. Potevano essere mostrate, accanto a questi modelli, anche le statue con la personificazione di fiumi importanti. Per dare maggiore realismo a tutta la composizione, talvolta si facevano sfilare anche i prigionieri di guerra, costretti a ricostruire i momenti cruciali della battaglia. Fu questa la sorte riservata ai comandati delle truppe giudaiche esposti durante il trionfo di Tito.
Il trionfo proseguiva mostrando al pubblico le coronae triumphales, in oro massiccio e pietre preziose, che le città, liberate o conquistate che fossero, avevano offerto al vincitore. La testimonianza iconografica più completa è costituita dal fregio della processione trionfale che si conserva nell'arco di Traiano a Benevento (inizi II secolo d.C.). Le coronae triumphales potevano assumere dimensioni gigantesche, pari quasi a quella di un uomo.
Dopo le coronae triumphales sfilavano i tori bianchi destinati al sacrificio nel tempio di Giove Capitolino, dove il trionfo si sarebbe concluso. Il numero degli animali che sarebbero stati sacrificati variava in ragione delle possibilità del trionfatore. Emilio Paolo, trionfatore sui Macedoni nel 167 a.C., sacrificò ben 120 buoi.
Il passaggio del vincitore era preceduto dal passaggio dei prigionieri illustri o, in mancanza di questi, da prigionieri dall'aria particolarmente minacciosa. Si poteva, anche, in mancanza di prigionieri, a "scritturare" dei sostituti. Quest'eventualità si verificò soprattutto in epoca imperiale. Celebre il caso di un trionfo di Caligola sui Germani, per impersonare i quali furono utilizzati dei Galli ai quali furono tinti i capelli di rosso.
Il trionfatore era preceduto, nel suo incedere, dai littori con i fasci. Egli guidava una quadriga dalle redini d'oro. Il generale vittorioso, con il volto dipinto di rosso, doveva risaltare come una vera e propria immagine divina. La vestis triumphalis che avvolgeva il generale, intessuta di porpora e d'oro, era conservata nel tempio di Giove Capitolino e l'indossarla costituiva la piena identificaione, almeno per un giorno, dell'uomo con la divinità suprema.
Un servo di stato, per riportare il generale trionfante con i piedi per terra, prendeva posto sulla quadriga e, mentre reggeva sulla testa del generale la corona d'oro, gli ripeteva nell'orecchio "hominem te esse memento", ricordati che sei un uomo. Oppure "respice post te", guarda dietro di te. Allo stesso scopo servivano anche due singolari oggetti che erano appesi sotto il carro di trionfo: un campanello ed una frusta. Secondo Dione Cassio, storico degli inizi del III secolo d.C., si trattava di un monito alla possibilità per chiunque, anche per il trionfatore, di essere un giorno fustigato o indossare, come era uso per i condannati a morte, un campanello.
Il carro del trionfatore era seguito dagli ufficiali più stretti del magistrato trionfante, dal senato, dai magistrati ed, eventualmente, dai cittadini romani liberati nel corso della guerra, vestiti come liberti. Il corteo era chiuso dalla truppa disarmata che cantava i carmina incondita (i canti improvvisati, solitamente assai sfrontati e volgari), diretti al trionfatore. Non mancavano osservazioni salaci sui reali meriti avuti dal trionfatore nella vittoria conseguita.
Il corteo, dopo aver percorso un cammino piuttosto tortuoso, si concludeva ai piedi del Campidoglio. Qui il trionfatore, sceso dalla quadriga, affrontava a piedi la salita al colle. Durante questa salita Cesare fece disporre, lungo il percorso del Clivus Capitolinus, file di elefanti ai lati della strada che reggevano delle fiaccole (lichnophoroi) con le probosciti. Una volta compiuto il sacrificio a Giove, le carni dei buoi sacrificati venivano preparate per il banchetto dei magistrati e dei senatori. Un altro banchetto era offerto al popolo ed all'esercito. Così terminava la giornata del trionfatore sui nemici di Roma. I simboli del trionfo erano collocati sulla facciata della sua casa e nessuno, neppure un eventuale nuovo proprietario, li avrebbe tolti.

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