Il garum è una sorta di cibo nazionale dell'antica Roma. I Romani lo utilizzavano non solo per insaporire i cibi, ma anche per curare i malanni. Il garum era una salsa a base di pesce ed oggi questa salsa può essere gustata a Pompei, grazie all'archeoculinaria.
Ma non è solo il garum a fare da testimone degli antichi tempi nella ambasciate del nostro paese, ci sarà anche il vino prodotto dalle stesse uve che coltivavano gli antichi Romani, cresciute su vitigni impiantati negli scavi di Pompei. I vini sono l'aglianico, lo sciascinoso ed il piedirosso.
Queste alcune delle iniziative che legano gli scavi di Pompei ad esperimenti per riportare i sapori dell'agricoltura dei nostri antenati. Semi, pollini, frammenti vegetali e residui di cibo che si sono conservati per millenni sotto la lava sono, oggi, analizzati dal Laboratorio di Ricerche Applicate della Soprintendenza di Pompei. Queste analisi hanno dato luogo ad un variegato acquarello della cucina antica che era molto diversa dalla nostra. Vi trionfavano i gusti sapidi e gli odori marini: per esempio proprio il garum, onnipresente nei piatti dell'epoca al punto da venire, oggi, definito il ketchup dell'antichità.
La ricetta del garum, però, lascia alquanto perplessi: "Dagli intestini dei pesci e dalle altre interiora che si dovrebbero buttare via, dopo averli fatti macerare col sale affinché ci sia quel tipico sangue marcio delle cose che imputridiscono, si ricavava anche un altro tipo di squisita salsa, che si chiamava "garo". Questa un tempo si otteneva dal pesce, che i greci chiamavano garon", scrive Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia.
I Romani erano ghiottissimi di questa salsa che sembra essere, a noi moderni, assai poco allettante. Era un prodotto preziosissimo, il garum, ed era al centro di traffici commerciali che si svolgevano nel Mediterraneo. Continua Plinio: "Quasi nessuna altra salsa, tranne gli unguenti, comincia ad avere un prezzo più alto, anche tra le famiglie nobili. La Mauritania e anche la Carteia della Betica catturano gli sgombri che provengono dall'Oceano, a nient'altro utili. Clazomene, Pompei e Leptis sono apprezzate per il garum". Il garum era, in poche parole, un condimento pregiato, per i ricchi uno status symbol.
Petronio, nel Satyricon, descrivendo la tavola di Trimalcione, scrive di un immenso vassoio con una lepre e agli angoli quattro statuette che versano del garum su una guarnitura di pesci. Un trionfo che la dice lunga su quanto la salsa fosse apprezzata.
Anticamente non vi era l'usanza di salare i cibi, poichè il sale era un bene assai prezioso ed era considerato uno spreco, utilizzarlo sulle vivande. La salamoia, pertanto, permetteva di condire le pietanze riutilizzando il sale che era stato utilizzato per conservare i cibi. Inoltre il garum permetteva di riutilizzare anche gli scarti del pesce.
Ancora oggi esistono echi del garum nella nostra cucina tradizionale. Per esempio a Cetara, un borgo di pescatori della Costiera Amalfitana. Qui, da tempi immemorabili, si produce la colatura di alici, una salsa dal colore ambrato molto simile al garum. Le alici, prive della testa ed eviscerate, vengono messe sotto sale in un piccolo tino di legno. Il tutto viene, poi, sottoposto a pressione mediante un grosso peso e lasciato a maturare per quattro mesi. Alla fine si pratica un foro sul tino e si spilla ciò che si è raccolto sul fondo.
Ma il garum, per i Romani, non era solo una salsa da utilizzare come condimento. Era, anche, una sorta di panacea per ogni male. Serviva a curare i morsi dei cani e persino dei coccodrilli. Guariva le ustioni e le ulcere della bocca, anche. E veniva utilizzato persino in veterinaria. Lucio Giunio Columella, vissuto tra il 4 ed il 70 d.C., lo suggerisce come rimedio per una malattia mortale, la labes, che infettava le cavalle. Bisognava versare il garum nelle narici dell'animale in dosi dai 2 ai 3 litri.
Gli studiosi pensano, addirittura, che i Romani utilizzassero il garum per insaporire l'acqua, un pò come il nostro sciroppo. La parte solida, derivante dalla lavorazione della salsa e chiamata allec, non veniva gettata, ma si utilizzava come cibo, a mò di crema da spalmare sul pane.
Sicuramente le città di mare dovevano essere specializzate nella produzione massiccia del prezioso condimento. Soprattutto le città della Campania, nei pressi della foce del fiume Sarno, dove sorgeva il porto e, poco distanti, si potevano trovare le Saline d'Ercole. Resti delle antiche vasche di evaporazione per la produzione del garum non sono mai state rinvenute, ma la loro presenza è rimasta nel ricordo che si è tramandato attraverso il toponimo Porta di Sale, la via che collega, attualmente, Torre Annunziata ad Ercolano.
A Pompei è stato ritrovato il laboratorio di un certo Umbricio Scauro, noto commerciante, la "Casa del garum", dove erano sette anfore con residui del prezioso condimento. Studiando questi residui, il professor Alfredo Carannante, dell'Università Orientale di Napoli, ha concluso che per il garum sono state utilizzate esclusivamente boghe, note come vope, pesciolini che vivono in branchi a media profondità. Altri pesci utilizzati erano: sardine, alose, acciughe e spigole. Plinio, nella sua Naturalis Historia, ci informa che la macerazione del pesce non durava più di un mese. Le boghe, poi, venivano pescate in gran quantità in estate. Tra le coste interessate alla raccolta dell'ingrediente principale del garum vi erano le odierne Lebda, in Libia, Kilizman, in Turchia e l'area degli scavi di Baelo Claudia, in Spagna. Qui è stato scoperto un edificio, vicino la spiaggia, che era stato ideato per ottenere la più alta produzione di garum possibile.
Ma non è solo il garum a fare da testimone degli antichi tempi nella ambasciate del nostro paese, ci sarà anche il vino prodotto dalle stesse uve che coltivavano gli antichi Romani, cresciute su vitigni impiantati negli scavi di Pompei. I vini sono l'aglianico, lo sciascinoso ed il piedirosso.
Queste alcune delle iniziative che legano gli scavi di Pompei ad esperimenti per riportare i sapori dell'agricoltura dei nostri antenati. Semi, pollini, frammenti vegetali e residui di cibo che si sono conservati per millenni sotto la lava sono, oggi, analizzati dal Laboratorio di Ricerche Applicate della Soprintendenza di Pompei. Queste analisi hanno dato luogo ad un variegato acquarello della cucina antica che era molto diversa dalla nostra. Vi trionfavano i gusti sapidi e gli odori marini: per esempio proprio il garum, onnipresente nei piatti dell'epoca al punto da venire, oggi, definito il ketchup dell'antichità.
La ricetta del garum, però, lascia alquanto perplessi: "Dagli intestini dei pesci e dalle altre interiora che si dovrebbero buttare via, dopo averli fatti macerare col sale affinché ci sia quel tipico sangue marcio delle cose che imputridiscono, si ricavava anche un altro tipo di squisita salsa, che si chiamava "garo". Questa un tempo si otteneva dal pesce, che i greci chiamavano garon", scrive Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia.
I Romani erano ghiottissimi di questa salsa che sembra essere, a noi moderni, assai poco allettante. Era un prodotto preziosissimo, il garum, ed era al centro di traffici commerciali che si svolgevano nel Mediterraneo. Continua Plinio: "Quasi nessuna altra salsa, tranne gli unguenti, comincia ad avere un prezzo più alto, anche tra le famiglie nobili. La Mauritania e anche la Carteia della Betica catturano gli sgombri che provengono dall'Oceano, a nient'altro utili. Clazomene, Pompei e Leptis sono apprezzate per il garum". Il garum era, in poche parole, un condimento pregiato, per i ricchi uno status symbol.
Petronio, nel Satyricon, descrivendo la tavola di Trimalcione, scrive di un immenso vassoio con una lepre e agli angoli quattro statuette che versano del garum su una guarnitura di pesci. Un trionfo che la dice lunga su quanto la salsa fosse apprezzata.
Anticamente non vi era l'usanza di salare i cibi, poichè il sale era un bene assai prezioso ed era considerato uno spreco, utilizzarlo sulle vivande. La salamoia, pertanto, permetteva di condire le pietanze riutilizzando il sale che era stato utilizzato per conservare i cibi. Inoltre il garum permetteva di riutilizzare anche gli scarti del pesce.
Ancora oggi esistono echi del garum nella nostra cucina tradizionale. Per esempio a Cetara, un borgo di pescatori della Costiera Amalfitana. Qui, da tempi immemorabili, si produce la colatura di alici, una salsa dal colore ambrato molto simile al garum. Le alici, prive della testa ed eviscerate, vengono messe sotto sale in un piccolo tino di legno. Il tutto viene, poi, sottoposto a pressione mediante un grosso peso e lasciato a maturare per quattro mesi. Alla fine si pratica un foro sul tino e si spilla ciò che si è raccolto sul fondo.
Ma il garum, per i Romani, non era solo una salsa da utilizzare come condimento. Era, anche, una sorta di panacea per ogni male. Serviva a curare i morsi dei cani e persino dei coccodrilli. Guariva le ustioni e le ulcere della bocca, anche. E veniva utilizzato persino in veterinaria. Lucio Giunio Columella, vissuto tra il 4 ed il 70 d.C., lo suggerisce come rimedio per una malattia mortale, la labes, che infettava le cavalle. Bisognava versare il garum nelle narici dell'animale in dosi dai 2 ai 3 litri.
Gli studiosi pensano, addirittura, che i Romani utilizzassero il garum per insaporire l'acqua, un pò come il nostro sciroppo. La parte solida, derivante dalla lavorazione della salsa e chiamata allec, non veniva gettata, ma si utilizzava come cibo, a mò di crema da spalmare sul pane.
Sicuramente le città di mare dovevano essere specializzate nella produzione massiccia del prezioso condimento. Soprattutto le città della Campania, nei pressi della foce del fiume Sarno, dove sorgeva il porto e, poco distanti, si potevano trovare le Saline d'Ercole. Resti delle antiche vasche di evaporazione per la produzione del garum non sono mai state rinvenute, ma la loro presenza è rimasta nel ricordo che si è tramandato attraverso il toponimo Porta di Sale, la via che collega, attualmente, Torre Annunziata ad Ercolano.
A Pompei è stato ritrovato il laboratorio di un certo Umbricio Scauro, noto commerciante, la "Casa del garum", dove erano sette anfore con residui del prezioso condimento. Studiando questi residui, il professor Alfredo Carannante, dell'Università Orientale di Napoli, ha concluso che per il garum sono state utilizzate esclusivamente boghe, note come vope, pesciolini che vivono in branchi a media profondità. Altri pesci utilizzati erano: sardine, alose, acciughe e spigole. Plinio, nella sua Naturalis Historia, ci informa che la macerazione del pesce non durava più di un mese. Le boghe, poi, venivano pescate in gran quantità in estate. Tra le coste interessate alla raccolta dell'ingrediente principale del garum vi erano le odierne Lebda, in Libia, Kilizman, in Turchia e l'area degli scavi di Baelo Claudia, in Spagna. Qui è stato scoperto un edificio, vicino la spiaggia, che era stato ideato per ottenere la più alta produzione di garum possibile.
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